STRUMENTI GIURIDICI PER LA DISCIPLINA DEL MOBBING

Relazione al Convegno “Mobbing: aspetti giuridici e psico-sociali del fenomeno”

Modena, 2 aprile 2004

 di

Umberto Oliva

 

1. Premessa.

 

Il «mobbing» è un fenomeno sociale che trova il suo epicentro nel mondo del lavoro, e più specificatamente nell’ambito delle molestie morali e delle persecuzioni psicologiche esercitate nel contesto di attività lavorative. Esso, come è stato posto in luce dal Parlamento dell’Unione Europea nella Risoluzione «Mobbing sul posto di lavoro»[1], coinvolge una moltitudine di soggetti: non solo in primo luogo i lavoratori  (nella maggior parte dei casi per gli effetti devastanti sulla loro salute fisica e psichica), ma anche le aziende (sotto il profilo della redditività e dell’efficienza economica delle stesse), nonché le famiglie delle vittime e la società civile nel suo complesso (in primis in termini di costi sociali). In altri termini, questo fenomeno consiste in una degenerazione dei rapporti sui luoghi di lavoro che, direttamente o indirettamente, tocca tutti i consociati, nessuno escluso. Peraltro, il mobbing non risulta circoscritto ad un numero marginale di casi, ma la sua portata è veramente impressionante: l’Europa annovera oltre 12 milioni di vittime di mobbing, e cioè all’incirca l’8% dei lavoratori dell’Unione europea lo subiscono[2]. Anzi, ad avviso del Parlamento europeo il fenomeno in esame risulterebbe addirittura sottostimato rispetto alla sua reale entità.

Il concetto del mobbing è stato sviluppato dalla psicologia del lavoro, quando si è trovata nella necessità di esprimere quel medesimo fenomeno di accerchiamento e aggressione che aveva osservato nel mondo delle relazioni inter-personali nell’ambiente di lavoro e che aveva individuato, attraverso un pecorso a ritroso dall’effetto alla causa, quale elemento scatenante di una serie di patologie psico-somatiche lamentate da un sempre maggior numero di lavoratori.

Le prime teorizzazioni del fenomeno del mobbing si sono sviluppate in Svezia ed in Germania, nel corso degli anni ottanta, grazie ad un gruppo di psicologi del lavoro, capitanati dal Prof. Heinz Leymann, padre indiscusso del mobbing.

Nel giro di pochi anni il problema delle vessazioni sul luogo di lavoro ha poi trovato vasto eco in tutta Europa e fuori dal vecchio continente: di mobbing si è iniziato a discutere in Francia, in Inghilterra e, da qualche anno,  anche in altri Stati tra quali Italia, Svizzera e Spagna, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Giappone.

Il dato interessante da rilevare è come l’intuizione di partenza del mobbing sia stata sviluppata, quasi contemporaneamente, in diverse aree del mondo occidentale ad economia sviluppata: in Inghilterra ad esempio, lo studioso Tim Field teorizza lo stesso fenomeno chiamandolo bullying at work-place[3]; analogamente avviene negli Stati Uniti, seppure in questo Paese lo studio della c.d. violenza morale sul lavoro abbia conosciuto, specie inizialmente, una forte connotazione di tutela della donna (si veda il fenomeno dell’harassment).

Anche in Francia, seppure qualche anno più tardi, vengono autonomamente avviate ricerche, in particolare dalla psicologa Marie-France Hirigoyen[4], su quello che lì viene chiamato harcèlement moral. 

Data questa circostanza, e considerato che un certo grado di conflittualità nel mondo del lavoro può ritenersi “fisiologico” e comunque è sempre esistito, è lecito desumere che non sia stato un caso che in svariati paesi, all’incirca nel medesimo periodo, diversi studiosi siano giunti attraverso strade diverse a focalizzare la loro attenzione sul mondo del lavoro come possibile elemento scatenante di patologie psichiche.

E non è un caso che ciò sia avvenuto verso la fine degli anni ottanta, perché proprio in quel periodo il mondo del lavoro ha iniziato a conoscere massicciamente gli effetti delle grandi trasformazioni portate dalle nuove caratteristiche dell’economia attuale: la globalizzazione innanzitutto, che con lo spostamento, su larga scala, di enormi produzioni in paesi a basso costo di manodopera ha reso necessario operare massicci tagli del personale in tutti i settori produttivi. Con la conseguenza, per chi rimaneva, di una sempre maggiore precarietà del posto di lavoro, da una parte, e di una esasperata rincorsa alla riduzione del costo aziendale, dall’altra.

D’altra parte, il fenomeno delle fusioni tra colossi societari ha provocato, nei settori interessati dal fenomeno, una serie di doppioni: se due grandi banche, o due grandi compagnie assicurative, si fondono, migliaia di impiegati divengono in esubero, e quindi, in qualche modo, molti o pochi devono essere eliminati.

Maggiore è la flessibilità e la precarietà, maggiore sarà la possibilità che basti un nonnulla per spazzarti via dal lavoro; maggiore sarà quindi la concorrenza tra colleghi, anche a mezzo di colpi bassi, per mantenere la propria competitività; e più facile ed invitante sarà per l’azienda elaborare strategie per l’eliminazione di quei dipendenti che, ad un certo punto della loro carriera e senza colpe, sono divenuti un segno meno nella lista delle “risorse umane”.

E’ questo dunque lo sfondo nel quale collocare le vicende di mobbing; una situazione di base dove il livello di soglia di attenzione nervosa del lavoratore è già, per ragioni indipendenti dalla volontà dei singoli, molto alta[5].

 

2. Le definizioni.

 

Nell’ambito della psicologia del lavoro è possibile incontrare una vera e propria “carrellata[6] di definizioni del mobbing, per quanto il punto di partenza sia da ritenersi la nozione che è stata data da Leymann, che ha così inquadrato il fenomeno in questione: “In caso di conflitto, le azioni che hanno la funzione di manipolare la persona in senso non amichevole si possono distinguere in tre gruppi di forme di comportamento. Un gruppo di azioni verte sulla comunicazione con la persona attaccata, tendendo a portarla all’assurdo o alla sua interruzione (…). Un altro gruppo di comportamenti punta sulla reputazione della persona, utilizzando strategie per distruggerla (pettegolezzi, offese, ridicolizzazioni per esempio su handicap fisici, derisioni pubbliche per esempio delle sue opinioni o idee, umiliazioni). Infine le azioni del terzo gruppo tendono a manipolare la prestazione della persona, per esempio per punirla (non gli/le viene dato alcun lavoro o gli/le vengono affidati compiti senza senso, o umilianti, o molto pericolosi ecc.). (…) Solo se queste azioni vengono compiute di proposito, frequentemente e per molto tempo, si possono chiamare mobbing[7].

La Associazione contro lo Stress Psico-sociale ed il Mobbing, fondata ed operante in Germania, definisce così il fenomeno: il Mobbing consiste in una comunicazione conflittuale sul posto di lavoro tra colleghi o tra superiori e dipendenti nella quale la persona attaccata viene posta in una posizione di debolezza e aggredita direttamente o indirettamente da una o più persone in modo sistematico, frequentemente e per un lungo periodo di tempo, con lo scopo e/o la conseguenza della sua estromissione dal mondo del lavoro. Questo processo viene percepito dalla vittima come una discriminazione[8].

In Francia la definizione di mobbing (più frequentemente indicato con il sintagma «harcèlement moral») ricalca sostanzialmente quella prospettata da Leymann[9]. Per la psicologa francese Hirigoyen esso riguarda “qualunque condotta impropria che si manifesti, in particolare, attraverso comportamenti, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica o psichica di una persona, di metterne in pericolo l’impiego o di degradare il clima lavorativo[10]. Anche in Francia il mobbing, a livello di requisiti per la sua sussistenza, si regge su situazioni negative per il lavoratore-vittima che si ripetono nel tempo (“caractère répétitif”), in modo sistematico ed incessante[11].

In Svizzera, “il mobbing è una situazione di comunicazione non etica caratterizzata dalla ripetizione, nel lungo periodo, da parte di una o più persone, di comportamento ostili diretti sistematicamente contro un individuo che sviluppa, come reazione, gravi problemi fisici o psicologici[12].

In Inghilterra, il Manuale anti-bullying del Sindacato dei lavoratori dei settori della manifattura, della scienza e della finanza (MSF Unioni), fornisce la seguente definizione di mobbing, più propriamente  «bullying at workplace» nella tradizione anglosassone: una “pratica persistente di danni, offese, intimidazioni o insulti, abusi di potere o ingiuste sanzioni disciplinari che induce in colui contro il quale è indirizzata sentimenti di rabbia, minaccia, umiliazione, vulnerabilità, che mina la sua fiducia in se stesso e può causare malattie da stress[13].

Negli Stati Uniti per mobbing si intende un “emotional assault”, che si sviluppa con continuità in un ambiente di lavoro progressivamente sempre più ostile verso la vittima (“hostile environment”), in una vera e propria escalation di abusi e terrorismo psicologico[14].

Di particolare importanza infine, per l’autorevolezza dell’ente e la serietà degli studi e delle ricerche svolte, è la definizione di mobbing fornita dalla I.L.O. (International Labour Organization), che nel suo Draft code of practice on violence and stress at work, definisce il mobbing come “systematic, repeated or persistent verbal or psychological action against a victim by several people, at the workplace or in connection with work, that hurts, humiliates, offends or intimidates the victim”.[15]

In Italia la nozione di mobbing non presenta elementi sostanzialmente diversi da quelli individuati negli altri sistemi. Anche nel nostro Paese si è infatti ampiamente diffuso l’insegnamento di Leymann.

Harald Ege ha inquadrato il mobbing come una “forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori[16]: “il mobbing si manifesta come un’azione (o una serie di azioni) che si ripete con una certa frequenza e per un certo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobber (o aggressori) per danneggiare la vittima (o mobbizzato), quasi sempre in modo sistematico e con uno scopo ben preciso[17]. Lo stesso Ege da ultimo ha poi descritto il mobbing come “incredibilmente simile, per caratteristiche, strategie, obiettivi e atteggiamenti, alla guerra vera e propria[18].

A sua volta Casilli, ritenendo essenziale mettere debitamente a fuoco gli “aspetti sistematici-organizzativi” del mobbing, ne ha fornito la seguente definizione: “Il mobbing è un sistema di organizzazione produttiva dell’attività umana, consistente in una successione di episodi traumatici correlati l’uno con l’altro e aventi come scopo l’indebolimento delle resistenze psicologiche e la manipolazione della volontà del soggetto mobbizzato[19].

In definitiva, la nozione del mobbing, lasciando da parte le diverse sfumature, non presenta particolari divergenze da un sistema all’altro: ovunque con la parola “mobbing” si indica una forma di aggressione/prevaricazione ripetitiva e continuativa, realizzata nei confronti di uno o più lavoratori da parte di superiori, colleghi o dalla stessa azienda, che si snoda attraverso diversi comportamenti tutti riconducibili ad un medesimo quadro. Al centro si pone una particolare situazione ambientale che si viene a creare sul posto di lavoro: una sorta di cortina di fuoco che si sviluppa sistematicamente  intorno e contro il lavoratore preso di mira. In tutta evidenza l’accanimento ripetitivo nei confronti mobbizzato per un certo lasso di tempo rappresenta il nocciolo del concetto in esame.

Tutte le definizioni sopra riportate mettono peraltro in luce come il mobbing sia piuttosto aperto ed idoneo ad accogliere una pluralità di fattispecie, che variano sia per le condotte attuate per accerchiare la vittima, sia per i soggetti che sono di volta in volta parte attiva dell’azione mobbizzante.

Si tratta dunque di una categoria che, fermo restando gli elementi indefettibili della aggressione e della ripetitività, è però dotata di una certa flessibilità per le fattispecie cui si può riferire. Inoltre, se il concetto di mobbing è qualcosa di più circostanziato rispetto al generico concetto di molestia morale, nondimeno lo ricomprende per costituire una dinamica aggressiva di certo più grave ed insidiosa.

In ogni caso, deve essere rilevato che nella psicologia del lavoro, così come nella sociologia, lo studio degli elementi che compongono il mobbing non può dirsi ancora definitivamente assestato: la ricerca empirica sulle diverse variabili che interessano il fenomeno in questione (soggetti autori delle prevaricazioni, obiettivi, tempi di durata delle persecuzioni, tipologie di condotte che ricorrono nel mobbing, ecc.), conduce infatti continuamente a nuove scoperte e proposte di inquadramento del mobbing.

Tutto ciò peraltro non deve intendersi come sintomo di incertezza definitoria, essendo gli elementi strutturali del mobbing ormai dato acquisito, come detto; quanto piuttosto di un’opera di affinamento della categoria, attraverso un vero e proprio processo di  “tipicizzazione” delle condotte (o “azioni mobbizzanti”) e delle dinamiche che contraddistinguono il mobbing.

A prescindere da quelle che possono essere le diverse direzioni intraprese dagli studiosi del mobbing, risulta oggi possibile trarre, dai diversi contributi in materia, un quadro piuttosto chiaro ed uniforme in merito agli elementi strutturali della fattispecie in esame.

In primo luogo, come si è già posto sopra in luce, la psicologia del lavoro ritiene essenziali, quali caratteristiche fondamentali del mobbing, sia la quantità delle azioni persecutorie (in altri termini la loro frequenza e ripetizione) e sia la durata nel tempo dell’azione mobbizzante[20].

Le prime coordinate temporali del mobbing sono state individuate da Leymann, il quale aveva ritenuto che il mobbing dovesse avere una durata di perlomeno sei mesi, con una frequenza almeno settimanale degli episodi vessatori. Attualmente, siffatte indicazioni risultano però superate un po’ ovunque da un approccio decisamente più flessibile, in cui è ormai assodato che il limite dei sei mesi così come la cadenza settimanale non possono costituire soglie minime scientificamente fondate[21]. Se quindi da un lato è certo che “una situazione conflittuale che duri solo qualche ora o qualche giorno non può essere considerata Mobbing”, è tuttavia altresì indubbio che un limite minimo di durata del mobbing, valido peraltro per tutte le fattispecie, non può più trovare accoglimento[22]. Pertanto, se il mobbing non può essere ravvisato in un singolo episodio oppure in un normale conflitto circoscritto nel tempo, ciò non significa che esso debba necessariamente svilupparsi in un arco temporale particolarmente esteso. Un mobbing circoscritto nel tempo può ad esempio essere ipotizzato quando l’azienda sia determinata ad isolare ed eliminare quanto prima il lavoratore divenuto scomodo, e quindi adotti una strategia particolarmente aggressiva e che non lascia respiro alla vittima.

In altri termini si tratta di procedere caso per caso, andando a confrontare il parametro del tempo con tutti gli altri tasselli che contribuiscono a qualificare una determinata condizione lavorativa come mobbing.

Le variabili del mobbing infatti non sono solo quantitative (tempo e numero delle azioni vessatorie), ma anche qualitative: il tipo di condotte che si inseriscono nell’azione mobbizzante,  il particolare percorso dinamico, attraverso il quale si snoda il mobbing, e gli obiettivi perseguiti dai persecutori sono tutti parametri di riferimento che caratterizzano il fenomeno in questione proprio dal punto di vista qualitativo, e che di fatto contribuiscono a spostare l’angolo visuale da un approccio squisitamente temporale.

 

3. La Risoluzione del Parlamento Europeo “Mobbing sul posto di lavoro” e altri documenti comunitari

 

Innanzitutto, parlando di disciplina legale del  mobbing, non può tacersi della Risoluzione del Parlamento Europeo A5-0283 del 20 settembre 2001, significativamente titolata  “Mobbing sul posto di lavoro[23], che si inserisce nel solco tracciato dalle precedenti Risoluzioni 13 aprile 1999 e 24 ottobre 2000 sulla modernizzazione dell’organizzazione del lavoro.

Le Risoluzioni, come noto, non sono atti precettivi, e neanche atti vincolanti per i suoi destinatari. Gli Stati membri sono lasciato sostanzialmente liberi di adeguarsi o meno alle prescrizioni del Parlamento. La Risoluzione tuttavia è un documento importante, perché rende esplicita la volontà degli organi comunitari; spesso poi rappresenta il preludio ad un atto più incisivo, come una Direttiva, che potrebbe imporre dei precetti normativi in materia di mobbing.

Vediamo dunque i principali contenuti della Risoluzione[24].

In primo luogo, la Risoluzione ricerca le cause del mobbing, che individua sia in fenomeni collegati alle particolari condizioni del mercato del lavoro attuale (allargamento dell’area di impiego precario e a termine, aumento della competitività), sia in fenomeni interni all’azienda (carenza di organizzazione lavorativa, di informazione interna, di direzione).

A livello di conseguenze del mobbing, correttamente la Risoluzione pone l’accento non soltanto sul piano della vittima, che sopporta stress e patologie conseguenti, principalmente di natura psichica, ma allarga il fronte dei danneggiati anche alla famiglia della vittima, all’azienda ove essa opera e infine alla organizzazione sociale tutta.

Tra le aree a rischio mobbing, la Risoluzione ne individua due in particolare: il lavoro femminile e le professioni con elevato livello di tensione.

Agli Stati membri, la risoluzione rivolge esortazioni ad intervenire a vari livelli.

Da un punto di vista legislativo, gli aderenti all’Unione vengono invitati a rivedere ed aggiornare la legislazione vigente sotto il profilo della lotta al mobbing, non senza prima “verificare e uniformare la definizione della fattispecie di mobbing”.

Da un punto di vista sociale, viene richiesto di imporre alle imprese, ai pubblici poteri e alle parti sociali, di attuare iniziative soprattutto a livello di prevenzione del fenomeno, anche attraverso idonee procedure di informazione di lavoratori e medici del lavoro, nonché di individuare procedure di risoluzione del conflitto non contenziose.

Qualche mese dopo la Risoluzione del Parlamento Europeo, è toccato alla Commissione delle Comunità Europee esprimersi in argomento, in occasione della Comunicazione della Commissione 11 marzo 2002 “Adattarsi alle trasformazioni del lavoro e della società: una nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002-2006”.

Riprendendo le linee tracciate dalla Risoluzione, la comunicazione osserva come “I cambiamenti dell’organizzazione del lavoro, in particolare le modalità più flessibili di organizzazione dell’orario di lavoro e una gestione delle risorse umane più individuale e maggiormente orientata al risultato hanno un’incidenza profonda sulla salute sul luogo di lavoro o, più in generale, sul benessere sul luogo di lavoro. Si osserva così che le malattie considerate emergenti quali lo stress, la depressione o l’ansia, nonché la violenza sul luogo di lavoro, le molestie e l’intimidazione rappresentano ben il 18% dei problemi di salute legati al lavoro, un quarto dei quali comporta un’assenza dal lavoro pari o superiore alle due settimane … (omissis)… Lo stress, le molestie sul luogo di lavoro, la depressione e l’ansia, i rischi legati alle dipendenze dall’alcool, dalle droghe e dai medicinali devono essere oggetto di azioni specifiche …. (omissis)….. Lo sviluppo dei problemi e delle malattie psicosociali solleva nuove sfide per la salute e la sicurezza sul lavoro e compromette il miglioramento del benessere sul luogo di lavoro. Le varie forme sotto cui si presentano le malattie psicologiche e la violenza sul lavoro rappresentano oggi un problema particolare che giustifica un’iniziativa legislativa”.

Sempre in questo solco, di particolare attenzione ed allerta della Comunità Europea alle nuove situazioni di rischio che si delineano nel mondo del lavoro, va segnalata la recente Raccomandazione della Commissione del 19 settembre 2003 sull’elenco europeo delle malattie professionali, la quale all’art.1 par.7) raccomanda agli Stati membri “di promuovere la ricerca nel settore delle affezioni legate a un’attività professionale, in particolare per le affezioni descritte all’allegato II[25] e per i disturbi di natura psico-sociale legati al lavoro”.

Oltre questi documenti specifici sul tema, non bisogna dimenticare come la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione riconosca ad ogni lavoratore il diritto “a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose” (art.31), e in genere ad ogni cittadino il diritto “alla propria integrità fisica e psichica” (art.3).

Appare dunque chiaro che, in un quadro siffatto, una disciplina legislativa del mobbing appare in prospettiva futura qualcosa di più che una mera eventualità; mentre, per l’odierno, risulta necessario da subito attrezzarsi per affrontare il problema, sia in termini di prevenzione e gestione non contenziosa dei conflitti, sia, per quanto in via residuale, in termini di tutela giurisdizionale.

 

4. Sistemi di reazione al mobbing.

 

Già da più parti in Europa si è avvertita l’esigenza di reagire al fenomeno in questione intervenendo sui tradizionali assetti della tutela dei lavoratori, a partire dal contesto normativo. La stessa Risoluzione del Parlamento dell’Unione Europea nella Risoluzione «Mobbing sul posto di lavoro» sottolinea in più passi la necessità di una reazione energica da parte di tutti i soggetti coinvolti nella gestione delle condizioni di lavoro: ciò a partire dalle stesse istituzioni europee (Consiglio e Commissione) sino a giungere ai legislatori nazionali, alle imprese ed alle parti sociali.

Come vedremo in seguito, in Italia, similmente ad altri stati membri dell’Unione Europea, la reazione al mobbing si sta giocando su diversi fronti e livelli:

Ø      autoregolamentazione delle imprese;

Ø      contrattazione collettiva, aziendale e nazionale;

Ø      estensione della tutela INAIL alle vittime di mobbing;

Ø      apporto delle corti attraverso l’elaborazione giurisprudenziale;

Ø      progettazione di norme ad hoc volte ad incidere sia sul piano della prevenzione che sul versante della responsabilità civile e penale degli autori del mobbing;

Ø      possibilità di utilizzare in molti casi di mobbing le recenti normative (DLGS n.215 e 216 del 9 luglio 2003), rese in materia di divieto della discriminazione sul posto di lavoro a tutela dei c.d. “gruppi a rischio di esclusione sociale” (come minoranze religiose, politiche e di pensiero; gruppi etnici e razziali; donne; anziani; omosessuali, ecc.).

 

5. Esperimenti di contrattazione collettiva e di autoregolamentazione delle imprese

 

La contrattazione collettiva, ancor prima degli espressi inviti rivolti dalla Risoluzione del parlamento europeo, aveva già sentito la necessità di intervenire in qualche modo sulla problematica del mobbing e in generale sulle violenze morali nel luogo di lavoro.

Diamo di seguito conto delle prime norme inserite in alcuni contratti collettivi, dopo i primi, pioneristici, tentativi effettuati all’estero[26].

Il contratto collettivo nazionale del 1999 relativo alle imprese di assicurazione (amministrativi e produzione), prevede espressamente che le parti “riconoscono la rilevanza delle problematiche relative alle violenze morali ed alle persecuzioni psicologiche nell’ambito dell’attività lavorativa e l’opportunità di azioni volte all’informazione, alla prevenzione e alla tutela dei lavoratori rispetto a tale fenomeno”.

Non è ancora una norma operativa, come è evidente, ma rappresenta il primo timido segnale di attenzione verso la materia.

Sempre in ambito di contrattazione  a livello nazionale, si veda il  CCNL 1998-2001 per il personale dell’università che prevede, all’art.42,  un’ipotesi di infrazione disciplinare in caso di “atti e comportamenti lesivi della dignità della persona, ivi comprese le molestie sessuali, le violenze morali e le vessazioni di cui vengono fatto oggetto utenti e colleghi”.[27]

In epoca più recente, il contratto che ha maggiormente accolto la necessità di una tutela endo – aziendale per le vittime di mobbing è senz’altro il CCNL 28.02.2003 relativo al personale del comparto Ministeri che prevede, nell’ambito delle norme sulle forme di partecipazione e con esplicito riferimento alla citata Risoluzione del Parlamento Europeo, la creazione di un “Comitato Paritetico sul fenomeno del Mobbing”, con il compito di a) raccogliere dati relativi “all’aspetto quantitativo e qualitativo del feomeno del mobbing”; b) individuare le cause del fenomeno e verificare l’esistenza di condizioni di lavoro in grado di favorirne l’insorgenza; c) formulare proposte, in relazione alla prevenzione e repressione delle “situazioni di criticità”, e in relazione alla definizione dei codici di condotta; d) attuare idonei interventi formativi e di aggiornamento del personale.

Le Amministrazioni sono inoltre chiamate : 1) a costituire degli appositi “sportelli di ascolto”, nell’ambito delle strutture esistenti, 2)  a istituire la figura del “consigliere di fiducia”; 3) a definire i codici di condotta.

Sicuramente incisiva e più chiara appare la contrattazione aziendale.

Qui è senz’altro da segnalarsi il c.d. “Accordo di clima” stipulato il 25 gennaio 2001 tra le aziende di trasporto urbano torinesi ATM-SATTI e relative rappresentanze sindacali.

L’accordo istituisce una Commissione di clima destinata ad intervenire, con evidenti caratteristiche di mediazione, nei casi in cui un lavoratore lamenti una molestia sessuale, una discriminazione o una pratica di mobbing, definito come “ogni comportamento, reiterato nel tempo, che abbia come finalità l’annientamento psicologico di chi lo subisce”.

La Commissione è composta da 6 membri, di cui tre di designazione aziendale e tre di designazione da parte delle OO.SS.; il presidente, scelto tra i Magistrati in quiescenza, viene nominato all’unanimità.

L’operato della Commissione è meramente istruttorio e consultivo: essa ha il dovere, effettuate le “opportune convocazioni” e richiesta all’azienda se necessario “la consulenza di uno specialista (psicologo, ecc.)”, di istruire ogni caso e di redigere ed inviare all’azienda una relazione finale “che può contenere proposte di provvedimenti/interventi”.

Ancora in questo quadro, per così dire pre-Risoluzione, possiamo citare il Codice Etico adottato dalla compagnia Reale Mutua Assicurazioni con delibera del Consiglio di Amministrazione del 16 ottobre 2001. Il Codice, tra le altre cose, dedica particolare attenzione alla questione dei rapporti interpersonali sul luogo di lavoro, rispetto i quali sente di affermare come “La Società non potrà in alcun modo tollerare che sul posto di lavoro, ad ogni livello, si pongano in atto comportamenti, azioni, commenti che possono creare un clima di intimidazione o che comunque possano risultare offensivi”.

Tali rapporti, secondo la definizione del Codice, devono essere improntati a “correttezza e lealtà verso i colleghi”, con l’avvertenza che “non sono tollerate molestie e comportamenti offensivi o lesivi della dignità personale e professionale”.

Nelle intenzioni del Codice “ogni violazione dei principi e delle norme di comportamento richiesti ai dipendenti costiuisce una mancanza grave che può compromettere il necessario rapporto fiduciario”.

Peccato che l’unico “Garante dell’osservanza del Codice Etico” sia la Direzione Generale della medesima Società; il che lascia legittimamente dubitare sulla effettiva tempestività, imparzialità ed efficacia degli interventi di questo Garante, le cui funzioni preferibilmente dovrebbero essere svolte da un soggetto terzo (come vedremo di seguito nel Codice Etico di un’altra azienda), oppure da una Commissione paritetica (come prima nel caso dell’Accordo di Clima ATM-SATTI).

Nella fase post-Risoluzione merita invece attenta considerazione il Codice etico dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera O.I.R.M. – S.Anna di Torino.

L’accordo si segnala innanzitutto per il suo carattere, programmaticamente dichiarato, di adempimento alla raccomandazione della Risoluzione 20 settembre 2001 ad attuare, da parte di imprese e sindacati, “efficaci politiche di prevenzione”.

Merita attenzione il seguente passaggio della premessa al codice etico: “In quest’ottica l’Azienda OIRM – S.Anna ………..  si è posta come obbiettivo il riconoscimento e la comprensione dei processi latenti e non, che influenzano le relazioni interpersonali all’interno dell’istituzione, provocando disagio, perdita di efficienza e creatività, resistenza al cambiamento, e creando in questo modo i presupposti per il sorgere e l’alimentarsi di situazioni di mobbing. Come azienda, in situazioni di mobbing, dobbiamo affronatre problemi riguardanti la produttività, l’assenteismo, l’abbassamento della qualità del lavoro e del sevizio erogato, la perdita di professionalità e il detrioramento della qualità della vita in termini di costi sociali”. 

Il Codice contiene una circostanziata definizione di violenza morale e persecuzione psicologica, intesa come “ogni atto, patto o comportamento che produca, anche in via indiretta, un effetto pregiudizievole alla dignità e alla salute psico-fisica del dipendente nell’ambito dell’attività lavorativa. In particolare rientrano nella tipologia della molestia morale e della persecuzione psicologica:

a)      Umiliazioni e maltrattamenti verbali reiterati e persistenti;

b)      Sisistematica delegittimazione di immagine e discredito negli ambienti di lavoro, anche di fronte a aterzi;

c)      Atti e comportamenti mirati a discriminare e danneggiare il dipendente nella carriera status, assegnazione o rimozioni da incarichi e mansioni;

d)      Immotivata esclusione o marginalizzazione dalla ordinaria comunicazione aziendale;

e)      Sottostima sisstematica dei risultati non giustificata da insufficiente rendimento o mancato assolvimento dei compiti assegnati”.

In caso di mobbing, il codice offre alla vittima la possibilità di scegliere una procedura informale ed una procedura formale. Alla prima è deputato un Consigliere di fiducia, “che è persona incaricata di fornire consulenza ed assistenza ai dipendenti oggetto di molestie sessuali o violenza morale e persecuzione psicologica. Il Consigliere è persona scelta dall’azienda, che possiede l’esperienza, la preparazione e le capacità necessarie a svolgere il compito assegnato. E’ nominata dal direttore generale su designazione del Comitato Pari opportunità e dura in carica tre anni.”. Qualora sia interessato dal lavoratore, il Consigliere “interviene al fine di favorire il superamento della situazione di disagio e per ripristinare un sereno ambiente di lavoro”. Per istruire il caso, al consigliere è dato il potere di procedere “in via riservata, all’acquisizione degli elementi e delle informazioni necessarie per la trattazione e la valutazione del caso”; è fatto obbligo al consigliere di sentire il presunto responsabile, con facoltà di proporre un confronto diretto tra le parti in lite, alle quali deve comunque preventivamente comunicare ogni iniziativa che intende assumere e le proposte conclusive, che deve riferire anche al Direttore generale. Elemento di assoluta novità è costituito dalla previsione di un termine per l’espletamento della procedura informale: “90 giorni dalla richiesta del dipendente, salvo motivate ragioni di proroga per un periodo comunque non superiore a 90 giorni. La procedura formale invece può essere presentata al lavoratore ai responsabili aziendali per il personale, i quali applicheranno nei confronti dei responsabili le dovute misure disciplinari, in caso di accertamento positivo della denuncia. In tali casi, inoltre, l’Amministrazione potrà anche adottare “le misure organizzative ritenute utili alla cessazione immediata dei comportamenti di molestie ed al ripristino di un sereno ambiente di lavoro”.

 

6. L’estensione della copertura INAIL alle vittime di mobbing.

 

Nel nostro ordinamento, come negli altri Stati membri dell’Unione Europea, opera un sistema sociale di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, che, come noto, è amministrato dall’INAIL[28]:; tale organismo fornisce, in base al testo unico di cui al D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124