Commette il delitto di estorsione il datore di lavoro che, sotto minaccia di licenziamento, costringe i propri dipendenti ad accettare trattamenti retributivi deteriori ed, in genere, condizioni di lavoro contrarie alla legge ed ai contratti collettivi

(commento a Cassazione Penale, Sez. III°, 05/10/2007 n. 36642 )

 

1. La vicenda

L'episodio dal quale trae origine la pronuncia in commento è, per certi versi, "paradigmatico" della situazione in cui si trovano molti lavoratori, specie se giovani, alle prese con un mercato del lavoro caratterizzato da una sproporzione tra domanda e offerta di impiego. Nel caso di specie gli imputati, in qualità di datori di lavoro, avevano posto in essere nei confronti delle proprie lavoratrici dipendenti una serie di condotte "estorsive", in particolare costringendole ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate e, in genere, condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi, approfittando della situazione di "debolezza contrattuale" delle stesse. Infatti, ha prospettato l'accusa, in una situazione di mercato in cui la domanda di lavoro superava di gran lunga l'offerta, le dipendenti erano state ridotte, sotto la minaccia del licenziamento, in una situazione di condizionamento morale, in cui ribellarsi alle condizioni vessatorie per esercitare i propri diritti sarebbe equivalso a perdere il posto di lavoro.

Più in particolare, nel corso dell'istruttoria di primo grado, era emerso che le dipendenti:

  • erano state assunte senza libretto di lavoro;
  • non avevano ricevuto, salvo che per un breve periodo, alcuna copertura assicurativa;
  • non avevano goduto le ferie;
  • non avevano percepito i maggiori corrispettivi per l'esecuzione di prestazioni di lavoro straordinario, né altri emolumenti ad esse spettanti;
  • firmavano prospetti-paga indicanti importi superiori di quelli effettivamente percepiti.

Era poi emerso che almeno una delle dipendenti:

  • era stata indotta a sottoscrivere un contratto di associazione in partecipazione pur non mutando di fatto le sue qualità ed il suo ruolo all'interno dell'impresa;
  • era stata costretta a mentire sulla propria posizione nel corso di un'indagine ispettiva della Direzione Provinciale del Lavoro;
  • era stata costretta a firmare una dichiarazione in cui si assumeva la responsabilità, con il proprio fidanzato, di un furto subito dall'azienda.

Il giudice d'appello, a differenza di quello di prime cure, aveva ravvisato nelle condotte ascritte agli imputati ed accertate in istruttoria, gli estremi del delitto di estorsione, rilevando:

  • l'idoneità della condotta ad integrare l'elemento materiale della minaccia, la quale emergeva da una serie di elementi quali l'ingiustizia della pretesa, la personalità sopraffattrice degli agenti, le circostanze ambientali quantomai favorevoli ai datori di lavoro;
  • l'ingiustizia della pretesa, non trovando fondamento nella legge né la costrizione al rilascio della dichiarazione di ammissione del furto, né la condotta imposta in occasione dell'ispezione. In particolare i giudici sottolineavano l'irrilevanza dell'esistenza di un accordo contrattuale tra gli imputati e le persone offese, poiché tale atto formale, in astratto lecito, era stato utilizzato nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto, con altrui danno;
  • l'ingiusto profitto e l'altrui danno, inteso questo come contributo delle energie lavorative impiegate dalle lavoratrici a vantaggio del titolare dell'azienda dietro una retribuzione inferiore a quella dovuta e dichiarata in busta paga.

I ricorsi degli imputati avverso la sentenza d'appello si incentravano entrambi su una comune e principale doglianza: il giudice avrebbe omesso di apprezzare la circostanza che la violazione dei diritti dei lavoratori era il risultato di un accordo tra le parti il quale, pur nullo sotto il profilo civilistico, escluderebbe sul piano penale l'esistenza della minaccia.

2. La decisione dalla Corte

La Corte premette sottolineando come l'oggetto giuridico tutelato dal delitto di estorsione sia duplice e consista nell'inviolabilità del patrimonio e, nel contempo, nella libertà di autodeterminazione.

La Cassazione premette altresì che elemento della fattispecie è il costringimento del soggetto passivo determinato dalla violenza o dalla minaccia dell'agente: in particolare non si deve trattare di una costrizione assoluta, ma di un costrizione relativa, nel senso che il potere di autodeterminazione della vittima non deve essere completamente annullato, bensì limitato in maniera considerevole (tamen coactus voluit).

A tal fine non è necessario che il mezzo estorsivo sia, di per sé, illecito: allorquando il fine che persegue l'agente è quello di coartare la volontà altrui, anche l'uso di mezzi astrattamente leciti rende ingiusta la minaccia di danno. In altre parole quel che rileva è il rapporto tra il mezzo coattivo usato è il fine perseguito: l'ingiustizia del fine rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno e il male minacciato, giusto obiettivamente, diventa ingiusto per il fine cui è diretto. Ciò che rileva, in ultima analisi, è il proposito del soggetto agente.

La Corte, in applicazione del principio predetto, afferma «l'irrilevanza del formale ricorso al contratto, allorché questo risulta strumentalizzato al perseguimento di un ingiusto profitto». Il quadro globale di timore nel quale si trovavano i dipendenti, in un contesto caratterizzato dalla scarsa offerta di lavoro, e l'esistenza di comportamenti prevaricatori da parte dei datori di lavoro, porta infatti i giudici a ritenere che l'adesione al negozio non fu libera, bensì condizionata. Nel caso di specie - prosegue la Corte - lo stato di soggezione dei dipendenti era ravvisabile appunto nell'alternativa tra accedere all'ingiusta richiesta del datore di lavoro o di subire un grave pregiudizio, quale la perdita dell'occupazione in assenza di altre possibilità occupazionali. Gli imputati infatti, al di là del ricorso ad esplicite minacce, si avvalevano costantemente della situazione del mercato del lavoro ad essi particolarmente favorevole, minacciando, seppur larvatamente, le lavoratrici di avvalersi di siffatta situazione.

In considerazione di un tanto il rigetto dei ricorsi e la conferma della condanna irrogata dal giudice d'appello (anni 3 e mesi sei di reclusione ed euro 800,00 di multa).

3. Osservazioni

La pronuncia in commento, nei giorni successivi alla pubblicazione delle motivazioni, ha attirato su di sé l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica in maniera rilevante e sembra destinata a suscitare anche un certo dibattito in sede dottrinale.

Il perché del clamore attorno questa pronuncia, sembra essere evidente: si tratta di situazioni, lo si accennava in apertura, piuttosto frequenti per non dire comuni nel mondo del lavoro; i fatti addebitati agli imputati sono stati percepiti dall'opinione pubblica come qualcosa di normale,quasi all'ordine del giorno (sic!) donde lo stupore per l'affermata rilevanza penale degli stessi.

Dal punto di vista strettamente tecnico si osserva che:

l'affermata plurioffensività del delitto di estorsione è unanimemente riconosciuta dalla dottrina (ex plurimis cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, ed. 14ª a cura di L. Conti, Milano, 2002, p. 406 s.; D. Baccaredda Boy, sub art. 629, inCodice penale commentato, a cura di E. Dolcini-G. Marinucci, ed. 2ª, Milano, 2006, p. 4499 s.; L. Conti, voce Estorsione, in Enc. dir., vol. XV, Milano, 1966, p. 996; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo 2, ed. 4ª, Bologna, 2005, p. 149; F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, Padova, 2006, p. 176) e dalla giurisprudenza;

parimenti pacifico che la costrizione cagionata dalla violenza o dalla minaccia debba essere relativa, nel senso essa deve lasciare al soggetto passivo un certo margine di scelta Diversamente, in presenza di un costringimento assoluto, si dovrebbe parlare di rapina o di riduzione in schiavitù (in dottrina v. F. Antolisei, op. cit., p. 407; in giurisprudenza v. Cass., Sez. II, 17 ottobre 1995, n. 4308, Fierro, in Cass. pen., 1997, p. 406; Cass., Sez. VI, 19 settembre 1990, Matarazzo, in Giust. pen., 1991, II, c. 354. Contra Cass., Sez. VI, 7 novembre 2000, n. 13043, Sala, in Studium Juris, 2001, p. 724, secondo la quale ai fini della configurabilità del delitto di estorsione, è assolutamente fondamentale ed imprescindibile che il soggetto, in relazione all'intimidazione subita, non abbia spazi di apprezzabile scelta; ciò non si verifica quando dal rifiuto di una proposta astrattamente lecita, anche se genericamente vessatoria, non derivi alcun danno giuridicamente apprezzabile, ma solo il mancato conseguimento dei vantaggi insiti nell'accettazione delle condizioni imposte dalla controparte);

quanto all'elemento della minaccia si riscontra consenso attorno all'opinione che non richiede che codesta sia ingiusta in sé, rilevando piuttosto la finalizzazione della minaccia ad un profitto ingiusto con altrui danno. Come scrive illustre dottrina «se il male prospettato per costringere la persona non è di per sé antigiuridico [.] occorre stabilire se di questi mezzi si faccia, o no, un uso conforme agli scopi per cui i mezzi sono consentiti dalla legge» (F. Antolisei, op. cit., p. 408). Secondo la giurisprudenza infatti la minaccia, ancorché non penalmente apprezzabile quando è legittima e tende a realizzare un diritto riconosciuto e tutelato dall'ordinamento giuridico, diviene contra ius quando, pur non essendo antigiuridico il male prospettato, si faccia uso di mezzi giuridici per scopi diversi da quelli per i quali sono stati apprestati dalla legge. Conseguentemente la minaccia di un male legalmente giustificato assume il carattere di ingiustizia quando sia fatta non già per esercitare un diritto sibbene con il proposito di coartare la volontà di altri per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia (Cass., Sez. II, 24 settembre 1991, Pergola, in Riv. pen., 1992, p. 738). In particolare, la minaccia «si veste e si traveste in infinite forme, quante sono le escogitazioni dell'ingegno volto a far male » (G. Fiandaca-E. Musco, op. cit., p. 151);

quanto alle modalità della minaccia secondo la giurisprudenza codesta può essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata, purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo. La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l'elemento strutturale del delitto di estorsione devono essere valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali l'ingiustizia della pretesa, la personalità sopraffattrice dell'agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, le particolari condizioni soggettive della vittima, a nulla rilevando che si verifichi una effettiva intimidazione del soggetto passivo (ad esempio Cass., Sez. I, 13 febbraio 1995, n. 4142, Minacci, in Cass. pen., 1996, 498; Cass., Sez. II, 15 maggio 1991 Rizzi e altro, in Riv. pen., 1992, p. 369)

Proprio in un caso simile a quello in esame la Cassazione ha ribadito tale principio ritenendo configurabile il reato di estorsione nei confronti del titolare di un'azienda che versava ai dipendenti una retribuzione inferiore a quella dovuta (Cass., Sez. II, 13 novembre 2001, n. 5426, Zaccuri, in Cass. pen., 2002, p. 3460).

In ogni caso, come scriveva autorevole dottrina, in nessun reato come in questo l'interprete deve penetrare con acuto senso di esperienza il rivestimento esteriore delle forme per rendersi conto del proposito vero dell'agente e dell'idoneità del mezzo che egli adopera (A. De Marsico, Delitti contro il patrimonio, Napoli, 1951, p. 116).

Condivisibile -in conclusione- l'affermazione secondo la quale l'esistenza di un contratto non esclude l'esistenza della minaccia e dell'ingiusto profitto: infatti il contratto, mezzo lecito in astratto, quando venga utilizzato, come nel caso concreto, per un a finalità illecita quale quella di provare i lavoratori delle tutele minime garantite dalla legge e dai contratti collettivi, diviene uno strumento estrsivo. Il male minacciato, il licenziamento, non è infatti un atto illecito in sé, essendo entro certi limiti una facoltà che trova fondamento nel contratto e nella legge, ma diviene illecito, e quindi ingiusto, allorquando viene utilizzato in modo distorto al solo fine per coartare la volontà del soggetto. Persino la minaccia di esercitare un diritto - come, ad esempio, l'esercizio di un'azione giudiziaria o esecutiva - può costituire illegittima intimidazione idonea ad integrare l'elemento materiale del reato quando tale minaccia sia finalizzata al conseguimento di un profitto ulteriore, non giuridicamente tutelato (Cass., Sez. II, 16 gennaio 2003, n. 16618, Staniscia, in Cass. pen., 2004, p. 870) .

In una fattispecie simile a quella in esame la Cassazione ha affermato che la circostanza che vi sia stato un accordo contrattuale fra datore di lavoro e lavoratore (avente ad oggetto la pattuizione di una retribuzione non parametrata alle effettive ore lavorate) non esclude, di per sé, la sussistenza degli estremi del reato di estorsione, in quanto uno strumento giuridico, teoricamente legittimo (quale un accordo contrattuale) può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è stato apprestato e può integrare, al di là dell'apparenza esteriore, una minaccia ingiusta, se ingiusto è il fine a cui esso tende (Cass., Sez. I, 11 febbraio 2002, n. 5426, in Lav. giur., 2002, p. 652, con nota di A. Piovesana).

Infine non vi sono dubbi che i benefici ottenuti dal datore di lavoro, consistenti nelle minor retribuzioni corrisposte e nell'elusione delle normative a tutela del lavoro, costituiscano profitto ingiusto. In un caso simile una corte di merito ha affermato la sussistenza del reato di estorsione nella condotta di costrizione del datore di lavoro che, mediante minaccia, aveva ottenuto dai dipendenti la firma di ricevute di pagamento di retribuzioni di importo superiore a quello effettivo (Tribunale S.Angelo Lombardi, 24 aprile 2002, Casale, in Giur. merito, 2002, p. 1356).

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Autore: Dott. Matteo Bellina - tratto da: "Il Quotidiano Giuridico" - 31/10/2007