RINUNCIA ALL'AZIONE DI RESPONSABILITA' E PATTI DI MANLEVA 

 

 

Il nostro ordinamento non disciplina espressamente i contratti di cessione di partecipazioni sociali, sebbene il capo I del titolo VIII, libro V, del codice civile preveda una parziale disciplina per la cessione dell’azienda, bene materiale sottostante. Pertanto, sebbene nella prassi il c.d. SPA (sale and purchase agreement) abbia acquisito dei connotati tipici, lo stesso rimane pur sempre un contratto non tipizzato dall’ordinamento giuridico italiano per cui le perplessità sulle pattuizioni ivi disciplinate non trovano riscontro nel diritto positivo, ma impongono all’operatore di confrontarsi con gli orientamenti giurisprudenziali e con la prassi del settore.

 

L’incertezza nella quale l’operatore giuridico si trova ad operare è chiaramente percepibile dall’analisi della giurisprudenza di legittimità sul tema, che non ha mancato di qualificare l’SPA (sale and purchase agreement) quale “complesso regolamento negoziale”, fattispecie contrattuale in cui logica traslativa e assicurativa coesistono (ex multis Cass. civ. n. 16031/2007).

Tra le varie pattuizioni frutto dell’autonomia privata non di rado i contraenti, nell’ambito della definizione degli equilibri economici dell’operazione, prevedono apposite pattuizioni volte ad evitare o disincentivare l’esercizio da parte del soggetto acquirente la partecipazione sociale, acquisito lo status di socio, di azioni di responsabilità verso i membri dell’organo gestorio espressione della vecchia compagine sociale. 

Alla luce delle considerazioni suesposte, appare evidente che tali pattuizioni sono solo un tassello del più ampio mosaico, frutto dell’autonomia negoziale, disciplinato dall’SPA. Infatti, tali pattuizioni non sono legate a considerazioni di carattere giuridico, bensì strettamente economiche in quanto mirano ad assicurare che vi sia un equilibrio economico tra corrispettivo della partecipazione, rischi assunti da parte venditrice con il rilascio delle c.d. Representations & Warranties e la possibilità che parte acquirente riesca ad ottenere un duplice vantaggio, a fronte del medesimo evento dannoso, eccependo una gestione sociale in contrasto con gli obblighi di diligenza previsti.

Tali pattuizioni sono maggiormente frequenti in tutti quei casi in cui sono coinvolte imprese familiari, caratterizzate dall’identificazione di diversi organi sociali nei medesimi membri della famiglia, e contribuiscono a determinare l’equilibrio contrattuale complessivo, nonché l’interesse delle parti alla realizzazione di una determinata operazione.

Di seguito viene preso in considerazione il dibattito che ruota attorno alle S.p.A., la cui disciplina è maggiormente normata, ma le considerazioni potrebbero estendersi mutatis mutandis alle S.r.l., essendo condivisa la ratio delle norme richiamate e pattuizioni utilizzate.

Il primo aspetto sul quale è certamente interessante soffermarsi è che sebbene nella prassi l’impegno del nuovo socio a non deliberare a favore dell’azione sociale di responsabilità di cui all’art 2393 c.c. e l’astensione dello stesso dalla promozione di una azione ex art. 2393 bis c.c., sia un vero e proprio “must be” all’intero degli SPA in cui si cedono partecipazioni di controllo, la giurisprudenza non ha mancato di esprimere tutte le sue perplessità verso simili rinunce preventive.

Solo di recente, una giurisprudenza meno “formalista” e maggiormente attenta alle esigenze economiche dell’operazione e al rispetto degli equilibri contrattuali raggiunti tra le parti ha mostrato segni di apertura a favore di una maggiore valorizzazione dell’autonomia privata. Tuttavia, come illustrato di seguito, si tratta di un orientamento ancora in corso di evoluzione e non del tutto maturo. 

In questo contesto di incertezza, generalmente le pattuizioni ad alto rischio di contestazione si snodano nel duplice impegno da parte del socio uscente:

- a non deliberare a favore di un’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c.;

- a deliberare contro un’azione sociale di responsabilità esercitata dai soci ex art. 2393 bis c.c. 

La prima fattispecie non crea particolari problemi poiché, come precisato dalla giurisprudenza di merito, il nostro ordinamento non vieta ad un socio di astenersi dall’assumere una determinata delibera (Trib. Milano del 24 giugno 2016); per converso non esiste l’onere di assumere tassativamente una determinata delibera. L’assenza di particolari critiche è comunque controbilanciata dalla poca efficacia dello strumento, soprattutto in presenza di una compagine sociale ampia.

La seconda fattispecie, sebbene astrattamente idonea a raggiungere l’obiettivo perseguito dalle parti, è generalmente considerata dalla giurisprudenza affetta da nullità, quale pattuizione volta a prevenire l’avvio di azioni di responsabilità. Tale invalidità è stata fondata su argomentazioni diverse, ma complementari. 

Per un verso è stato osservato come la stessa sarebbe nulla in quanto frutto di un endemico conflitto di interessi esistente tra società e (nuovo) socio (Cass. civ. n. 7030/1994). La giurisprudenza richiamata segnala che l’interesse sociale non necessariamente coincide con l’interesse dei singoli soci e che non deve trarre in inganno l’assenza dell’indebito vantaggio generato, a mente dell’art. 2373 c.c., in quanto l’interesse del (nuovo) socio sarebbe soddisfatto anteriormente a e al di fuori di un processo deliberativo.

Per l’altro è stata sostenuta la natura imperativa delle norme in materia di responsabilità degli amministratori, quali norme poste a tutela dell’interesse sociale, volte a prevenire la prevalenza dell’interesse del singolo socio sull’interesse sociale (Cass. civ. n. 20215/2010).

In entrambi i casi il file rouge dell’invalidità della pattuizione è dato dall’interesse personale del nuovo socio, maturato e negoziato nel corso dell’acquisizione dello status soci, che rischia di ledere l’interesse sociale e quello di tutti quei terzi che confidano sul funzionamento di alcuni istituti societari, quale appunto l’azione sociale di responsabilità, e sugli stessi fondano la ragionevole e legittima aspettativa che la società sia gestita e amministrata diligentemente. 

Appare evidente che le due pronunce di legittimità attribuiscano natura istituzionale alla disciplina della responsabilità, contraltare imprescindibile ai noti profili critici generati dalla separazione tra proprietà e controllo che caratterizza le società di capitali (assenza di omogeneità tra chi sopporta il rischio d’impresa e chi gestisce la stessa).L’orientamento della Corte Suprema è poi stato fatto in parte proprio dai giudici meneghini nel celeberrimo contenzioso che ha coinvolto i gruppi FonSai e Ligresti (Trib. Milano n. 42294-1/2013. Nello stesso senso Trib. Milano n. 7946/2014).

Tuttavia, i giudici meneghini hanno introdotto un elemento di novità. Infatti, pur dichiarando la nullità del patto di non esercizio dell’azione di responsabilità oggetto di controversia, ripercorrendo le argomentazioni del giudice nomofilattico, muovono un passo, seppur in astratto, verso una maggiore valorizzazione dell’autonomia privata. Il provvedimento citato, non dichiara il patto nullo tout court, ma solo in relazione alla peculiare situazione concreta che di fatto ha portato ad una rinuncia dell’azione sociale di responsabilità avvenuta in violazione alle prescrizioni di cui all’art. 2393, co. 6, c.c.

Le pattuizioni analizzate sono anche state considerate invalide in quanto configuranti una sorta di “vendita del diritto di voto”. Tale obiezione è comunque superabile tenuto conto che nella stessa relazione del codice civile veniva data espressamente legittimità ai sindacati di voto (categoria in cui si fanno rientrare i patti di rinuncia analizzati), le cui molteplicità di utilizzo avevano disincentivato il legislatore a prevedere una disciplina astratta a favore di una valutazione del caso concreto di volta in volta oggetto di analisi (legittimità confermata anche dalla Cass. civ. n. 9975 /1995).

In un panorama giurisprudenziale caratterizzato da un orientamento costante circa la nullità di simili pattuizioni, la valorizzazione dell’autonomia privata e l’importanza di preservare gli equilibri contrattuali sono i driver dell’innovativo provvedimento assunto dai giudici capitolini che, in segno di apertura, considerano illegittimi solo i sindacati di voto che, impattando sulla gestione futura della società, minerebbero l’operatività delle norme che costituiscono il deterrente normativo principale diretto a dissuadere e prevenire condotte di mala gestio (Trib. Roma n. 19193/2015). Viene quindi affermato che i sindacati di voto che facciano riferimento ad attività pregresse non violano la struttura normativa della responsabilità, in quando non impedirebbero la funzione deterrente di tali norme.

La chiave di volta della pronuncia consiste nel dare valore alla sostanza al di là della forma. I giudici capitolini evidenziano infatti come alcune valutazione di opportunità ben possono essere effettuata al di fuori del procedimento assembleare e prima dello stesso. Infatti, se i soci sono liberi di assumere una determinata delibera in sede sociale, la medesima libertà dovrebbe caratterizzare le decisioni assunte al di fuori del procedimento assembleare.

Il provvedimento sotto tale aspetto si pone in un’ottica di apertura rispetto al precedente orientamento di legittimità per cui la rinuncia dell’azione di responsabilità debba necessariamente passare da una delibera assembleare, anche quando, come nel caso di specie, la stessa era stata preventivamente approvata da tutti i soci (Cass. Civ. 14963/2011).

Sebbene gli strumenti sopra menzionati favoriscano evidentemente la circolazione delle partecipazioni e l’avvicendamento delle compagini sociali, in quanto volte a tutelare il management uscente, di cui spesso parte venditrice è parte, in attesa di ulteriori contributi giurisprudenziali, per evitare ogni possibile contestazione sarebbe maggiormente tutelante far precedere al mutamento della compagine sociale una delibera assembleare di rinuncia ex art. 2393, comma 6, c.c.

Per raggiungere il medesimo obiettivo, senza tuttavia incorrere in illegittimità, la prassi negoziale ha applicato alle operazioni di cessione dei pacchetti partecipativi l’istituto atipico della manleva. A ben vedere tale pattuizione atipica non surroga l’impegno a non promuovere e/o deliberare l’azione di responsabilità bensì è volta a tenere indenne gli amministratori qualora si verificassero le circostanze che le clausole precedentemente analizzate mirano ad evitare. Si tratta quindi di uno strumento volto a neutralizzare in concreto gli effetti pregiudizievoli che potrebbero discendere in capo agli amministratori quale conseguenza dell’esercizio di azioni di responsabilità (raramente azioni esercitate dai creditori sociali ex art. 2394c.c.).

Le due fattispecie, sindacato di voto sull’azione di responsabilità e patto di manleva, si collocano su un piano diverso: societario il primo e risarcitorio il secondo. Il primo esclude la responsabilità, mentre il secondo la presuppone dando luogo ad una traslazione del rischio.

Sebbene il patto di manleva sia astrattamente considerato legittimo (Cass. civ. n. 15891/2001), la modalità di utilizzazione nella prassi dell’istituto in relazione ai pregiudizi derivanti da comportamenti gestori ha portato la giurisprudenza a mostrare parecchie perplessità. Infatti, il noto provvedimento del Tribunale di Milano del 2013 sopra richiamato ha evidenziato come nella prassi gli accordi di manleva siano principalmente invalidi per due ordini di ragioni:

- eccessiva genericità dell’oggetto, non essendo lo stesso determinato e/o determinabile, trattandosi spesso di fatti che sopravvengono al rilascio della manleva;

- violazione di disposizioni previste da contratti tipici, applicabili per analogia alla manleva. Ci si riferisce all’art. 1938 c.c. (che impone il requisito del limite massimo ai fini della validità della fideiussione) e all’art. 1917 (che esclude espressamente i danni derivanti da fatti dolosi).

Sebbene tali argomentazioni siano state da più parti criticate in quanto per un verso, l’oggetto del patto di manleva sarebbe pur sempre circoscritto all’attività svolta dall’amministratore nell’ambito delle proprie funzioni e, per l’altro, l’art. 1938 c.c.non sarebbe automaticamente estensibile per analogia al patto di manleva in quanto difetterebbe la ratio sottostante che ha portato il legislatore a prevedere la necessità del limite massimo per le fideiussioni omnibus prestate per obbligazioni futuri, si rileva l’assenza di provvedimenti giurisprudenziali che depongono chiaramente a favore dei patti di manleva così come generalmente formulati nella prassi negoziale nell’ambito degli SPA.

Sul punto si rileva che solo in un provvedimento, ormai datato, i giudici di legittimità sembrano non considerare nulla tout court una simile pattuizione, rinviando al giudice del merito l’analisi della validità alla luce della fattispecie concreta (Cass. civ. n. 28884/2010).

In attesa di indicazioni giurisprudenziali univoche, indipendentemente dalle considerazioni giuridiche circa la natura giuridica dei patti di manleva, la ratio sottostante e le disposizioni di istituti affini applicabili per analogia, un atteggiamento prudente imporrebbe agli operatori del settore di tenere conto di tutte le indicazioni fornite dalla giurisprudenza al fine di articolare tutti quegli accorgimenti che, in un panorama di incertezza, possano astrattamente essere in grado di conferire maggiore stabilità alle scelte dell’autonomia privata.

Novembre 2020