Le funzioni della Consigliera di Parità: tutela contro la discriminazione del mobbing, azioni in giudizio,intervento nei processi nell’ambito del Decreto Legislativo 23/05/2000 n. 196

Avv. Mirella Guicciardi
(Consigliera di Parità supplente della Provincia di Modena)

 

Le Consigliere di Parità della Provincia di Modena hanno ritenuto opportuno organizzare tale Convegno per i seguenti motivi:

 

-          Direttiva europea 2000/78/CE del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro con particolare riferimento alla distinzione tra il concetto di discriminazione diretta ed indiretta,

-          decreto legislativo 23 Febbraio 2000 n.38, che ha introdotto, seppure con alcune eccezioni, la tutela assicurativa INAIL del danno biologico,

-          decreto legislativo 09 Luglio 2003 n.216 di attuazione della direttiva 2000/78/CE,

-          sentenza della Corte Costituzionale 19/12/2003 n. 359, che ha avuto modo di interessarsi, seppure con riguardo al particolare problema della competenza legislativa a seguito della Legge regionale del Lazio 11/07/2002 n.16, del fenomeno del Mobbing riprendendo alcuni concetti ed argomenti sviluppati dalla dottrina gius-lavoristica,

-          Circolare INAIL n.71 del 17 dicembre 2003 avente ad oggetto il disagio lavorativo,compreso il mobbing,

-          C.C.N.L. ove hanno inserito la definizione di Mobbing e/o di molestia sessuale, tra cui Regioni e autonomie locali in data 22/01/2004, Ministeri in data 12/06/2003, Enti pubblici non economici- parastato in data 09/10/2003, Abrasivo ceramiche – industria – chimica – gas petrolio  in data 12/02/2002 – 19/12/2002, Assicurazioni in data 18/12/1999, Cinescopi industria-Lampade.Valvole termoioniche in data 23/01/2003, Vetro – Industria 2° lavorazione in data 29/11/2002,

-          Istituzione nel Settembre 2002 da parte del Governo di una Commissione tecnica con il compito di elaborare una proposta di legge;

-          Proposte e progetti di legge presentati dalle varie forze politiche;

-          i vari casi che si sono presentati presso l’Ufficio delle Consigliere di Parità.

 

A tal proposito, le consigliere di parità, effettiva e supplente, svolgono funzioni di promozione e controllo dell'attuazione dei princìpi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione per donne e uomini nel lavoro. Nell'esercizio delle funzioni loro attribuite, le Consigliere di parità sono pubblici ufficiali ed hanno l'obbligo di segnalazione all'autorità giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza.

Le consigliere di parità intraprendono ogni utile iniziativa ai fini del rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici, tra cui :

a) rilevazione delle situazioni di squilibrio di genere, al fine di svolgere le funzioni promozionali e di garanzia contro le discriminazioni previste dalla legge 10 aprile 1991 n. 125;
b) promozione di progetti di azioni positive, anche attraverso l'individuazione delle risorse comunitarie, nazionali e locali finalizzate allo scopo.

 

In tale ottica, appare importante individuare correttamente il concetto di discriminazione a cui le consigliere di parità devono attenersi nell’ambito delle denunce da parte dei lavoratori e/o lavoratrice.

Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903 e del D.Lgvo 23 maggio 2000, n. 196, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso.
Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.

In particolare, tale normativa vieta ogni forma di discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, vietava la discriminazione anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia, di gravidanza e in modo indiretto attraverso meccanismi di preselezione che indichino come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso.

 

Il decreto legislativo n.216/2003, che recepisce la direttiva europea 2000/78/CE all’art. 2 definisce la differenza fra discriminazione diretta e indiretta:

 

discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona e' trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;

 

discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

 

Il decreto legislativo 216 descrive puntualmente, all’art. 3, le varie situazioni che possono trovare tutela grazie all'applicazione delle nuove norme:

a) accesso all'occupazione e al lavoro autonomo e dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
d) affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni.

 

La direttiva 2002/73/CE, che dovrà essere recepita dall’Italia entro il 5 ottobre 2005, oltre a ribadire il concetto di discriminazione sulla base del sesso, definisce:

 

molestie: situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo

 

molestie sessuali: situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo

 

Le molestie e le molestie sessuali, ai sensi della presente direttiva, sono considerate discriminazioni fondate sul sesso e sono pertanto vietate.

Orbene, l’art.8 D.Lgvo 23 maggio 2000, n. 196, prevede che la lavoratrice e/o lavoratore che intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni ai sensi dei commi 1 e 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell'art. 410 del codice di procedura civile o, rispettivamente, dell'art. 69- bis del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, anche tramite la consigliera o il consigliere di parità provinciale territorialmente competente.
Le consigliere di parità provinciali competenti per territorio, ferme restando le azioni in giudizio di cui ai commi 8 e 10, hanno facoltà di ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima.

 

Siffatta premessa è risultata utile al fine di  inquadrare le funzioni ed i compiti delle consigliere di parità della Provincia di Modena nell’ambito della loro opera di tutela delle lavoratrici e/o lavoratori nell’ambito delle discriminazioni, in particolare, oggetto del presente convegno, del Mobbing.

 

Il «mobbing» è un fenomeno sociale che trova il suo epicentro nel mondo del lavoro, e più specificatamente nell’ambito delle molestie morali e delle persecuzioni psicologiche esercitate nel contesto di attività lavorative. Esso, come recentemente è stato posto in luce dal Parlamento dell’Unione Europea nella Risoluzione «Mobbing sul posto di lavoro» del 20 Settembre 2001 n.A5-0283/2001, coinvolge una moltitudine di soggetti: non solo in primo luogo i lavoratori  (nella maggior parte dei casi per gli effetti devastanti sulla loro salute fisica e psichica), ma anche le aziende (sotto il profilo della redditività e dell’efficienza economica delle stesse), nonché le famiglie delle vittime e la società civile nel suo complesso (in primis in termini di costi sociali). In altri termini, questo fenomeno consiste in una degenerazione dei rapporti sui luoghi di lavoro che, direttamente o indirettamente, tocca tutti i consociati, nessuno escluso. Peraltro, il mobbing non risulta circoscritto ad un numero marginale di casi, ma la sua portata è veramente impressionante: l’Europa annovera oltre 12 milioni di vittime di mobbing, e cioè all’incirca l’8% dei lavoratori dell’Unione europea lo subiscono. Anzi, ad avviso del Parlamento europeo il fenomeno in esame risulterebbe addirittura sottostimato rispetto alla sua reale entità.

 

Quanto ai soggetti coinvolti, tra giovani, adulti, uomini, donne, le statistiche hanno dimostrato che le donne sono maggiormente colpite rispetto agli uomini, e l’età è, generalmente,  meno di 30 anni e più di 45 anni.

 

Con questo termine si suole generalmente far riferimento alle diverse forme di violenza psicologica esercitate nei confronti dei lavoratori sui luoghi di lavoro. Il termine mobbing deriva dal verbo inglese “to mob” che significa: accerchiare, circondare, assediare, attaccare, assalire in massa, fare ressa, affollarsi intorno a qualcosa o qualcuno. Nella sua trasposizione in ambito lavorativo, la parola mobbing assume il significato di pratica vessatoria, persecutoria o, più in generale, di violenza psicologica perpetrata dal datore di lavoro o da colleghi (mobber) nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) per costringerlo alle dimissioni o comunque ad uscire dall’ambito lavorativo. I motivi della persecuzione possono essere i più svariati: invidia, razzismo, diversità religiosa o culturale rispetto al gruppo prevalente, carrierismo sfrenato, o semplice gusto nel far del male ad un’altra persona.

 

Si suole generalmente distinguere tra mobbing verticale, nel quale l’attività vessatoria viene posta in essere da parte dello stesso datore di lavoro o da un superiore gerarchico o comunque un soggetto cui il mobbizzato è, nell’organizzazione del lavoro aziendale, subordinato; ed il mobbing orizzontale in cui la violenza psicologica proviene, invece, da parte di colleghi di lavoro o addirittura da soggetti subordinati gerarchicamente alla vittima. In realtà spesso accade che le due tipologie finiscono per intrecciarsi, in una comune strategia persecutoria che vede il datore di lavoro come "ispiratore" ed i colleghi come concreti "esecutori".

 

Indagate le risposte offerte in sede giudiziaria e quelle elaborate in ambito legislativo all’emergenza mobbing, rimangono da esaminare, per completare il quadro della situazione, le soluzioni di natura non contenziosa o comunque alternativo-complementare presenti ovvero attuabili nella prassi. Il punto di partenza è indubbiamente rappresentato da un adeguato approccio del problema: occorre evitare gli estremi, distinguere il mobbing  da ciò che non lo è ma altresì non ironizzarlo o sottovalutarlo né tanto meno confonderlo con la fisiologica e stimolante competizione sul lavoro, quasi fosse uno straordinario strumento di selezione. Considerata la gravità delle conseguenze individuali e sociali del fenomeno, fondamentali sono le attività di informazione e di prevenzione da realizzare ad esempio mediante programmi di formazione ed aggiornamento del personale in generale e del management in particolare, l’istituzione di organi paritetici, di  sportelli antimobbing  ad opere delle Consigliere di Parità, delle ASL, degli Enti locali e dei sindacati.

Invero in un’ottica di prevenzione del fenomeno anche altri soggetti possono svolgere un ruolo significativo quali, in primo luogo, il datore di lavoro in conformità agli obblighi di correttezza e buona fede in executivis ex articoli 1175 e 1375 c.c., a quelli previsti dall’art. 2087 c.c. e dalla legge n.626/1994, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, il Consigliere di fiducia quando il mobbing viene attuato con discriminazione e molestie sessuali nei confronti di donne in attuazione della legge n.125/1991 sulle pari opportunità e persino il consulente del lavoro.   

 

Procedura delle Consigliere di Parità:

1) Esame del caso del lavoratore e/o della lavoratrice attraverso siffatte analisi:

- Marginalizzazione dall’attività lavorativa, svuotamento delle mansioni, mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata, mancata assegnazione degli strumenti di lavoro, ripetuti trasferimenti ingiustificati;

- esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione ed aggiornamento professionale;

-  prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto;

- prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, anche in relazione ad eventuali condizioni di handicap psico-fisici;

- impedimento sistematico e strutturali all’accesso a notizie;

- inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro;

- esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo;

 

2) sottoscrizione di moduli  di incarico e di privacy;

 

3) esame del contratto collettivo di lavoro e la normativa vigente;

 

4) lettera al datore di lavoro;

 

5) eventuale incontro con le parti;

 

6) coinvolgimento di medici esperti per valutare se sussiste la patologia lamentata dal mobbing;

 

7) intervento ad adiuvandum in collaborazione con i legali e/o il Sindacato.

 

Per quanto riguarda il connotato peculiare della fase pre – mobbing, tipica fase di analisi da parte delle Consigliere di Parità nei casi a loro sottoposti, preme rilevare che non si identifica nella mancanza di strumentazione giuridica per combattere le condotte vietate avverso le quali si riscontra in giurisprudenza l’utilizzo degli articoli 2043-2087 c.c. nonché dell’art. 2103 c.c., quanto piuttosto un approccio di carattere frammentario, diretto a colpire più o meno incisivamente alcune gravi degenerazioni del fenomeno. In effetti da una valutazione mirata dei dicta giurisprudenziali precedenti all’enucleazione della nozione di mobbing emerge che ampia tutela è stata predisposta avverso il demansionamento o la dequalificazione professionale alla luce del combinato disposto degli articoli 2103 c.c. e 2087 c.c., contro le dimissioni frutto di coartazione, contro l’esercizio illegittimo del potere autoritativo del datore di lavoro, contro comportamento persecutori o discriminatori quali ad esempio l’ingiustificata ripetuta richiesta di visite mediche di controllo e l’abuso di controlli della malattia da parte del lavoratore, contro il trasferimento ingiustificato, la minaccia di licenziamento, l’applicazione reiterata ed immotivata di sanzioni disciplinari, l’impiego eccessivo del lavoratore (cosiddetto surmenage lavorativo), contro le violenze e le molestie sessuali da parte del datore di lavoro o dei colleghi nei confronti della vittima. Peraltro casi pratici avvenuti e sottoposti alla attenzione dell’Ufficio delle Consigliere di parità dal 2003.

 

In tale ottica è opportuno occuparci in forma breve della tematica delle prove, atteso che il giudice deve decidere iuxta alligata ac provata partium ex articolo 115 c.p.c. . Nel caso di specie i compiti prescritti dall’art. 99 c.p.c. e 2697 c.c. risultano effettivamente molto gravosi ed in particolar modo in punto sussistenza sia degli atti integranti il mobbing sia del nesso di causalità (o concausa) tra le condotte lato sensu persecutorie e i danni all’equilibrio psicologico e/o psicofisico a carico della vittima. Teoricamente ogni tipo di prova è utilizzabile (documentale, testimoniale, peritale, presuntiva) ma in concreto l’interessato  raramente può avvalersi di prove scritte (unico campo sembra essere quello del demansionamento) mentre più spesso deve ricorrere alla prova testimoni  la cui attendibilità  è spesso discutibile poiché molti colleghi temono le eventuali reazione del “mobber” datore di lavoro o alla prova induttiva ex articolo 2729 c.c. cioè agli indizi gravi, precisi e concordanti che sono prove non vincolanti per il giudice. Si evidenzia che, purtroppo, in generale, la giurisprudenza manifesta un certo scetticismo di fronte ed affermati casi di mobbing tanto da pretendere una prova rigorosa. E ciò sebbene la stessa giurisprudenza abbia riconosciuto che in questi casi “la prova è particolarmente difficoltosa a causa di eventuali sacche di omertà sempre presenti o per altre ragioni” e ne abbia consentito semplificazioni ritenendo ad esempio provato il nesso causale con il solo accertamento, a seguito di istruttoria, della condotta vessatoria, dolosa ma anche colposa, dell’insorta patologia in collegamento con il rapporto di lavoro e della circostanza della lavoratrice non aveva mai avuto simili disturbi o patologie senza ricorso a perizie od altre prove.

Pertanto il compito delle Consigliere di Parità sarà diretto in tale senso, al fine di permettere al lavoratore e/o alla lavoratrice di fornire al Giudice del lavoro le prove necessarie, tra cui testimoni e perizie medico legali.

 

 

In conclusione, le Consigliere di Parità invitano quindi ad una concertazione tra le parti in causa affinchè si possa trovare, in assenza di una legge, un denominatore comune allo scopo di tutelare il lavoratore e/o la lavoratrice in tale situazione grave di malattia professionale ormai riconosciuta anche in alcuni C.C.N.L. citati e in vari ipotesi di accordi sindacali.

 

 

 Modena, lì 02 Aprile 2004