I LIMITI DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL PROFESSIONISTA INTELLETTUALE
Sommario:
1. La professione intellettuale come professione
protetta
2. L'obbligo di informazione come fonte di responsabilità
professionale
3. L'obbligo di diligenza di cui all'art. 1176 c.c. Graduazione
della diligenza nei singoli ambiti professionali
4. L'obbligazione del
professionista come obbligazione di mezzi e non di risultato: critica alla
dottrina relativa
5. Recupero della distinzione tra obbligazioni di mezzi e
di risultato da parte della giurisprudenza e tentativi di superamento in
relazione alle singole professioni
6. La colpa professionale : tentativi di
definizione
7. L'art. 2236 c.c. Origine della norma e sua limitazione
giurisprudenziale. Progressiva restrizione dell'area della irresponsabilità
professionale
8. Il problema dell'onere della prova
9. Concorso tra la
responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale; in particolare, il caso
del medico dipendente da una struttura ospedaliera.
1. La professione intellettuale come professione
protetta
È molto difficile tentare di indicare, anche solo nei punti
essenziali, i principali problemi giuridici connessi con l'esercizio delle
professioni intellettuali al fine di delimitare gli odierni confini della
responsabilità professionale . La materia è di per sé complessa, in continua
evoluzione, e con essa il cammino della giurisprudenza, sicché i criteri fissati
in anni passati oggi non sono più validi. D'altra parte, da un lato i
cambiamenti della nostra società verso forme di attività sempre più sofisticate
impongono ai professionisti un continuo aggiornamento; dall'altro, il cliente
per così dire «medio» che si rivolge a un professionista è oggi ben più avveduto
di quanto fosse trenta o cinquant'anni fa, più esigente e maggiormente in grado
di controllare l'operato del tecnico del quale chiede le prestazioni.
Il
codice civile, che è del 1942, aveva già avvertito la delicatezza della materia,
come si nota dal fatto che lo svolgimento di una professione intellettuale si
caratterizza, nel sistema, per numerose peculiarità. Questo è, probabilmente, il
primo punto di partenza per la nostra riflessione, ossia la consapevolezza che
la professione intellettuale è comunque una professione particolare, protetta,
nella quale l'aspetto privatistico contrattuale non è l'unico, proprio perché
tale attività trascende l'interesse del singolo e riguarda l'intera
collettività. La prestazione del professionista intellettuale, pur rientrando
nella generale categoria delle obbligazioni c.d. «di fare», è regolata
autonomamente nel capo II del titolo III del libro V del codice civile; si
tratta certamente di lavoro autonomo (cui è intitolato, appunto, il citato
titolo III), ma di un lavoro autonomo che è diverso da quello del contratto
d'opera, perché in esso il dispiegamento dell'intelletto, e perciò di una certa
dose di autonomia, è un dato essenziale che si riflette, come vedremo, nella
disciplina positivamente prevista.
D'altra parte, la valenza pubblicistica
delle professioni intellettuali emerge da molti fattori. Per poter svolgere una
qualunque di queste professioni, ad esempio, è necessario nella grande
maggioranza dei casi essere iscritti in un ordine professionale di categoria;
ciò comporta, fra l'altro, un esame di ammissione, la soggezione alla disciplina
interna amministrata generalmente da un consiglio dell'ordine e l'inserimento in
un sistema previdenziale che per molti aspetti è significativamente diverso da
quello cui fanno capo i lavoratori subordinati ed anche gli stessi lavoratori
autonomi. E ad ulteriore e sicura conferma di quanto detto sta l'interesse del
diritto penale nei confronti delle professioni intellettuali, che si manifesta
attraverso l'espressa previsione di una serie di reati propri che possono essere
commessi soltanto da chi appartiene a una di tali categorie.
La necessità di
iscriversi a un albo professionale (con tutto ciò che consegue) è il primo
segno, per così dire, dell'appartenenza ad una categoria particolare cui
l'ordinamento riconosce la possibilità di svolgere una peculiare funzione e
ricollega, in una sorta di bilanciamento, alcune specifiche responsabilità . In
più occasioni, del resto, la Corte costituzionale ha ripetuto che l'esistenza di
albi e ordini professionali (con accesso limitato) non può di per sé costituire
violazione del diritto al lavoro previsto dall'art. 4 cost. (1).
2. L'obbligo di informazione
come fonte di responsabilità professionale
Prima di addentrarci
nella disamina degli obblighi che gravano sul professionista nella fase di
esecuzione del contratto, sembra opportuno accennare al momento delle c.d.
«trattative», durante le quali l'obbligo di corretta informazione costituisce
uno dei punti caratteristici. L'attività del professionista si deve esplicare,
infatti, prima ancora di procedere all'esatto adempimento della prestazione, in
una corretta informazione del cliente circa i possibili rischi, vantaggi e
svantaggi derivanti dal contratto d'opera professionale .
Negli ultimi tempi
si è assistito a un'evoluzione della giurisprudenza, soprattutto in campo
medico, nel senso di attribuire a tale obbligo un'importanza sempre crescente; e
il motivo è, del resto, del tutto condivisibile. In tale ambito, per esempio, il
dovere di informazione si collega alla necessità di un valido consenso da parte
del paziente, senza del quale gli atti medici (e soprattutto quelli chirurgici)
verrebbero ad essere impediti dagli art. 13 e 32 cost. La Corte di cassazione
osserva che il dovere di informazione deve riguardare la natura dell'intervento,
la portata e l'estensione dei suoi risultati, nonché le possibilità e le
concrete probabilità di successo; la mancata osservanza di tale obbligo
costituisce violazione del principio di buona fede di cui all'art. 1137 c.c. (2). L'obbligo viene meno, per ovvie ragioni,
soltanto quando le condizioni di pericolo del paziente siano tali da creare lo
stato di necessità, effettivo o almeno putativo (3).
Il fatto che il
paziente debba essere adeguatamente informato è un concetto che la
giurisprudenza ha ribadito in diversi campi dell'attività medica; in Cass. 15
gennaio 1997 n. 364 (4), ad esempio, si doveva decidere un caso di
responsabilità professionale conseguente ad esiti invalidanti derivati da una
scorretta esecuzione dell'anestesia c.d. «epidurale». La Corte di merito aveva
ritenuto che il consenso prestato dalla paziente all'intervento chirurgico
presupponesse implicitamente l'accettazione del trattamento anestesiologico,
affermando quindi che il consenso all'anestesia fosse presunto. La Suprema
Corte, invece, ha ribaltato tale decisione e annullato la sentenza di merito,
sulla base dell'affermazione per cui, se è vero che il consenso all'intervento
può far presumere quello allo svolgimento delle necessarie attività preliminari
(come l'anestesia), ciò non esclude che, qualora esistano diverse possibili
alternative di esecuzione dell'anestesia, il paziente debba essere informato dei
diversi rischi collegati a ciascuna di tali alternative, allo scopo di poter
scegliere l'una o l'altra con piena consapevolezza delle possibili conseguenze.
Uno dei campi in cui maggiormente si discute dei limiti dell'obbligo di
informazione è, al momento, quello della chirurgia estetica. Questi tipi di
intervento, infatti, non sono strettamente necessari per lo stato di salute del
paziente, il che comporta un più intenso atteggiarsi del dovere di informazione.
Fra le varie pronunce è famosa quella della spogliarellista sottopostasi ad un
intervento di chirurgia plastica al seno cui erano conseguiti esiti cicatriziali
in relazione ai quali il medico non aveva adeguatamente adempiuto al proprio
dovere di informazione (5). Ma altrettanto significativa è Cass. 6 ottobre
1997 n. 9705 (6), la quale giunge a conclusioni particolarmente
severe proprio in ragione della ritenuta necessità di un rigoroso obbligo di
informazione. Nel caso specifico si trattava di un intervento eseguito su di una
donna (di trentotto anni all'epoca dei fatti) al fine di ridurre alcune masse
adipose in eccesso, intervento dal quale erano derivate imponenti cicatrici
(estensione complessiva di circa un metro e mezzo). La Suprema Corte, nel
confermare la sentenza di secondo grado che aveva condannato il medico chirurgo
al risarcimento dei danni, ha evidenziato che, pur dovendosi ritenere tali
cicatrici inevitabili in rapporto alla quantità di massa adiposa da eliminare -
sicché l'intervento chirurgico era da considerarsi eseguito a regola d'arte -
tuttavia esse acquistano ugualmente rilievo come danno risarcibile, poiché la
donna non era stata al riguardo adeguatamente e previamente informata.
E in tale ambito
la giurisprudenza è giunta anche a differenziare l'entità dell'obbligo di
informazione a seconda che l'intervento miri al miglioramento estetico del
paziente ovvero alla ricostituzione delle sue normali caratteristiche fisiche (7). La fattispecie che ha dato origine a
simile pronuncia è alquanto singolare, perché si trattava di un uomo che voleva
rimuovere alcuni tatuaggi (dal contenuto osceno e ripugnante) impressi sul
proprio corpo in una fase precedente della vita, la cui persistenza gli creava
enormi disagi di tipo psicologico. La Corte di cassazione ha cassato la
pronuncia d'appello affermando che il giudice di secondo grado avrebbe dovuto
stabilire se si fosse trattato di un intervento di chirurgia plastica «estetica»
ovvero di chirurgia plastica «ricostruttiva», perché diversa è la situazione di
chi intende migliorare le proprie apparenze estetiche rispetto a quella di chi
desidera porre rimedio ad uno stato «da esso stesso voluto e provocato, ma
successivamente ritenuto ripugnante». Nel secondo caso l'obbligo di informazione
si affievolisce, limitandosi agli esiti «che, contrariamente agli intenti del
paziente, potrebbero rendere vana l'operazione non comportando in sostanza un
effettivo miglioramento».
Sempre in ambito medico,
inoltre, l'obbligo di corretta informazione nei confronti del paziente ha dovuto
negli anni più recenti confrontarsi, per così dire, con una materia molto
delicata, ossia quella del diritto della donna all'interruzione della gravidanza
e dell'eventuale responsabilità del medico in tale ambito. In questa sede,
naturalmente, non ha interesse ricostruire il dibattito giurisprudenziale sul
diritto all'aborto e sulle conseguenti pretese risarcitorie; quello che importa,
invece, è soffermare l'attenzione sulle sentenze che hanno riconosciuto la
responsabilità civile del medico a seguito di una incompleta o scorretta
attività di informazione.
La prima sentenza di rilievo
in quest'ambito consegue ad un caso del tutto particolare, in cui la domanda di
risarcimento danni nei confronti del medico era stata proposta per un atto di
interruzione della gravidanza al quale non aveva fatto seguito l'evento
desiderato, poiché la gravidanza era ugualmente proseguita e il bambino era nato
(8). Si trattava di una ragazza
minorenne alla quale era stato praticato l'intervento di interruzione senza
peraltro informarla della necessità di attendere il risultato dell'esame
istologico del materiale asportato per avere la certezza dell'esito positivo
dell'intervento. Ella era stata poi dimessa contro il parere dei medici e la
gravidanza aveva proseguito regolarmente il suo corso. La Corte di cassazione,
pur annullando con rinvio la sentenza d'appello per motivi inerenti alla
determinazione del danno, ha riconosciuto che la Corte di merito aveva
correttamente ritenuto la responsabilità della struttura sanitaria proprio per
il mancato rispetto del dovere di informativa, ritenuto un «preciso dovere di
carattere generale».
Le sentenze successive, invece,
affrontano il medesimo problema da un diverso angolo visuale. Qui la domanda di
risarcimento conseguiva alla mancata attività di informazione, da parte del
medico, in ordine all'esistenza di gravi malformazioni del nascituro che, ove
conosciute, avrebbero potuto indurre la donna ad optare per l'interruzione
volontaria della gravidanza (9).
Non ha molta importanza il tipo di malattia con la quale il bambino era venuto
al mondo ed era stato poi costretto a convivere in futuro; ciò che conta è che
la Corte di cassazione ha sempre confermato la necessità di una completa,
corretta e tempestiva attività di informazione della gestante da parte del
medico, in vista del possibile esercizio dei diritti riconosciuti dalla l. 22
maggio 1978 n. 194. Particolarmente interessante è, a questo riguardo, Cass. 10
maggio 2002 n. 6735 (10),
nella quale la Corte ha respinto il ricorso contro la sentenza d'appello che
aveva condannato un ginecologo per non aver rilevato tempestivamente, attraverso
gli strumenti della diagnosi prenatale, l'esistenza della sindrome di Apert,
grave malattia che determina alterazioni del cranio e sindattilia delle mani e
dei piedi, la cui conoscenza avrebbe potuto consentire alla madre di valutare
l'opportunità dell'interruzione della gravidanza.
In
giurisprudenza non è pacifico se l'obbligo di informazione da parte del medico
sia da ricondurre alla responsabilità precontrattuale oppure a quella
contrattuale (11), e certamente non è facile
stabilire una precisa linea di confine quando, ad esempio, insorgono delle
complicazioni nel corso di un'attività terapeutica già intrapresa. Ci sembra,
tuttavia, che si assista a una progressiva attrazione di tali obblighi
nell'ambito contrattuale, il che è complessivamente condivisibile. Ciò, infatti,
oltre a determinare un incremento dei margini di responsabilità professionale ,
appare più in sintonia con il concreto svolgersi dei rapporti di tale genere. È
evidente, infatti, che il cliente si rivolge al professionista innanzitutto per
chiedere un parere sull'opportunità o meno di una certa iniziativa, ma tale
attività di consulenza è già in qualche misura una prestazione tipica del
contratto in questione, come appare a proposito delle attività dell' avvocato e
del notaio. E tale criterio vale anche a proposito di professioni intellettuali
diverse da quella del medico.
Si pensi al cliente che si
rivolge a un legale per decidere se sia o meno il caso di intraprendere una
determinata iniziativa giudiziaria. L' avvocato ha il dovere di valutare la
saggezza e l'opportunità dell'iniziativa, se del caso sconsigliando di procedere
in una direzione che porterà certamente, ad esempio, ad una sconfitta giudiziale
con relativo onere di spese. Egli avrà diritto di chiedere un compenso per la
propria attività di consulenza e l'eventuale comportamento omissivo in questa
fase di informazione deve essere ricondotto ad un ambito già contrattuale,
potendosi affermare che il contratto d'opera professionale è stato concluso nel
momento in cui il cliente si è rivolto all' avvocato chiedendogli il parere. E
la responsabilità civile di quest'ultimo non verrà meno a seguito del
comportamento, magari ineccepibile, tenuto dal legale in occasione dell'attività
giudiziaria da lui (malaccortamente) intrapresa.
In
riferimento alla professione notarile, poi, la giurisprudenza riconosce la
responsabilità per carente o inesatto svolgimento di una serie di attività
informative che precedono la stipula del contratto vero e proprio (12) e riconduce tale tipo di responsabilità
a quella contrattuale, risolvendosi il corretto adempimento del contratto
d'opera professionale anche nello scrupoloso svolgimento delle attività
«preparatorie e successive, necessarie in quanto tese ad assicurare la serietà e
la certezza dell'atto giuridico posto in essere» (13). Uno degli aspetti più significativi di
tale responsabilità di carattere informativo è costituito dall'obbligo di
compiere gli accertamenti necessari a verificare che il bene oggetto dell'atto
di acquisto sia libero da trascrizioni o iscrizioni pregiudizievoli. La Corte di
cassazione ha riconosciuto, nella sentenza 15 giugno 1999 n. 5946 (14), che il notaio è tenuto, in caso di
stipula di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, alla preventiva
verifica della libertà e disponibilità del bene attraverso il controllo dei
pubblici registri immobiliari, se del caso dissuadendo il cliente dal compimento
dell'atto. Nel caso in esame, l'acquirente Tizio aveva comprato un immobile da
Caio il cui atto di acquisto da Sempronio era stato a suo tempo dichiarato
inefficace nei confronti di Mevio, con sentenza regolarmente annotata nei
registri immobiliari; la Corte ha confermato la sentenza d'appello che aveva
riconosciuto la responsabilità del notaio rogante per non aver adeguatamente
sconsigliato Tizio dal compiere un atto di acquisto inevitabilmente assai
rischioso in conseguenza dell'incertezza sull'atto di provenienza.
Molto interessanti sono, poi, le pronunce menzionate nelle
quali la Corte di cassazione si è occupata dell'obbligo di informazione nei casi
in cui le parti avevano appositamente esonerato il notaio dal compiere le
visure. In Cass. 6 aprile 2001 n. 5158 (15), per esempio, nonostante la presenza
della clausola di esonero, la Corte ha confermato la sentenza d'appello che
aveva ugualmente desunto la responsabilità del notaio sulla base di una serie di
elementi; e fra questi spicca il fatto che la clausola fosse contenuta in un
modulo predisposto dallo stesso notaio e che fosse stato proprio quest'ultimo ad
iscrivere, con atto rogato pochi mesi prima, l'ipoteca sul medesimo bene oggetto
della successiva compravendita. A una diversa conclusione perviene, invece,
Cass. 18 gennaio 2002 n. 547 (16),
che nega ogni responsabilità del notaio in presenza di una clausola di esonero
dalle visure; qui, però, le risultanze di merito, sorrette da adeguata
motivazione, erano nel senso che la natura dell'atto di acquisto (scrittura
privata autenticata anziché atto pubblico) e il brevissimo tempo trascorso tra
il momento in cui le parti si erano presentate al notaio e quello della stipula
dell'atto fossero un indice indiscutibile della piena efficacia della clausola
di esonero inserita nella scrittura privata.
3. L'obbligo di diligenza di cui
all'art. 1176 c.c. Graduazione della diligenza nei singoli ambiti
professionali
Ciò premesso in ordine agli
obblighi di informazione, va detto che la responsabilità del professionista
intellettuale è considerata dal nostro ordinamento come tipicamente contrattuale
(17), sussistendo per la
responsabilità aquiliana dei margini alquanto ridotti sui quali in seguito
brevemente ritorneremo.
Il professionista, cioè, è
tenuto nei confronti del proprio cliente all'esatto adempimento
dell'obbligazione contrattualmente assunta, come enuncia l'art. 2230 c.c. E si
tratta di un'obbligazione particolare per la quale l'art. 1176 c.c. pone la
regola della diligenza qualificata; mentre nel comma 1, infatti, si afferma
genericamente che nell'adempimento delle obbligazioni il debitore «deve usare la
diligenza del buon padre di famiglia», nel comma 2 si dice che nelle
obbligazioni «inerenti all'esercizio di un'attività professionale , la diligenza
deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata». Può
convenirsi con chi ha sostenuto che il comma 2 dell'art. 1176 c.c. è
un'esplicitazione del primo (18),
nel senso che il dovere di attenzione si rapporta sempre con quello «medio»
della categoria di appartenenza, dovendosi intendere tale diligenza come buona,
sebbene non eccezionale, ossia come diligenza qualificata. In tal modo,
peraltro, si determina un sostanziale aggravamento di tale onere nei confronti
del professionista rispetto al debitore ordinario, poiché al primo si richiede
il possesso di nozioni tecniche e di doti di accuratezza, prudenza e precisione
che sono peculiari di una determinata professione intellettuale (19).
Nella pratica
la giurisprudenza ammette senza problemi che l'obbligo di diligenza venga
valutato diversamente a seconda delle varie professioni e, in ciascun ambito, in
relazione alla complessità del caso concreto. Ciò che non è pensabile è, da un
lato, che al professionista intellettuale si richieda un grado di diligenza
minore di quello del debitore generico e, dall'altro, che egli risponda a titolo
di responsabilità oggettiva, perché ciò andrebbe a collidere con quel margine
irrinunciabile di autonomia che è connaturato col carattere della professione
intellettuale.
Scorrendo le più recenti pronunce della
Cassazione sull'argomento, si vede che il richiamo al capoverso dell'art. 1176
c.c. è frequente e riguarda tutte le più diffuse professioni in esame. Osserva,
ad esempio, Cass. 12 agosto 1995 n. 8845, che la responsabilità del
professionista postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra
i quali quello della diligenza, che va a sua volta valutato con riguardo alla
natura dell'attività e che, in rapporto alla professione medica, implica
scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale ; analogo concetto è
ripreso dalla più recente Cass. 11 marzo 2002 n. 3492 (20), secondo cui il medico chirurgo è tenuto
nell'adempimento dell'obbligazione contrattuale alla specifica diligenza del
debitore qualificato cui si richiama il capoverso dell'art. 1176 c.c.
Affermazioni molto simili sono rinvenibili a proposito della professione di
avvocato (21) e di quella di ingegnere
(22).
È
interessante notare, a questo proposito, che la giurisprudenza ha talvolta
ipotizzato, in riferimento alla professione medica, una diversa graduazione
dell'obbligo di diligenza in considerazione del maggiore o minore livello di
specializza zione che ci si può attendere dal professionista. In altre parole,
un intervento che presenta margini di complessità tali da doversi considerare
«difficile» per la generalità dei medici (con tutte le conseguenze che vedremo a
proposito dell'art. 2236 c.c.) non è stato ritenuto tale nei confronti di quel
determinato specialista, dal quale era lecito e doveroso attendersi una
particolare esperienza nello specifico settore, ossia una particolare forma di
diligenza.
Tipica è, a questo proposito, Cass. 3 marzo
1995 n. 2466 (23). Qui la Suprema Corte
doveva affrontare il caso di una minore che aveva riportato varie fratture ed
ustioni in conseguenza di un investimento automobilistico; uno dei due medici
chiamati in causa, specialista in ortopedia, è stato condannato al risarcimento
dei danni per aver provveduto all'immobilizzazione delle articolazioni mediante
il gesso senza tenere nella necessaria considerazione il fatto che in tal modo
venivano ad essere ricoperte zone cutanee interessate dalle ustioni. E la Corte
ha riconosciuto che la corretta terapia di immobilizzazione di un arto ustionato
non può ritenersi problema tecnico di particolare difficoltà per un medico
specialista in ortopedia.
In altra occasione, invece, la
stessa Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza che aveva
condannato un medico al risarcimento dei danni per aver affrontato un intervento
di alta specializzazione senza avere la necessaria esperienza (24). Il caso era quello di un medico,
specialista in ortopedia, che aveva eseguito un intervento al midollo spinale
cui era seguita la paralisi degli arti inferiori del paziente. La colpa
professionale è stata ritenuta proprio perché il sanitario aveva intrapreso il
delicato intervento in questione (laminectomia per sospetta neoplasia
extramidollare) essendo in possesso della specializzazione in ortopedia e non di
quella in neurochirurgia, indispensabile per poter affrontare il caso con la
necessaria competenza specifica. E nessuna importanza è stata data, a mio avviso
giustamente, al fatto che il paziente avrebbe probabilmente nel tempo sviluppato
ugualmente la paralisi degli arti inferiori in conseguenza della patologia da
cui era affetto.
Dalla più recente giurisprudenza
provengono ulteriori interessanti contributi in questa direzione. Con Cass. 8
gennaio 2003 n. 85 (25),
la Suprema Corte era chiamata a valutare il caso di un calciatore che, avendo
già subito due fratture al metatarso a distanza di un paio di mesi l'una
dall'altra - fratture per le quali era stato operato di osteosintesi con
inserimento di una vite metallica poi rimossa, permanendo peraltro una rondella
sotto la pelle - era stato nel corso dello stesso anno convocato per un «ritiro»
della propria squadra, durante il quale aveva riportato per la terza volta la
medesima frattura, divenendo perciò definitivamente inabile al gioco del calcio.
La Corte di cassazione, nel rigettare il ricorso avverso la sentenza di secondo
grado che aveva riconosciuto la fondatezza della domanda di risarcimento danni
avanzata dal calciatore nei confronti della squadra, ha chiarito che la
posizione del medico sportivo è diversa da quella del medico generico ed è
gravata da maggiori responsabilità . A lui spetta, infatti, non soltanto di
compiere tutti gli accertamenti necessari, secondo le più aggiornate tecniche
diagnostiche, per verificare le effettive condizioni dello sportivo in rapporto
al tipo di danno che deriva dal carattere agonistico della competizione; ma,
addirittura, la Corte chiede al medico sportivo di attivarsi anche per
dissimulare le eventuali false o reticenti informazioni fornite dall'atleta per
il timore di vedere interrotta la propria attività. Attività che, almeno in
relazione al gioco del calcio, è ormai fonte di elevati guadagni.
Come si vede, dunque, l'obbligo di diligenza si traduce in
vincoli diversi a seconda del diverso grado di specializzazione del medico.
4.
L'obbligazione del professionista come obbligazione di mezzi e non di risultato:
critica alla dottrina relativa
Il discorso
appena intrapreso sull'obbligo di diligenza conduce la riflessione ad un tema
che mantiene una grande attualità proprio in riferimento alle professioni
intellettuali, ossia la distinzione tra obbligazioni c.d. «di mezzi» e
obbligazioni c.d. «di risultato».
Le dimensioni di
questo scritto non consentono di attardarsi su particolari approfondimenti di un
argomento che, sulla scia della dottrina francese, ha per molto tempo
sollecitato l'attenzione della nostra dottrina civilistica; tuttavia il problema
dev'essere almeno presentato, perché consente di fare luce su un punto cruciale
della responsabilità professionale (26). Secondo questo tipo di classificazione,
le obbligazioni si dovrebbero dividere in due categorie: nelle prime, quelle di
mezzi, il debitore sarebbe tenuto soltanto a dispiegare il proprio impegno,
ossia la propria diligenza, senza essere obbligato a garantire al debitore il
raggiungimento di un certo «risultato»; nelle seconde, invece, il debitore
sarebbe obbligato nei confronti del creditore proprio ad un risultato, ossia
fino alla soglia dell'impossibilità sopravvenuta derivante da causa a lui non
imputabile, secondo la regola di cui all'art. 1218 c.c. La distinzione dovrebbe
servire, secondo i suoi sostenitori, a dare ragione dell'apparente contrasto tra
gli art. 1176 e 1218 c.c., perché soltanto per le obbligazioni di risultato
«sarebbe dettata la severa regola della responsabilità oggettiva per
inadempimento (art. 1218)»; per quelle di mezzi, invece, «varrebbe il principio
della diligenza, poiché in esse il creditore nient'altro può legittimamente
esigere ed attendersi oltre allo sforzo del debitore, senza che si raggiunga un
preciso risultato» (27).
In questo quadro, le obbligazioni del professionista intellettuale
costituirebbero un tipico esempio di obbligazioni di mezzi, perché in esse il
debitore sarebbe tenuto soltanto a porre in essere tutto il proprio impegno in
vista di un obiettivo che, certamente intravisto come possibile nel momento
della conclusione del contratto, non è tuttavia in potere esclusivo del debitore
raggiungere. Richiamando la dottrina citata si può dire, in riferimento alla
professione medica, che il medico «può soltanto mettere in essere alcune
condizioni necessarie o utili per promuovere il risanamento dell'infermo: ma la
riuscita della cura esige purtroppo la presenza di altri elementi, sui quali il
medico non ha potere» (28).
La distinzione ora descritta è stata ritenuta dalla
dottrina priva di un fondamento positivo, perché «in ciascuna obbligazione
assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere come l'impegno che il
debitore deve porre per ottener lo» (29); e in astratto non è configurabile
un'obbligazione che non abbia in vista il raggiungimento di un «risultato» o,
comunque, il soddisfacimento di un interesse del creditore (30). Ogni dubbio sul punto, del resto, è
sciolto dall'art. 1174 c.c., il quale dice che la prestazione che forma oggetto
dell'obbligazione «deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale,
del creditore» (31).
Ciò che conta, in realtà, è che sicuramente esistono alcune
obbligazioni, che sarebbe forse più corretto definire «di comportamento», in cui
il contegno negligente del debitore costituisce di per sé inadempimento, perché
ciò che si pretende da lui è innanzitutto un impegno in termini di diligenza,
uno sforzo finalizzato a far sì che l'interesse finale del creditore possa
essere soddisfatto; una diligenza, come acutamente è stato detto, che non
riguarda tanto l'adempimento, quanto la conservazione della possibilità di
adempiere (32). E ciè è particolarmente
evidente in relazione all'attività del professionista intellettuale: il medico
che trascura l'ammalato o l' avvocato che diserta le udienze sono per ciò stesso
inadempienti, anche se il malato dovesse guarire o la causa essere vinta per
qualche fortunata congettura (33);
così come gli stessi professionisti andranno esenti da ogni responsabilità ,
anche in caso di esito infausto della malattia o di sconfitta in giudizio,
qualora dimostrino di essersi comportati con la diligenza che il caso richiedeva
e senza trascurare nessuna delle attività concretamente esperibili in rapporto
al necessario bagaglio di conoscenze tecniche che fanno da corredo a ogni
professione intellettuale.
D'altra parte, la più attenta
dottrina in materia di inadempimento ha dimostrato che il contrasto tra gli art.
1176 e 1218 c.c. è soltanto apparente, perché la regola secondo cui il debitore
è tenuto all'adempimento fino al limite dell'impossibilità sopravvenuta vale
solo nel caso in cui la prestazione è divenuta impossibile proprio per colpa del
debitore; negli altri casi, cioè quando la prestazione è possibile, la
responsabilità del debitore è regolata da altre norme (34). E ciò vale ad eliminare dal sistema
l'unico sostegno che poteva dare validità alla distinzione tra obbligazioni di
mezzi e di risultato.
5. Recupero della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di
risultato da parte della giurisprudenza e tentativi di superamento in relazione
alle singole professioni
Questa breve
digressione dottrinale è necessaria a illuminare una nutrita serie di pronunce
giurisprudenziali che risentono in modo evidente di tale dibattito. La Corte di
cassazione, infatti, continua a utilizzare la distinzione terminologica tra
obbligazioni di mezzi e di risultato, non tanto per sostenerne l'astratta
validità, quanto per dare un corretto inquadramento agli obblighi del
professionista intellettuale; sotto questo profilo la distinzione può essere
utilmente adoperata, purché ne siano chiari i limiti e le finalità.
Costituisce affermazione pacifica in giurisprudenza, ad
esempio, ribadita in molte sentenze, che l'obbligazione del professionista
intellettuale è di mezzi e non di risultato, in quanto egli, assumendo
l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato
desiderato, ma non a conseguirlo (35).
Quest'affermazione assume varie sfumature a seconda che si tratti di medico,
avvocato , notaio, ingegnere ecc., ed è, come già detto, il retaggio
dell'imponente dibattito dottrinale cui sopra si è accennato; l'obiettivo è
quello di limitare la responsabilità del professionista in un ambito più
ristretto rispetto a quello di altre obbligazioni consistenti in un facere,
sicché non possono trovare applicazione in tale materia norme come quelle degli
art. 1667, 1668 o 2226 c.c. (in tema di appalto e di contratto d'opera) (36).
Ciò che
maggiormente interessa, perè, è evidenziare le sentenze nelle quali, benché in
presenza di una prestazione d'opera professionale , la giurisprudenza ha preso
le distanze da tale impostazione e ha riconosciuto l'esistenza di
un'obbligazione di risultato, con ciò intendendo che la soglia dell'adempimento
si innalza oltre il semplice comportamento diligente.
Assai significativo è, in proposito, il caso dell'ingegnere
chiamato a redigere un progetto. Qui la Corte di cassazione ha osservato che
tale obbligazione è di risultato perché in essa il professionista si impegna a
realizzare un determinato opus ovvero perché la redazione ha ad oggetto la sua
realizzabilità (37); nella prima sentenza ora
indicata in nota, l'ingegnere aveva ricevuto l'incarico di redigere un piano di
lottizzazione per l'edilizia residenziale nel quale assumeva un ruolo decisivo
l'approvazione del piano medesimo. Poiché, invece, il comune aveva nel frattempo
disposto dei nuovi programmi di fabbricazione in contrasto col piano di
lottizzazione in questione, legittimamente i committenti avevano rifiutato di
pagare il compenso in favore del professionista, in quanto inadempiente.
Alcune successive pronunce, invece, senza prendere posizione
in ordine alla natura di obbligazione di mezzi o di risultato in riferimento
all'attività dell'ingegnere, dell'architetto e del geometra, specificano
tuttavia che l'irrealizzabilità dell'opera per erroneità o inadeguatezza del
progetto costituisce comunque inadempimento anche in caso di colpa lieve e
giustifica, da parte del cliente, il mancato pagamento del compenso (38).
In relazione
alla professione medica dovrebbe ritenersi assai difficile la configurabilità di
un'obbligazione di risultato, proprio in virtù delle considerazioni svolte in
precedenza. E tuttavia anche qui la giurisprudenza, pur mantenendo fermo il
principio per cui il medico non può ritenersi obbligato a garantire la
guarigione del paziente, ha in taluni casi operato una distinzione derivante
dalla maggiore o minore complessità dell'intervento terapeutico. In altre
parole, queste sentenze percepiscono la significativa differenza che esiste tra
la cura di una malattia semplice e di decorso normalmente benigno e la cura di
una malattia più grave o, comunque, non ancora ben nota alla scienza medica; la
Corte di cassazione non giunge ad affermare che nel primo caso il medico è
tenuto al raggiungimento del risultato (ossia il buon esito della cura), ma
aggrava l'onere della prova a danno del sanitario e a favore del paziente (39). Nelle sentenze appena citate si trova
affermato il principio secondo cui l'onere della prova si divide tra paziente e
medico a seconda della natura dell'intervento effettuato: se esso è di difficile
esecuzione, il medico si libera con la sola dimostrazione della complessità,
rimanendo a carico del paziente l'onere di dimostrare gli eventuali errori
commessi dal primo; in caso contrario, il paziente dovrà solo dimostrare il
carattere routinario dell'intervento, mentre sarà il medico a dover provare che
l'esito negativo non è ascrivibile a propria negligenza od imperizia.
Seguendo tale schema, Cass. 30 maggio 1996 n. 5005 (40) ha riconosciuto la responsabilità del
medico per i danni derivati al paziente durante un'operazione di ernia discale;
poiché tali danni (perdita di sensibilità nella diuresi, nella libido e deficit
agli arti inferiori) erano da ricondursi, secondo il corretto giudizio della
Corte di merito, a un'erronea esecuzione dell'iniezione del liquido di contrasto
necessario per l'intervento, tale attività è stata ritenuta usuale e a basso
rischio, con la conseguenza che era onere del sanitario dimostrare di aver
eseguito la prestazione con diligenza.
Nel caso deciso
da Cass. 4 febbraio 1998 n. 1127 (41)
- nel quale si doveva valutare la responsabilità del chirurgo per i danni
conseguenti a un intervento di isterectomia cui aveva fatto seguito un secondo
intervento di reimpianto dell'uretere in vescica - la Corte di cassazione,
mentre ha condiviso la valutazione del giudice di merito circa la natura di
particolare complessità attribuita all'intervento di isterectomia, ha invece
ritenuto immotivata la sentenza d'appello nella parte in cui non attribuiva
identica natura anche al secondo intervento, provvedendo alla cassazione della
medesima.
Ancora diverso, e certamente più drammatico,
l'episodio oggetto di Cass. 8 gennaio 1999 n. 103. Qui si doveva decidere sulla
sussistenza di responsabilità professionale a carico di più medici in relazione
ai danni riportati da una minore operata di ernia inguinale (atrofia corticale
ed attività epiletogena a seguito di sindrome apallica su base ipossica
secondaria alle complicanze cardiocircolatorie conseguenti all'anestesia
generale). I danni gravi erano derivati, in pratica, da una carenza di ossigeno
conseguente all'anestesia generale, non prontamente ed opportunamente
fronteggiata dai sanitari. La Corte di cassazione, ritenendo motivata in modo
adeguato la sentenza d'appello che aveva riconosciuto la responsabilità
dell'anestesista per gravi negligenze e quella del chirurgo in quanto capo
dell'équipe operatoria, fonda la propria decisione (di rigetto dei ricorsi dei
medici) sulla natura facile e di routine dell'intervento in questione, tanto più
significativa in quanto l'intervento era stato eseguito su di una minore in
buona salute fino al momento dell'operazione. Da questo deriva che era onere del
professionista dimostrare che l'insuccesso dell'intervento non era dipeso da un
difetto di negligenza.
La casistica potrebbe allungarsi
in relazione a quelle prestazioni mediche nelle quali i margini di scelta sono
in concreto assai ristretti in conseguenza delle certezze ormai raggiunte in
campo scientifico (si pensi al caso dell'oculista che prescrive lenti del tutto
inadeguate in relazione al deficit visivo del paziente). In riferimento
all'installazione di una protesi dentaria, però, la Cassazione ha negato che
possa in tal caso sussistere responsabilità da parte del medico odontoiatra a
titolo di difformità e vizi dell'opera ai sensi dell'art. 2226 c.c., ritenendo
preminente la funzione diagnostica e la libertà di scelta terapeutica
sull'aspetto meramente esecutivo della costruzione della protesi, che può
considerarsi un'opera materiale autonoma solo se ed in quanto oggetto della
prestazione dell'odontotecnico (42).
È stata invece affermata la natura di obbligazione di risultato in relazione al
direttore sanitario di un ospedale che, nello stipulare il contratto d'opera
professionale , si sia obbligato nei confronti del direttore generale a curare
anche l'aspetto igienico della struttura medesima (43).
Anche per ciò
che riguarda la professione forense, pur essendo costante l'affermazione
giurisprudenziale secondo cui l' avvocato si impegna a prestare la propria opera
per raggiungere un certo risultato, ma non a conseguirlo, vi sono pronunce che
dimostrano una valutazione più severa del comportamento di tale professionista,
configurando gli estremi della responsabilità in relazione a gravi omissioni o
imprecisioni nella gestione di una lite o anche nella fase preliminare non
giudiziale.
Meritano menzione, innanzitutto, le sentenze
nelle quali la Corte di cassazione ha riconosciuto la responsabilità
professionale dell' avvocato in riferimento alla materia della prescrizione. In
Cass. 18 luglio 2002 n. 10454, la Corte era chiamata a valutare la correttezza
della sentenza d'appello che aveva ritenuto responsabile un avvocato per il
mancato tempestivo compimento di atti interruttivi della prescrizione (nella
specie, si trattava della prescrizione biennale prevista per i danni da
circolazione di veicoli dall'art. 2947, comma 2, c.c.); nel confermare la
pronuncia di merito, la Corte ha affermato che rientra nella ordinaria diligenza
dell' avvocato il compimento degli atti interruttivi «che, di regola, non
richiedono particolare impegno materiale o speciale capacità tecnica, ma
soltanto puntuale verifica del termine in relazione agli elementi di fatto che
caratterizzano il caso concreto». A una conclusione assai simile, sia pure in
una fattispecie diversa, è pervenuta Cass. 14 novembre 2002 n. 16023 (44). Qui si era verificato che un comune
aveva chiesto a un avvocato il parere circa la possibilità di agire in giudizio,
in qualità di interessato, per l'adempimento di oneri testamentari. Il
professionista aveva dato parere favorevole e aveva assunto il patrocinio del
comune promovendo il relativo giudizio, che però si era concluso sfavorevolmente
perché la controparte aveva vittoriosamente eccepito la prescrizione del diritto
azionato. Nel successivo giudizio intrapreso dal professionista contro il comune
per il pagamento delle proprie parcelle la Corte di cassazione, accogliendo il
ricorso e decidendo essa stessa nel merito ai sensi dell'art. 384 c.p.c., ha
ritenuto che «l'accertamento di un'eventuale prescrizione sia da considerare
dall'esercente la professione legale adempimento routinario preliminare già
all'iniziale sommaria disamina degli elementi essenziali della questione
affidatagli»; sicché la responsabilità del professionista a titolo di negligenza
certamente sussiste, trattandosi in un simile caso di «ignoranza di istituti
elementari». Tale responsabilità è stata ravvisata già in relazione alla fase
dell'informativa preliminare, sicché la successiva sconfitta nel giudizio era da
ritenersi solo l'ulteriore conseguenza di una situazione del tutto prevedibile.
Ed è interessante notare che in entrambe le sentenze appena richiamate la Corte
ha ribadito che l'obbligazione dell' avvocato è di mezzi e non di risultato.
La casistica giurisprudenziale offre ancora ulteriori
pronunce di grande interesse sotto questo profilo. È stata ritenuta sussistente
la responsabilità dell' avvocato , per esempio, in relazione alla mancata
citazione di testimoni ammessi, sia in sede civile che penale. Nel caso deciso
con Cass. 6 febbraio 1998 n. 1286 (45),
un avvocato era stato chiamato a rispondere civilmente a titolo di
responsabilità professionale perché, essendosi costituito parte civile in un
processo penale conseguente a un sinistro stradale, era stato poi dichiarato
decaduto da tale costituzione per assenza, sicché l'imputato era stato assolto
con formula piena. Nel giudizio promosso contro di lui per responsabilità
professionale , la Corte di cassazione, nel respingere il ricorso contro la
sentenza di secondo grado, ha rilevato che quest'ultima aveva correttamente
dedotto la sussistenza di una responsabilità dell' avvocato in quanto la
deposizione dei testi della parte civile avrebbe potuto condurre il giudice
penale almeno ad una pronuncia assolutoria con la formula dubitativa (si era nel
vigore del codice di procedura penale del 1930); pronuncia che non avrebbe
esplicato alcun effetto preclusivo in sede civile. La sentenza è di grande
interesse perché riconosce che la responsabilità del professionista non esige da
parte del cliente la dimostrazione che il compimento di una certa attività
(omessa) avrebbe portato ad un esito certamente positivo, bensì ritiene
sufficiente una valutazione in termini probabilistici dell'esito di tale
attività (c.d. «danno da perdita di chance») (46).
Al riguardo, è
da menzionare anche Cass. 26 febbraio 2002 n. 2836 (47). In questo caso il giudizio di
responsabilità professionale era stato promosso nei confronti dell' avvocato per
la tardiva proposizione di un'impugnazione, successivamente dichiarata
inammissibile. La pronuncia è interessante perché la Corte, nel rigettare il
ricorso, fa propria la tesi del tribunale e della Corte d'appello i quali
avevano sì riconosciuto che tale tardiva proposizione era da ascriversi a colpa
del professionista, ma avevano nel contempo respinto la domanda risarcitoria sul
rilievo che mancava del tutto la prova della ragionevole certezza dell'esito
finale positivo del giudizio, ove esso fosse stato tempestivamente proposto. La
Corte di cassazione, con una motivazione che pare alquanto divergente da quella
indicata in precedenza, afferma che, non potendo l' avvocato garantire l'esito
del giudizio, il danno derivante dalla tardiva proposizione di un gravame «è
ravvisabile in quanto, e sia pure con criteri necessariamente probabilistici, si
accerti che il gravame, se tempestivamente proposto, sarebbe stato giudicato
fondato»; indagine questa affidata al giudice di merito ed incensurabile in sede
di legittimità, se congruamente motivata (com'era nel caso di specie).
Come si vede, dunque, non potendosi esigere dall' avvocato
il raggiungimento del risultato consistente nell'esito vittorioso del giudizio,
la giurisprudenza fatica ad individuare un criterio unitario di valutazione
della responsabilità , soprattutto quando occorre valutare l'effetto ipotetico
che sarebbe potuto derivare al cliente dal compimento di una certa attività
difensiva che invece è stata omessa (48).
6. La colpa professionale:
tentativi di definizione
Poiché, come si è
già detto, la responsabilità professionale trova il proprio fondamento, di
regola, nella violazione degli obblighi contrattuali, il problema si sposta, a
questo punto, sull'accertamento della colpa. Non pone particolari dubbi,
infatti, il caso della responsabilità dolosa, essendo pacifico che in tale
evenienza il professionista sarà tenuto al risarcimento, eventualmente
concorrente con l'affermazione di una responsabilità penale, ove sussistano gli
estremi di un reato. Di regola, però, l'obbligo risarcitorio in capo al
professionista sorge a seguito di un comportamento colposo.
Il nostro codice civile, com'è noto, non contiene alcuna
definizione della colpa, per la quale occorre rifarsi alla legge penale e, in
particolare, all'art. 43 c.p., che richiama i tradizionali concetti di
negligenza, imprudenza e imperizia, oltre all'inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline (49).
Quanto al grado della colpa, poi, solitamente essa viene classificata in
lievissima, lieve e grave (50),
con una distinzione che acquista grande rilievo proprio nella materia della
responsabilità professionale . La colpa lieve consiste nella violazione
dell'ordinaria diligenza, mentre quella grave consiste nella violazione della
diligenza minima (51) e può quasi sconfinare nel
dolo. È peraltro da rammentare che l'art. 2043 c.c. parla di fatto «doloso o
colposo», sicché la figura della colpa civile viene richiamata in materia di
responsabilità extracontrattuale, ossia in un campo che, come si è detto, è in
linea di massima estraneo a quello della responsabilità professionale .
Nel tentare una definizione della colpa, la dottrina intende
solitamente per negligenza l'omissione di comportamenti cui il professionista è
tenuto in riferimento alla capacità media della categoria di appartenenza; si
individuano perciò in tale ambito una serie di atteggiamenti negativi che
possono caratterizzare il comportamento del professionista medesimo, come
disattenzione, dimenticanza, svogliatezza e pigrizia (52). L'imprudenza, invece, è definita come
difetto di misure di cautela idonee a prevenire l'evento dannoso (53) nonché come «temerarietà sperimentale»
(54), ovvero l'aver agito senza
le necessarie competenze specifiche; professionista prudente, quindi, è colui il
quale, venendogli prospettato un incarico superiore alle sue capacità e alla sua
esperienza, rifiuti di accettarlo. L'imprudenza è, in definitiva, il rovescio
della medaglia della discrezionalità riconosciuta ad ogni professionista
intellettuale, essendo impensabile che a tale libertà non faccia riscontro
alcuna responsabilità . L'imperizia, infine, che è forse la figura più
complessa, si identifica con la violazione delle regole tecniche che
generalmente vengono seguite in un certo settore; al professionista, infatti, si
richiede un'approfondita conoscenza di tali tecniche oltre al possesso di quel
necessario bagaglio di cognizioni specifiche frutto dell'esperienza (55). E fra tali elementi rientra certamente
l'obbligo dell'aggiornamento professionale , la cui mancanza è indice di colpa.
Di chiara derivazione penalistica (art. 40 c.p.) è, poi,
il concetto di colpa omissiva (56).
Tuttavia, se in teoria la definizione della colpa è
facile, la pratica dimostra che i fatti non stanno esattamente così. La
giurisprudenza, da parte sua, non si preoccupa, generalmente, di procedere a
classificazioni di scuola, essendo suo compito specifico quello di risolvere
singole fattispecie. E nella maggior parte delle pronunce l'affermazione della
colpa professionale si trova intimamente connessa col discorso sulla diligenza
qualificata di cui ci siamo occupati supra, § 3; colpevole è il professionista
che ha agito senza rispettare l'obbligo di diligenza al quale era tenuto in
rapporto al caso concreto e allo stato dell'arte in un determinato settore, che
egli doveva ragionevolmente conoscere.
Si giunge, così,
alla specifica norma dell'art. 2236 c.c. sul quale si impone una peculiare
riflessione.
7. L'art. 2236 c.c. Origine della norma e sua limitazione
giurisprudenziale. Progressiva restrizione dell'area della irresponsabilità
professionale
Poiché la diligenza specifica
prevista dall'art. 1176, comma 2, c.c., è alla base di tutto il sistema della
responsabilità del professionista intellettuale, la conseguenza ovvia è che
questi risponde di regola anche nei limiti della colpa lieve, ossia per
violazione dei canoni dell'ordinaria diligenza, secondo un meccanismo improntato
ad indubbia severità, ma tuttavia coerente con le premesse (57).
In questo
quadro s'inserisce e trova la sua ragion d'essere l'art. 2236 c.c., in base al
quale, se la prestazione «implica la soluzione di problemi tecnici di speciale
difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo
o di colpa grave». Può ben dirsi che su questa norma - che è la chiave per
comprendere tutto il problema della colpa professionale - sono stati impiegati
«fiumi d'inchiostro», sia per delimitarne l'esatta portata sia per inserirla in
modo coerente nell'ambito del sistema. D'altra parte, com'è stato acutamente
osservato, la storia della colpa professionale «è storia di privilegi e di
immunità: privilegi della categoria dei professionisti, volti ad ottenere una
disciplina differenziata della propria attività e immunità derivanti dal tipo di
attività, ma soprattutto dall'appartenenza dei più (per non dire della totalità)
al ceto borghese dominante (e codificatore)» (58).
Secondo la
Relazione del Guardasigilli al codice civile del 1942, l'articolo in questione
doveva servire a contemperare due opposte esigenze, «quella di non mortificare
l'iniziativa del professionista, col timore di ingiuste rappresaglie da parte
del cliente in caso di insuccesso, e quella inversa di non indulgere verso non
ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista». Da un lato, cioè,
la norma dovrebbe proteggere il professionista garantendone la libertà ed
autonomia di iniziativa che è tipica delle professioni intellettuali;
dall'altro, però, essa dovrebbe nel contempo fungere da stimolo, onde evitare
che il medesimo compia scelte avventate o sia semplicemente inerte. Se può
convenirsi con chi rileva che l'art. 2236 c.c. costituisce una limitazione della
responsabilità che «trova la sua giustificazione nella esigenza di garantire al
professionista (intellettuale) quel margine di libertà, e in certa misura di
creatività, in relazione al quale è insita una certa dose di rischio che il
cliente è tenuto a sopportare» (59),
pur tuttavia occorre riconoscere che tale articolo, analogamente alla Relazione
che lo accompagna, ha finito col creare molti problemi; tanto che qualcuno ha
ricordato come da simile formulazione sia derivato «un incessante lavorio
dottrinale, volto a riportare l'infelice formulazione del disposto entro margini
di accettabile ragionevolezza» (60).
Ed a quest'opera di chiarimento ha contribuito in modo significativo la
giurisprudenza, come tra poco vedremo.
Ad un primo e
superficiale approccio, la norma potrebbe apparire suscettibile di una lettura
del tutto inaccettabile, oltre che in contrasto con l'intero sistema della
responsabilità contrattuale; e cioè che al professionista intellettuale sia
richiesto un impegno minore proprio nei casi maggiormente complessi, attraverso
la limitazione della responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave quando la
prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà.
Il che è francamente assurdo, come tutta la migliore dottrina ha evidenziato (61). In realtà, per poter dare
un'interpretazione ragionevole della norma, occorre partire da un altro
presupposto, ossia che l'art. 2236 c.c. non è che un'esplicazione e un
completamento dell'art. 1176, comma 2, c.c.; in termini ancora più chiari, la
regola generale è nel senso che l'obbligo di diligenza qualificata determina la
responsabilità del professionista anche per colpa lieve, mentre l'attenuazione
di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave avviene in presenza di una
prestazione di particolare difficoltà. In tal modo l'art. 2236 c.c., che
certamente è una norma di favore poiché restringe il campo di operatività della
responsabilità professionale (62),
finisce con il ricoprire una funzione residuale.
Siffatta interpretazione, comunemente accolta dalla dottrina
(63), è ormai recepita dalla
giurisprudenza (64) e costituisce un primo
passo di quel cammino di progressiva limitazione dell'area dell'irresponsabilità
dei professionisti intellettuali che caratterizza le pronunce più recenti. Alla
luce di simile impostazione la responsabilità del professionista, opportunamente
diversificata da quella prevista per il contratto d'opera e per il contratto di
appalto, nei quali il debitore è tendenzialmente obbligato alla consegna
dell'opus perfectum, rientra tuttavia nell'alveo generale della responsabilità
contrattuale, senza patire le aberranti conseguenze che verrebbero a derivare da
una dilatazione eccessiva della norma di favore.
Il
cammino di erosione compiuto dalla giurisprudenza, tuttavia, non si arresta qui.
Seguendo e ampliando un'affermazione contenuta, sia pure a livello di obiter, in
una risalente sentenza della Corte costituzionale (65), la Corte di cassazione ha interpretato
restrittivamente la portata dell'art. 2236 c.c., nel senso di ritenerlo
applicabile soltanto nei casi di imperizia, e non anche ove venga accertata la
negligenza e/o l'imprudenza del professionista. E questo implica che, ove in
concreto si dimostri la sussistenza di un comportamento negligente o imprudente,
non ha più alcuna importanza il fatto che la prestazione professionale si possa
definire di speciale difficoltà, perché la violazione dell'obbligo di diligenza
determina di per sé l'inadempimento (66).
Nell'applicazione pratica, una ricostruzione di questo
genere - unita al fatto che la giurisprudenza ammette sempre più di rado il
carattere di speciale difficoltà della prestazione professionale - comporta una
drastica riduzione dell'effettiva sfera di applicazione dell'art. 2236 c.c., al
punto da indurre qualcuno ad affermare che l'esonero dalla responsabilità
rischia di rimanere limitato ai soli casi di prestazione professionale del tutto
straordinaria ed eccezionale, poco nota in ambito scientifico, tale da
richiedere un grado di perizia che trascende in ampia misura la preparazione e
l'abilità di un professionista di medie capacità (67). Questa conclusione della dottrina è
probabilmente eccessiva, perché finisce col rendere quasi inapplicabile l'art.
2236 c.c.
Non mi sembra, peraltro, che la giurisprudenza
dica effettivamente qualcosa di simile. È vero che assistiamo ad una
«progressiva riduzione dell'ambito di operatività della colpa grave nell'ambito
della responsabilità da esercizio di attività professionali dovuta proprio
all'innalzamento del grado di perizia richiesto nell'espletamento della
professione» (68); è vero che la facilità di
divulgazione dei risultati scientifici (si pensi, soprattutto, al campo medico)
comporta che ci si possa esprimere oggi in termini di imperizia per situazioni
nelle quali in passato si poteva essere chiamati a rispondere solo per dolo o
colpa grave; è vero, insomma, che «lo standard valutativo del comportamento del
professionista è in costante innalzamento» (69). È altrettanto vero, però, che
l'interpretazione dell'art. 2236 c.c. che la giurisprudenza fornisce rappresenta
piuttosto il tentativo di permettere una sorta di valutazione caso per caso,
senza dettare regole generali troppo rigide che condurrebbero a risultati spesso
incoerenti; è l'adattamento duttile e pragmatico dei principi teorici al caso
concreto, che consente di volta in volta di pervenire o meno all'affermazione di
responsabilità professionale in base agli elementi di fatto accertati dal
giudice di merito, al quale ancora una volta è affidato un compito di grande
delicatezza ed importanza. Ed in questo modo si perviene anche ad un obiettivo
di giustizia sostanziale, per cui a mano a mano che aumenta il grado di
difficoltà della prestazione professionale diminuisce la sfera della colpa
civile rilevante ai fini di un giudizio di responsabilità , fermo restando
l'obbligo di diligenza richiesto dalla regola generale dell'art. 1176 c.c.
8. Il
problema dell'onere della prova
Si è già
accennato (supra, § 3 e 5) ad alcuni particolari aspetti dell'onere della prova
nei giudizi civili relativi alla responsabilità professionale . Si sono
richiamati i casi giurisprudenziali nei quali l'obbligo di diligenza (per lo più
nel campo medico) è stato diversamente graduato in relazione alla condizione
soggettiva del debitore ovvero all'oggettiva «difficoltà» o «facilità» della
prestazione dedotta in obbligazione, sicché a questo punto è necessaria soltanto
qualche precisazione di carattere sistematico.
Com'è
noto, secondo il tradizionale insegnamento della dottrina civilistica, uno dei
punti di differenza più importanti tra la responsabilità contrattuale e quella
extracontrattuale è, appunto, la disciplina dell'onere della prova. Nelle
obbligazioni contrattuali, infatti, il creditore è tenuto a dimostrare
l'esistenza del titolo e l'inadempimento del debitore, spettando a quest'ultimo
l'onere di provare che l'inadempimento o il ritardo sono stati determinati, ai
sensi dell'art. 1218 c.c., da impossibilità della prestazione derivante da causa
a lui non imputabile; nelle obbligazioni da fatto illecito, invece, la posizione
del creditore è più difficile, essendo egli tenuto a dimostrare il danno, il
dolo o la colpa del debitore e il nesso di causalità tra la condotta e l'evento
(70).
Rispetto a questo schema classico, il caso della
responsabilità professionale diverge in modo significativo, e ciò proprio in
conseguenza della distinzione dottrinale tra obbligazioni di mezzi e
obbligazioni di risultato. Nel senso chiarito quando si è riportata la
giurisprudenza che continua a richiamarsi a detta divisione, è palese che il
creditore non può limitarsi, nei confronti del professionista intellettuale, a
dimostrare l'esistenza del contratto e il mancato adempimento inteso come
soddisfazione del proprio interesse, perché ben potrebbe il debitore aver
adoperato tutta la necessaria diligenza senza raggiungere lo scopo (il
risultato, appunto) che il contratto stesso si prefiggeva. Poiché siamo in un
campo in cui acquista primaria importanza il comportamento del debitore e il
rispetto, da parte sua, dello standard di diligenza che gli viene richiesto in
rapporto alla situazione (71),
l'onere della prova a carico del creditore viene aggravato, diventando del tutto
simile alle regole della responsabilità aquiliana.
Sulla
base di queste premesse si comprende la giurisprudenza in base alla quale nei
giudizi di responsabilità professionale il creditore deve non soltanto
dimostrare di aver sofferto un danno, ma pure che questo è stato causato da
insufficiente o inadeguata attività o preparazione del professionista (72); in pratica, il creditore deve
dimostrare la colpa e il nesso di causalità tra quest'ultima e l'evento. A ben
guardare, d'altra parte, il punto cruciale della questione è proprio quello di
stabilire su chi debba gravare l'onere della prova della colpa professionale ,
che la giurisprudenza sembra orientata a porre a carico del cliente.
Va peraltro tenuto presente che la stessa giurisprudenza
tempera la severità di quest'affermazione con numerose presunzioni che, in
concreto, si risolvono a favore del cliente e in danno del professionista;
tipico esempio sono le presunzioni che ho richiamato nei paragrafi precedenti.
L'esistenza di queste ultime - come, ad esempio, quella per cui il medico doveva
essere a conoscenza di un certo tipo di terapia o di un determinato orientamento
scientifico in quel campo - affiancata all'uso sempre più limitato dell'art.
2236 c.c. (v. supra, § 7), possono ritenersi il segno di un'erosione sempre
maggiore, come già detto, dell'area della irresponsabilità professionale e,
d'altra parte, una sorta di punto di equilibrio non rigido tra le ragioni del
cliente e la necessaria libertà del professionista intellettuale.
9. Concorso tra la responsabilità contrattuale e quella
extracontrattuale; in particolare, il caso del medico dipendente da una
struttura ospedaliera. - Pur essendo indubbio, come più volte detto in
precedenza, che la responsabilità professionale è di natura contrattuale, vi
sono tuttavia dei casi - e fra questi il più importante è quello dell'attività
medica (73) - nei quali dallo
svolgimento di una professione intellettuale può derivare anche una
responsabilità da fatto illecito. Se il medico, ad esempio, cagiona un danno
alla salute, tale responsabilità sarà certamente da fatto illecito, rimanendo
peraltro possibile il concorso di responsabilità nel caso in cui vi sia stato
anche un contratto.
La dottrina, nel determinare i
principali punti di differenza tra la responsabilità contrattuale e quella c.d.
«aquiliana», è solita richiamarsi, oltre all'onere della prova già menzionato
nel paragrafo che precede, anche ad altre significative divergenze: la
prescrizione, decennale in ambito contrattuale e quinquennale in quello
extracontrattuale (art. 2947 c.c.), il limite della prevedibilità del danno
(art. 1225 e 2056 c.c.), la costituzione in mora, non necessaria nelle
obbligazioni derivanti da illecito (art. 1219, n. 1, c.c.), e il diverso
atteggiarsi della solidarietà passiva (art. 1298 e 2055 c.c.) (74). Il codice non regola espressamente il
caso di concorso tra i due tipi di responsabilità , pur essendo detta ipotesi
pacificamente ammessa in dottrina e in giurisprudenza. È certo che far derivare
da un medesimo fatto una responsabilità civile a doppio titolo si risolve in un
favore per il danneggiato, il quale può scegliere quale tipo di azione
esercitare; tuttavia è opportuno chiarire che «parlando di concorso o di cumulo
non si intende la possibilità per il danneggiato di sommare i benefici dell'una
e dell'altra azione, ottenendo due volte il risarcimento per lo stesso fatto
lesivo, bensì la legittimazione ad agire in via alternativa a titolo di
responsabilità contrattuale o extracontrattuale» (75).
Il concorso tra
i due tipi di responsabilità nell'ambito professionale investe un'importanza
pratica minore di quanto ci si potrebbe attendere, nonostante la diversità sia
teoricamente molto netta. Affrontando la materia dell'onere della prova, si è
già visto che la posizione del creditore, ossia del cliente, è regolata nei
giudizi sulla responsabilità professionale secondo criteri assai simili a quelli
valevoli nella responsabilità da fatto illecito. A questo primo punto di
convergenza si deve aggiungere che la giurisprudenza applica la disposizione di
favore dell'art. 2236 c.c. anche in caso di responsabilità extracontrattuale (76); in altre parole, la limitazione di
responsabilità al dolo e alla colpa grave, in caso di prestazione di particolare
difficoltà, vale pure in assenza di un contratto, avendo la Cassazione
interpretato tale norma come limite generale della responsabilità professionale
, indipendentemente dalla sua fonte. Ne consegue che, in virtù di questo secondo
significativo punto di coincidenza, l'esercizio dell'azione contrattuale in
luogo di quella extracontrattuale finisce col rivestire una qualche importanza
pratica ai soli fini della prescrizione, potendo il cliente avvalersi della
prescrizione decennale, in caso di cumulo di azioni, anche in riferimento al
danno derivante da fatto illecito (77).
Come si avvertiva in precedenza, il terreno più
significativo di applicazione del concorso di responsabilità è quello della
professione medica e, specificamente, il caso del sanitario dipendente (ovvero
solo occasionalmente inserito) da una struttura ospedaliera pubblica o privata.
Il problema si pone qui in modo evidente perché abitualmente il cliente che si
rivolge ad una simile struttura conclude un contratto d'opera professionale
direttamente con la casa di cura e solo indirettamente col singolo medico
curante, che in taluni casi non è scelto o addirittura neppure personalmente
conosciuto. Ciò comporta che l'ospedale o la casa di cura privata debbono
rispondere a titolo contrattuale degli eventuali errori terapeutici compiuti dal
medico (78); rimanendo poi da
risolvere il problema del titolo in base al quale quest'ultimo possa essere
chiamato a rispondere in caso di lesione del diritto alla salute.
In ordine alla responsabilità del medico, la giurisprudenza
non è concorde, anche perché la situazione può essere diversa a seconda che il
medico sia o meno inserito stabilmente, con un rapporto di dipendenza,
all'interno della struttura sanitaria. Secondo un primo orientamento, infatti,
le due responsabilità andrebbero accomunate, rientrando tutte nell'ambito
contrattuale (79); nelle sentenze ora
richiamate, però, il medico responsabile era dipendente della struttura stessa,
sicché la comune natura contrattuale della responsabilità si fonda proprio su
tale vincolo di subordinazione. In base a un diverso orientamento, invece, la
responsabilità del medico dovrebbe considerarsi di natura extracontrattuale,
essendo intercorso il vincolo contrattuale solo con l'ospedale o casa di cura (80); è interessante notare, peraltro, che
nel caso ora richiamato - in cui si discuteva della responsabilità di un medico
ginecologo per gravi danni derivanti al neonato a seguito di una non corretta
assistenza al parto - la Corte di cassazione ha respinto il ricorso avverso la
sentenza d'appello che aveva tuttavia affermato la natura contrattuale della
responsabilità , in conseguenza del rapporto fiduciario esistente tra medico e
paziente (il ginecologo aveva seguito tutta la gravidanza, aveva invitato la
donna a recarsi in ospedale e poi aveva omesso doverose cautele nei suoi
confronti, con conseguenti danni alla bambina).
Di
grande rilievo è, in argomento, Cass., sez. un., 1° luglio 2002 n. 9556 (81). Anche qui si trattava di responsabilità
di un ginecologo per gravi danni (totale invalidità) causati al neonato per
imperizia nell'ambito del parto. La sentenza, che riveste interesse sotto
molteplici aspetti, affronta anche il problema dei riflessi che la natura
fiduciaria del rapporto medico-paziente esplica nei confronti della casa di
cura; quest'ultima, infatti, nel caso specifico sosteneva la propria
irresponsabilità in considerazione della scelta del sanitario liberamente
compiuta da parte della paziente, scelta rispetto alla quale la casa di cura si
riteneva estranea. Nella motivazione la Corte, dopo aver riconosciuto che il
danno riportato dal neonato era da connettersi ad imperizia dei sanitari - i
quali avevano collocato il bambino in incubatrice con somministrazione di
ossigeno, mentre avrebbero dovuto ricoverarlo in altro centro, attrezzato per la
specifica terapia d'urgenza - afferma che il contratto d'opera professionale era
stato comunque concluso tra la paziente e la casa di cura, sicché quest'ultima è
chiamata a rispondere dell'operato del medico, anche in assenza di un rapporto
di subordinazione del medico rispetto alla prima. Al riguardo, la sentenza
evidenzia il carattere autonomo e diretto della responsabilità della casa di
cura, che consiste non solo nel mettere a disposizione la struttura
«alberghiera» necessaria, bensì anche il personale medico e paramedico, oltre
alle medicine e a tutto quanto occorra all'intervento.
Merita di essere segnalata, infine, una sentenza con la
quale la Corte di cassazione, prendendo le distanze da entrambi i filoni appena
indicati, ha definito la responsabilità del medico come responsabilità da
«contatto sociale» (82).
Partendo dal dato normativo dell'art. 2126 c.c. e richiamando una ricca
elaborazione dottrinale, la Corte osserva che «vi sono casi di rapporti che
nella previsione legale sono di origine contrattuale e tuttavia in concreto
vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie al semplice
"contatto sociale"»; e poiché la prestazione del medico non può che essere la
stessa, indipendentemente dall'esistenza o meno di un contratto d'opera
professionale , ne consegue che la responsabilità dell'ente gestore del servizio
ospedaliero e quella del medico dipendente hanno natura contrattuale dal punto
di vista contenutistico, pur non essendo il contratto la fonte dell'obbligazione
(83).
Questa particolare ricostruzione attraverso il richiamo alla
figura dell'obbligazione da contatto pare farsi strada nella giurisprudenza, che
l'ha recentemente utilizzata anche per inquadrare la concorrente responsabilità
dell'insegnante in occasione dei danni che l'allievo procura a sé stesso,
responsabilità che si affianca a quella contrattuale dell'istituto scolastico (84).
NOTE:
Il presente scritto riproduce, con aggiunte e modifiche,
il testo della relazione svolta in occasione del Convegno organizzato dal
Consiglio superiore della magistratura su «Professioni intellettuali:
responsabilità ed etica», Roma 26 maggio 2003.
(1) Cfr., tra le
altre, C. cost. 27 luglio 1995 n. 412, in Giur. cost., 1995, 2947; C. cost. 26
ottobre 2000 n. 441, ivi, 2000, 3314.
(2) Cass. 25 novembre 1994 n. 10014, in
Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 937, con nota di Ferrando, Chirurgia estetica,
consenso informato del paziente e responsabilità del medico; Cass. 15 gennaio
1997 n. 364, in Foro it., 1997, I, 771, con nota di Palmieri, Relazione
medico-paziente tra consenso globale e responsabilità del professionista; Cass.
6 ottobre 1997 n. 9705, in questa Rivista, 1998, I, 424.
L'argomento è trattato, con ampi riferimenti
giurisprudenziali, da Bilancetti, La responsabilità penale e civile del medico,
Padova 2003, 960 ss.
Sull'obbligo di informazione
nell'ambito del rapporto tra medico e paziente, v., pure, Paradiso, La
responsabilità medica: dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, I, 341
ss.
(3)
Cass. 15 novembre 1999 n. 12621, in Foro it., 2000, I, 3588.
(4)
Citata supra, nt. 2.
(5) Cass. 8 agosto 1985 n. 4394, in Foro it., 1986, I,
121, con nota di Princigalli, Chirurgia estetica e responsabilità civile; in
Giur. it., 1987, I, 1, 1136, con nota di Romano, Considerazioni in tema di
responsabilità contrattuale del medico per violazione del dovere di
informazione. La sentenza è incidentalmente commentata anche da Alpa, Bessone,
Zeno-Zencovich, I fatti illeciti, in Trattato di diritto privato diretto da
Rescigno, XIV, Torino 1995, 94.
(6) Citata supra, nt. 2.
(7) Cass. 8 aprile 1997 n. 3046, in Corr.
giur., 1997, 546, con nota critica di Carbone, Obbligazioni di mezzi e di
risultato tra progetti e tatuaggi. L'autore rileva, infatti, che la sentenza
annotata dimostra un intento punitivo nei confronti di chi si sia fatto tatuare
e si sia poi pentito, creando una distinzione ingiustificata tra chi sia
costretto a ricorrere alla chirurgia estetica per cause solo apparentemente
indipendenti dalla sua volontà e chi tale strada debba percorrere per cause
direttamente e palesemente dipendenti dalla sua volontà.
(8) È
il noto caso deciso da Cass. 8 luglio 1994 n. 6464, in Giur. it., 1995, I, 1,
790, con nota di Fascella, La risarcibilità del danno conseguente all'insuccesso
dell'intervento di interruzione della gravidanza; in Nuova giur. civ. comm.,
1995, I, 1107, con nota di Orrù, Sulla responsabilità medica per mancata
interruzione della gravidanza; in Rass. dir. civ., 1996, 342, con nota di
Carusi, Fallito intervento di interruzione di gravidanza e responsabilità medica
per omessa informazione: il «danno da procreazione» nella giurisprudenza della
Cassazione italiana e nelle esperienze straniere.
(9) Sono tre sentenze, tutte di grande
importanza: Cass. 1° dicembre 1999 n. 12195, in questa Rivista, 1999, I, 672,
con nota di Giacalone, Sull'obbligo di informazione del medico circa le malfor
mazioni del feto e sulla domanda risarcitoria proposta dal padre; Cass. 24 marzo
1999 n. 2793, in Giur. it., 2000, 43, con nota di Baratto, Il risarcimento del
danno per il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza: un
problema aperto; Cass. 10 maggio 2002 n. 6735, in Foro it., 2002, I, 3115, con
nota di Simone, Nascita indesiderata: il diritto alla scelta preso sul serio.
Queste sentenze sono tutte richiamate da Guarneri, Nascita di figlio malformato,
errore diagnostico del medico e regola di responsabilità civile, in Riv. dir.
civ., 2002, II, 849 (soprattutto 857 ss.), in una prospettiva di diritto
comparato.
(10)
Citata supra, nt. 9.
(11) V., sul punto, Ferrando, op. cit., 947 s., con
ulteriori richiami alle sentenze precedenti; Gabrielli, Obbligazioni del
professionista e responsabilità professionale , in La responsabilità civile a
cura di Cendon, VI, Torino 1998, 271 s.; Cafaggi, voce Responsabilità del
professionista, in D. disc. priv., sez. civ., XVII, Torino 1998, 158 s.; nonché
Macrì, La responsabilità professionale , in Le professioni intellettuali a cura
di Ibba, Latella, Piras, De Angelis, Macrì, Torino 1987, 232.
(12)
Cfr. Cass. 15 giugno 1999 n. 5946, in Resp. civ. prev., 2000, 1392, con nota di
Bertaglia, Brevi riflessioni in tema di responsabilità notarile; Cass. 21 aprile
2000 n. 5232, in Riv. not., 2000, II, 1267; Cass. 6 aprile 2001 n. 5158, ivi,
2001, II, 1206; Cass. 18 gennaio 2002 n. 547, in Giur. it., 2002, 1586, con nota
di Stucchi.
(13)
Cass. 15 giugno 1999 n. 5946, citata supra, nt. 12.
(14) Citata supra, nt. 12.
(15)
Citata supra, nt. 12.
(16) Citata supra, nt. 12.
(17) In tal senso, Macrì, op. cit., 219
ss.; Gabrielli, op. cit., 259; Musolino, Il contratto d'opera professionale ,
Milano 1999, 299.
(18) Perulli, Il lavoro autonomo, in Trattato di diritto
civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, XXVII, t. 1, Milano 1996, 580
ss.
(19)
Macrì, op. cit., 228.
(20) In Giur. it., 2003, 240.
(21) Cass. 18 novembre 1996 n. 10068; Cass.
14 agosto 1997 n. 7618, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, 890, con nota di
Martini, La violazione di norme deontologiche quale fonte di responsabilità
professionale dell' avvocato ; Cass. 8 agosto 2000 n. 10431; e Cass. 18 luglio
2002 n. 10454, ove si fa riferimento alla diligenza del professionista di media
attenzione e preparazione.
(22) Cass. 5 agosto 2002 n. 11728 (diligenza del buon
padre di famiglia).
(23) In Giur. it., 1996, I, 1, 91, con nota di Carusi,
Responsabilità del medico, diligenza professionale , inadeguata dotazione della
struttura ospedaliera. In dottrina, cfr. Perulli, op. cit., 592.
(24)
Cfr. Cass. 26 marzo 1990 n. 2428, in Giur. it., 1991, I, 1, 600, con nota di
Carusi, Responsabilità del medico, prestazione professionale di speciale
difficoltà e danno alla persona.
(25) In Diritto e giustizia, 2003, n. 5, p. 32, con note
di Evangelista e di Giacomardo, Tutela aquiliana del lavoro sportivo e
responsabilità dei medici sociali. A carico delle società obblighi di
prevenzione e controllo.
(26) Sull'argomento è doveroso il richiamo all'imponente
saggio di Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», in
Riv. dir. comm., 1954, 185, 280, 366, che, nonostante il lungo tempo trascorso,
possiede una sorprendente attualità, oltre a grande chiarezza espositiva e
completezza di richiami alla dottrina straniera.
(27) Così Rescigno, Obbligazioni (nozioni),
in Enc. dir., XXIX, Milano 1979, 191.
(28) Mengoni, op. cit., 189.
(29)
Rescigno, op. cit., 191. In tal senso anche Di Majo, Obbligazione: I. Teoria
generale, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma 1990, 26 s., secondo cui il grado
della diligenza da impiegare nell'adempimento è unico, non esistendo
obbligazioni solo di diligenza e/o di risultato. V. pure Bianca C.M.,
Dell'inadempimento delle obbligazioni, in Commentario al codice civile diretto
da Scialoja e Branca, Libro quarto delle obbligazioni (Art. 1218-1229),
Bologna-Roma 1979, 31 ss.
Contrario alla distinzione è
anche Santoro-Passarelli, Professioni intellettuali, in Nss. D.I., XIV, Torino
1967, 25. Per un tentativo di recupero della distinzione ai fini dell'utilità
descrittiva dei singoli obblighi, v., più di recente, Paradiso, op. cit., 329.
(30)
Mengoni, op. cit., 188.
(31) V., sul punto, Rescigno, op. cit., 180 s.; nonché
Giorgianni, Obbligazione (diritto privato), in Nss. D.I., XI, Torino 1965, 587;
Bianca C.M., Diritto civile, IV. L'obbligazione, Milano 1990, 41 ss.
(32) In
tal senso, Mengoni, op. cit., 193.
(33) Gli esempi sono di Rescigno, op. cit.,
191. È peraltro evidente che in simili casi si porrà comunque il problema di
dimostrare l'esistenza di un danno giuridicamente rilevante: v., in proposito,
Cass. 8 maggio 1993 n. 5325, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 266, con nota
di Marinelli, Le nuove frontiere della responsabilità professionale dell'
avvocato .
(34) La
tematica è molto ricca e complessa e qui può solo essere accennata. Fondamentale
sull'argomento rimane il contributo chiarificatore di Giorgianni, Inadempimento
(diritto privato), in Enc. dir., XX, Milano 1970, 874 ss., la cui tesi portante
è quella per cui tutto il sistema dell'inadempimento si regge sulla violazione
di una regola di condotta, che orienta il comportamento del debitore verso il
mantenimento della possibilità della prestazione ovvero verso il soddisfacimento
dell'interesse del creditore; in quest'ultimo caso la regola fondamentale è
quella dell'art. 1176 c.c. e delle altre norme che ad esso fanno capo (p. 883).
(35)
L'affermazione è ribadita in più occasioni: v., ex plurimis, Cass. 14 agosto
1997 n. 7618, citata supra, nt. 21; Cass. 15 giugno 1999 n. 5946, citata supra,
nt. 12; Cass. 8 agosto 2000 n. 10431 e Cass. 18 luglio 2002 n. 10454, citate
supra, nt. 21; Cass. 26 febbraio 2002 n. 2836, in Resp. civ. prev., 2002, 1373.
(36)
Cfr. Perulli, op. cit., 566.
(37) Cass. 28 gennaio 1995 n. 1040; nonché Cass. 21
marzo 1997 n. 2540, in Corr. giur., 1997, 547, con nota di Carbone, cit.
(38) In
tal senso, Cass. 13 luglio 1998 n. 6812, in Foro it., 1999, I, 205; e Cass. 5
agosto 2002 n. 11728. V. pure Cass. 16 febbraio 1996 n. 1208, sul problema del
progetto tecnico redatto in difformità delle regole tecniche e di quelle
giuridiche concernenti le modalità di edificazione su un determinato territorio.
Un recente contributo in materia di responsabilità del
professionista nel settore tecnico si deve a Petrone, La responsabilità civile
del professionista nel settore tecnico, in questa Rivista, 2001, II, 63 ss.
(39) Il
principio, già affermato da Cass. 21 dicembre 1978 n. 6141, in Foro it., 1979,
I, 4, è stato poi ripreso da Cass. 30 maggio 1996 n. 5005 e Cass. 4 febbraio
1998 n. 1127, in Giur. it., 1998, 1800. Nello stesso senso, v., pure, Cass. 8
gennaio 1999 n. 103, in Resp. civ. prev., 1999, 683, con nota di Sanna, I mille
volti della responsabilità medica: la responsabilità della casa di cura privata;
e Cass. 23 febbraio 2000 n. 2044, in Giur. it., 2000, 2015, con nota di Zuccaro,
Responsabilità del medico e regime probatorio.
V. pure
Gabrielli, op. cit., 265-268.
(40) Citata supra, nt. 39.
(41) Citata supra, nt. 39.
(42)
Così Cass. 23 luglio 2002 n. 10741.
(43) Cass. 23 ottobre 2002 n. 14957.
(44) In
Danno resp., 2003, 256, con nota di Fabrizio-Salvatore, L' avvocato e la
responsabilità da parere.
(45) In Resp. civ. prev., 1998, 650, con nota di De
Fazio, Responsabilità dell' avvocato per la perdita del processo e per la
perdita della chance di vincere il processo.
In
riferimento al c.d. «danno da perdita di chance» in conseguenza della negligenza
di un ragioniere, cfr. Cass. 13 dicembre 2001 n. 15759, in Danno resp., 2002,
393, con nota di Bitetto, Chance perduta come fonte di danno per mancato
rispetto delle «regole». Ma quanto vale un'occasione?
(46) Sulla stessa linea si colloca Cass. 23
aprile 2002 n. 5928, in Giur. it., 2003, 460, con nota di Spinelli Francalanci,
La responsabilità contrattuale dell' avvocato : la diligenza imposta al
professionista nell'espletamento del suo incarico. Rapporto tra gli artt. 1176 e
2236 codice civile. Anche qui la Corte di cassazione ha respinto il ricorso
avverso la sentenza d'appello che aveva riconosciuto la responsabilità dell'
avvocato , a titolo di negligenza, per la mancata citazione di testimoni e per
la mancata indicazione della data di comparizione nell'atto di opposizione a
decreto ingiuntivo.
(47) In Resp. civ. prev., 2002, 1373, con nota di Facci,
L'errore dell' avvocato , l'appello tardivo e la chance di vincere il
processo.
(48)
Cfr., in proposito, anche Cass. 28 aprile 1994 n. 4044, in Resp. civ. prev.,
1994, 635, con nota di Ruta, La responsabilità dell' avvocato : alcune
considerazioni in margine ad una riaffermazione della Suprema Corte, ove si
afferma che per riconoscere la responsabilità dell' avvocato occorre la
«certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista
medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente»; non è chiaro,
peraltro, in cosa si identifichi tale certezza!
Per un
panorama giurisprudenziale in tema di responsabilità professionale dell'
avvocato , cfr. Barca, La responsabilità contrattuale dell' avvocato
nell'espletamento dell'incarico ricevuto (rassegna di giurisprudenza), in Rass.
forense, 2001, 871 ss.; nonché Franciosi, La responsabilità civile dell'
avvocato , in Resp. civ. prev., 2001, 822 ss.
(49) Cfr. Franzoni, Dei fatti illeciti, in
Commentario al codice civile, cit., (Art. 2043-2059), Bologna-Roma 1993, 130
ss.; Monateri, Manuale della responsabilità civile, Torino 2001, 47 ss.
La materia della c.d. «colpa civile» è di grande
complessità, sicché le citazioni sono soltanto indicative. In generale, cfr.
Maiorca, Colpa civile (teoria generale), in Enc. dir., VII, Milano 1960, 534; e
Forchielli, Colpa (diritto civile), in Enc. giur. Treccani, VI, Roma 1988.
(50)
Così Franzoni, op. cit., 134 s.; Forchielli, op. cit., 3 s.; Monateri, op. cit.,
70. Analogamente, v. anche Scognamiglio, Responsabilità civile, in Nss. D.I.,
XV, Torino 1968, 642, il quale parla di colpa lievissima, media e grave.
(51)
Cfr. Bianca C.M., Diritto civile, cit., V. La responsabilità , Milano 1994, 579.
(52)
Macrì, op. cit., 228; Gabrielli, op. cit., 275.
(53) Bianca, op. ult. cit., 578.
(54)
Macrì, op. cit., 235; Gabrielli, op. cit., 276; Musolino, op. cit., 303.
(55)
Così Macrì, op. cit., 236.
Riporto anche, siccome molto
interessante, la classificazione di Monateri, op. cit., 48, secondo cui i tre
concetti di negligenza, imprudenza ed imperizia «sono unificati dall'idea di
scarto dalla norma, da ciò che si può, e si deve aspettare: la colpa sorprende»,
con ciò volendo dire che il comportamento colposo è quello che viola una regola
di comportamento il cui rispetto è doveroso in relazione a quel particolare
soggetto in quella particolare situazione, ossia uno standard di diligenza (50).
(56)
Franzoni, op. cit., 151 ss., secondo cui si ha colpa omissiva in senso tecnico
«quando l'evento è derivato dalla mancata attività del responsabile che aveva
l'obbligo giuridico di attivarsi» (154).
(57) V., fra le altre, Cass. 14 agosto 1997
n. 7618, citata supra, nt. 21; Cass. 23 aprile 2002 n. 5928, citata supra, nt.
46; e Cass. 4 novembre 2002 n. 15404.
(58) Alpa, Bessone, op. cit., 84.
(59)
L'efficace definizione è di Giacobbe, Professioni intellettuali, in Enc. dir.,
XXXVI, Milano 1987, 1084.
(60) Così Perulli, op. cit., 614.
(61)
Cfr. Giorgianni, Inadempimento, cit., 881; Mengoni, op. cit., 206; Scognamiglio,
op. cit., 642; Alpa, Bessone, Zeno-Zencovich, op. cit., 85; Perulli, op. cit.,
617.
(62)
Cfr. Bianca C.M., op. ult. cit., 28 e 580.
(63) Cfr. Scognamiglio, op. cit., 642;
Giacobbe, op. cit., 1084 s.; Perulli, op. cit., 620; Gabrielli, op. cit., 288 s.
(64)
Cfr. Cass. 15 gennaio 2001 n. 499, secondo cui la relazione tra gli art. 1176 e
2236 c.c. è di integrazione per complementarietà e non già per specialità,
cosicché vale come regola generale quella della diligenza del buon
professionista (art. 1176, comma 2) con riguardo alla natura dell'attività,
mentre quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di
particolare difficoltà opera l'art. 2236 c.c., delimitando la responsabilità ai
casi di dolo o colpa grave. Benché non esplicitato con tale lampante chiarezza,
il principio si trova anche in Cass. 10 maggio 2000 n. 5945; Cass. 23 aprile
2002 n. 5928, citata supra, nt. 46, la quale parla di impegno intellettuale
superiore a quello normalmente richiesto, Cass. 18 luglio 2002 n. 10454, citata
supra, nt. 21; Cass. 4 novembre 2002 n. 15404, citata supra, nt. 57.
(65) C.
cost. 28 novembre 1973 n. 166, in Foro it., 1974, I, 20.
(66) Si
può parlare, a questo riguardo, di una giurisprudenza assolutamente consolidata.
V., fra le più recenti, Cass. 1° agosto 1996 n. 6937; Cass. 18 novembre 1997 n.
11440, in Riv. giur. circ., 1998, 67; Cass. 19 maggio 1999 n. 4852, in Resp.
civ. prev., 1999, 995, con nota di Gorgoni, Disfunzioni tecniche e di
organizzazione sanitaria e responsabilità professionale medica, e in Giur. it.,
2000, 479, con nota di Patarnello, La Corte di cassazione scolpisce i limiti
della colpa medica e conferma il proprio revirement in merito alla risarcibilità
del danno morale per i parenti della vittima di lesioni colpose; Cass. 15 giugno
1999 n. 5946, citata supra, nt. 2; Cass. 10 maggio 2000 n. 5945, citata supra,
nt. 64; Cass. 28 gennaio 2003 n. 1228.
(67) In tal senso si esprime Perulli, op.
cit., 619.
(68)
Così Franzoni, op. cit., 138.
(69) Ancora Franzoni, lc. ult. cit.
(70)
Benché sottoposta a critiche sempre maggiori, tale distinzione viene fatta
discendere dagli art. 1218 e 2043 c.c. e mantiene una sua indubbia validità. V.,
in tal senso, Rescigno, Manuale di diritto privato, Milano 2000, 622;
Scognamiglio, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Nss. D.I.,
XV, Torino 1968, 673; Monateri, op. cit., 13; Bianca C.M., Dell'inadempimento,
cit., 166 ss.
(71)
Osserva Franzoni, op. cit., 149, che nelle obbligazioni di fare consistenti in
prestazioni di mezzi, il debitore «proprio perché il risultato non è dovuto, può
esonerarsi dalla responsabilità dimostrando la propria diligenza, dunque il
proprio adempimento». In argomento, v., pure, Macrì, op. cit., 255 ss.
(72) Il
principio si trova affermato già nella lontana Cass. 18 giugno 1975 n. 2439 (in
Giur. it., 1976, I, 1, 953, con nota di Lega, In tema di responsabilità civile
del medico chirurgo), secondo cui il cliente deve dimostrare l'esistenza del
danno e il nesso di causalità tra la prestazione eseguita e il danno medesimo.
Cfr. anche, nel senso indicato nel testo, Cass. 28
aprile 1994 n. 4044, citata supra, nt. 48; Cass. 7 agosto 2002 n. 11901;
entrambe queste pronunce si riferiscono a casi di responsabilità professionale
di un avvocato .
Sulla ripartizione dell'onere della
prova, v. pure le acute riflessioni di Carbone, op. cit., 552 ss.
(73)
Gabrielli, op. cit., 260 e 297.
(74) Cfr. Monateri, op. cit., 13 s.
(75)
Perulli, op. cit., 620.
(76) Tale principio, affermato a suo tempo da Cass.,
sez. un., 6 maggio 1971 n. 1282, in Giur. it., 1971, I, 1, 1396, è stato poi
ribadito da Cass. 17 marzo 1981 n. 1544 e da Cass. 20 novembre 1998 n. 11743.
(77)
Alpa, Bessone, Zeno-Zencovich, op. cit., 91; Perulli, op. cit., 625 ss.;
Gabrielli, op. cit., 297; Macrì, op. cit., 259.
(78) Secondo Cass. 8 maggio 2001 n. 6386,
però, una volta esclusa la colpa del chirurgo, non può essere affermata la
responsabilità dell'istituto sanitario, perché tanto l'art. 1229 quanto l'art.
2049 c.c. presuppongono un illecito colpevole dell'autore immediato del danno.
Nel caso specifico, la responsabilità del chirurgo era stata esclusa perché,
nonostante gli esiti invalidanti derivanti dall'intervento di rimozione di ernia
(grave disfonia), tali esiti erano stati ritenuti altamente probabili in
relazione al tipo di intervento, benché correttamente eseguito. In argomento v.
pure Cass. 4 marzo 2004 n. 4400, in Foro it., 2004, I, 1403.
Sulla natura del rapporto intercorrente tra il paziente e la
struttura sanitaria v., di recente, Simone, La responsabilità della struttura
sanitaria pubblica e privata, in Danno resp., 2003, 6 ss.
(79)
Cfr. Cass. 11 aprile 1995 n. 4152, in Riv. il. med. leg., 1997, 1073; e Cass. 27
luglio 1998 n. 7336, in Resp. civ. prev., 1999, 996, con nota di Gorgoni, cit.
(80)
Cfr. Cass. 13 marzo 1998 n. 2750, in Resp. civ. prev., 1999, 272, con nota di
Ronchi, Colpa grave del medico: valutazione tecnico-giuridica lasciata al mero
arbitrio.
(81) In
Foro it., 2002, I, 3060, con nota di Palmieri, Risarcimento del danno morale per
la compromissione di un intenso legame affettivo con la vittima da lesioni
personali.
(82)
Cfr. Cass. 22 gennaio 1999 n. 589, in Corr. giur., 1999, 441, con nota di Di
Majo, L'obbligazione senza prestazione approda in Cassazione; in Danno resp.,
1999, 294, con nota di Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come
responsabilità da contatto.
(83) Sull'obbligazione da «contatto sociale», cfr.
Rescigno, Obbligazioni, cit., 155; Id., Contratto (in generale), in Enc. giur.
Treccani, IX, Roma 1988, 8.
Sul punto, Carbone, op. ult.
cit., 304, richiamando proprio Rescigno, Contratto, cit., 8, osserva che, se è
assai discutibile l'equiparazione del fatto al contratto, è invece più
accettabile che dal rapporto contrattuale di fatto derivino obbligazioni secondo
lo schema dell'obbligazione da contratto.
(84) Cfr. Cass., sez. un., 27 giugno 2002
n. 9346, in Resp. civ. prev., 2002, 1012, con nota di Facci, Minore
autolesionista, responsabilità del precettore e contatto sociale.
Sulla responsabilità da contatto sociale in ambito notarile,
cfr. Cass. 23 ottobre 2002 n. 14934, in Riv. not., 2003, II, 766.
Autore: Dptt. Francesco M. Cirillo - Giust. civ. 2005, 6, 231