La sorte del rapporto di lavoro nelle procedure concorsuali

1)Rapporti di lavoro e procedure concorsuali: una problematica in evoluzione

Una prospettiva di tipo storico-evolutivo è, a nostro avviso, quella che consente di affrontare nel modo più comprensibile ed utile la tematica della sorte dei rapporti di lavoro nelle procedure concorsuali, ancorché l 'arco di tempo interessato da quell'evoluzione resti racchiuso in pochi decenni. Non si può disconoscere, invero, che il quadro normativo risultante dai combinati -ma anche criptici- disposti del V libro del codice civile e della legge fallimentare abbia cominciato a muoversi, dopo una stasi iniziale durata oltre un ventennio, solo a metà degli anni '60, quando si verificò una profonda, repentina trasformazione dei contenuti e delle prospettive della normativa lavoristica, che si è poi riflessa in vari modi, con arricchimenti, ma anche con variazioni di rotta, sulla materia delle procedure concorsuali. È opportuno anticipare fin d 'ora qualche considerazione o rilievo generale e di principio su tale processo evolutivo, e segnalare, cioè che possono individuarsi almeno due diversi mutamenti e "aperture d 'orizzonte "del diritto del lavoro che hanno inciso profondamente sulla nostra problematica. Vi è stato, anzitutto, con l'emanazione della L. n. 604/1996, il riconoscimento aperto dell'interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro, quale oggetto di protezione da parte dell'ordinamento e vi è stato, poi, trascorso un decennio, con il sopravvenire della L. n.675/1977, il riconoscimento e la protezione dell'interesse al mantenimento, della condizione di occupato, e comunque del possesso di valide "chances" nel mercato del lavoro. Non si tratta, a dispetto della prima impressione, della stessa cosa e del medesimo interesse, poiché cambiano non solo l'ambito, rispettivamente aziendale e superaziendale in cui può essere soddisfatto il bisogno di tutela, ma cambiano altresì i contenuti. Per "mantenimento del posto di lavoro "intendiamo, infatti, la salvaguardia della condizione di dipendente di quella specifica impresa, con limitazione compressione del diritto del datore di lavoro di sciogliersi liberamente del rapporto, mentre il mantenimento "dell'occupazione" si realizza anche e soprattutto in ambito interaziendale, nel mercato del lavoro, con il passaggio regolato, incentivato e garantito da un 'impresa all 'altra, o anche soltanto con la predisposizione di strumenti che migliorino la possibilità di tale passaggio. Non è inutile notare e sottolineare che questa seconda prospettiva era ancora estranea alla stessa legislazione statutaria, perché lo Statuto dei lavoratori, se da una parte introduceva un sostanziale potenziamento della tutela del posto di lavoro, sancendo la c.d. "stabilità reale" (art.18), dall'altro non spingeva, per così dire, il suo sguardo al di là del muro di cinta dell'azienda. Non conteneva, invero previsione alcuna in materia di licenziamenti collettivi, di integrazioni salariali finalizzate ad una "mobilità" interaziendale, di strumenti normativi specifici mirati al ricollocamento (sul tipo, per intendersi, degli odierni contratti di "reinserimento ") ecc. Fu la grande crisi economico - produttiva e di riorganizzazione degli anni '70, che sancì il declino rapidissimo del vecchio apparato industriale, ad aprire di necessità nuove prospettive visto che, comunque, la lotta per il mantenimento, fabbrica per fabbrica, dell'occupazione si dimostrava, in tali condizioni, perdente, così da forzare sia le organizzazioni sindacali sia il legislatore ad immaginare una modificazione ed insieme un ampliamento della normativa di tutela. A mettere a punto, cioè, l'idea che la protezione ordinamentale dovuta al lavoratore dovesse andare al di là del rapporto di lavoro in essere, ed estendersi temporalmente oltre la sua fine, o oltre la fine, comunque, della sua reale esecuzione come rapporto di scambio: con la precisazione (ed era questo, forse, il suo limite) che la nuova "dote "di tutele assegnate ai lavoratori si giustificava pur sempre in ragione della loro originaria condizione, di "occupati", che dunque doveva permanere, almeno formalmente, il più a lungo possibile. L 'intuizione concretatasi, dapprima, nei disparati provvedimenti che furono indicati, collettivamente, come "legislazione dell'emergenza" divenne, con la L. n. 675/1977 un sistema organico, tanto organico da configurare sulla carta, una sorta di circuito forzoso della mano d 'opera, che, in teoria, avrebbe impedito a chi una volta avesse occupato un posto stabile in un 'impresa industriale, di uscire comunque dal mondo dei "garantiti", potendo essere "trasferito" ad altra impresa, tramite il sistema legale di mobilità, ma non licenziato. Molti contenuti di tutela, e in parte anche la sua stessa impostazione, si sono in seguito modificati e si dirà poi in quale direzione. Non è, però, il caso di procedere oltre in questa breve anticipazione, che è servita soprattutto ad evidenziare la radicale odierna differenza di quadro di riferimento, anzitutto politico-giuridico rispetto alla situazione iniziale, cui dobbiamo ora ritornare, e che era caratterizzata da una ben diversa, ed assai più chiusa e ristretta concezione dei contenuti di tutela del diritto del lavoro. Invero, prima della L. n. 604/1966 il rapporto di lavoro, racchiuso com'era tra l'alfa e l'omega di due atti negoziali ugualmente liberi, come assunzione e licenziamento, era disciplinato dalla legge essenzialmente dal punto di vista delle condizioni normative ed economiche dello scambio tra prestazione e retribuzione, e per il tempo di operatività dello scambio stesso, la cui durata dipendeva dalla volontà sovrana ed insindacabile di anche una sola delle due parti. Non può meravigliare, allora, che l 'intersezione tra diritto del lavoro e diritto fallimentare fosse assai ridotto, e per così dire, solo tangenziale, visto che la situazione socio-economico cui il diritto fallimentare rivolgeva la sua attenzione e i suoi disposti, e cioè la crisi economico-produttiva dell'impresa era anche quella in cui il suddetto scambio cessava, nella massima parte dei casi, di funzionare regolarmente, e visto che il diritto del lavoro non si proponeva ancora di tutelare l'interesse del lavoratore a mantenere, nonostante quella crisi, il posto di lavoro o la qualità di occupato. Tuttavia, anche nella ristrettezza dei contenuti concreti, ridotti in sostanza alla sorte e disciplina dei crediti di lavoro, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul punto di intersezione tra i due diritti è stato di grande importanza, perché per la soluzione di quelle limitate problematiche di ordine concreto, è risultato necessario indagare tutto un retroterra normativo e dogmatico, con acquisizione teoriche, a quel momento di rilievo quasi solo accademico, ma rivelatesi, poi assai importanti negli sviluppi successivi della legislazione. Occorre, allora, riconsiderare e ricostruire lo "stato dell'arte" al momento in cui, con l 'entrata in vigore della L. 604/1966,"qualcosa "cominciò a muoversi nel diritto del lavoro, con ripercussioni immediate nel diritto fallimentare.

 

2)La continuità del rapporto di lavoro e la normativa codicistica.

Fino a quel punto, la sorte del rapporto di lavoro a seguito della dichiarazione di fallimento dell'imprenditore era stata considerata assolutamente scontata: quell'evento e la cessazione dei rapporti erano destinate, in concreto, a coincidere, ma opinioni diverse esistevano sul "come" e sulla causa giuridica della cessazione. Qualche voce, isolata e profetica, per il vero non era mancata, a ricordare che, teoricamente, con l 'esercizio provvisorio dell'impresa e poi (sempre che lo si ritenesse possibile) con l 'affitto fallimentare e con la cessione in blocco dell'azienda, questa sarebbe potuta sopravvivere attraverso la procedura concorsuale, e con essa i rapporti di lavoro. Ma si trattava di ipotesi sostanzialmente accademiche, perché la convinzione della naturale libera risolubilità del rapporto di lavoro, come rapporto a base fiduciaria, era così radicata da fare preferire, anche nella eventualità che l 'esercizio provvisorio venisse autorizzato, la soluzione o prassi della estinzione, intanto, di tutti i rapporti, e della riassunzione "ex novo" dei lavoratori che risultassero necessari alla curatela. Il problema semmai era, come detto, quello della causa giuridica della cessazione, ed in proposito confliggevano tre opinioni dottrinali e giurisprudenziali: quella della estinzione "ipso iure", quella della applicazione del meccanismo di "resiliazione" dell'art.72 legge fall., che vede il contratto entrare in fase di "arresto" fino alla decisione del curatore di subentrarvi o invece di non subentrarvi e provocarne così l 'estinzione, e, infine, quella della continuazione automatica con curatela, fermo, però, il potere di quest'ultima di recedere "ad nutum" un minuto o un giorno dopo l 'avvenuto subentro. La "pietra di paragone "della disputa era costituita, nella sostanza, da un 'unica norma, quella dell'art. 2119 secondo comma c.c. a mente della quale "non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto (n.d.r.: di lavoro) il fallimento dell'imprenditore". Quanto alla "posta "in gioco, si trattava, in concreto, di stabilire se al lavoratore spettasse il preavviso o l 'indennità di esso sostitutiva, e soprattutto se quest'ultima andasse annoverata tra i debiti concorsuali od, invece, tra i debiti di massa, e se il medesimo collocamento dovesse essere riconosciuto alle indennità di anzianità dovute ex art. 2120 c.c., trattandosi di spettanza che si riteneva sorgesse o maturasse istantaneamente al momento dell'estinzione del rapporto. L 'incompatibilità tra la previsione dell'art. 2119 comma 2°  c.c. e la tesi della cessazione automatica apparve ben presto evidente,ancorché i fautori di quest'ultima cercassero (scorrettamente) di interpretare lo stesso art. 2119 comma 2° come riconoscimento al lavoratore non del preavviso -ossia della non avvenuta cessazione,ancora,del rapporto- ma della semplice indennità economica di mancato preavviso. È agevole notare che quest 'ultima indennità presuppone pur sempre una potenziale durata del rapporto per il periodo di preavviso e dunque l 'insussistenza di un 'impossibilità sopravvenuta della esecuzione, dalla quale soltanto potrebbe derivare, se totale e definitiva, l 'estinzione immediata,"ipso iure", del rapporto. Impossibilità che, d'altro canto, non vi è motivo di configurare giacché essa si dà, nel diritto del lavoro, soltanto quanto la prestazione lavorativa sia divenuta materialmente ineseguibile (es.: sopravvenuta inabilità fisica del lavoratore) oppure sia divenuto inutilizzabile il substrato aziendale (es.: duratura messa fuori uso degli impianti), e non quando le ragioni del mancato ricevimento della prestazione siano da ricondurre all'andamento economico, pur pessimo, dell'impresa. Molto più complicata era la scelta tra le due altre alternative, e a dire il vero non può dirsi del tutto definita neanche ai giorni nostri,stante il contenuto implicito di alcune pronunzie giurisprudenziali. In proposito, va preliminarmente ribadito il meccanismo disciplinato dall'art. 72 l.fall. non può esser ricondotto ad un recesso,e tanto meno oggi che il licenziamento ha assunto tratti formali e procedurali tipici: con quel meccanismo, invero,il curatore si limita a non subentrare nel rapporto,restando in posizione di terzo,salvo poi decidere di subentrarvi, dandogli, allora, ulteriore esecuzione od, invece, di render definitivo l'arresto provocandone lo scioglimento, mentre il licenziamento presuppone l 'avvenuto subentro costituendo esercizio dei poteri di una parte contrattuale. All 'epoca a cui ci siamo riportati, e cioè alla vigilia dell 'entrata in vigore della L. n.604/1966, la differenza era in concreto poco visibile,e limitate le sue conseguenze visto che il licenziamento era, per parte sua, comunque libero e privo di forma solenne,e,tuttavia,la pietra di paragone dell 'art.2119 secondo comma c.c. ben consentiva, con un pò di approfondimento analitico, di apprezzarla in modo adeguato. Si trattava -e si tratta- di considerare la norma per il suo reale, ed anche letterale, significato o contenuto precettivo, senza arbitrarie riduzioni: essa, invero, non parla di indennità di mancato preavviso,bensì di inconfigurabilità,in caso di fallimento, di una giusta causa di risoluzione del contratto, e la "risoluzione" del rapporto di lavoro è, come si sa, un "genus" che non comprende solo il licenziamento,ossia il negozio solutorio del datore, ma anche l'altra "species " costituita dalle dimissioni del lavoratore. La portata del disposto legale risulta, allora, ben più complessa ed ampia: anche il lavoratore non può dimettersi legittimamente da un momento all 'altro solo perché l'imprenditore è stato dichiarato fallito, ove non sussistono altre circostanze costituenti giusta causa (es.:arretrati salariali), ma deve restare a disposizione della curatela almeno per il periodo di preavviso. Ciò è sufficiente ad escludere che la soluzione teoricamente esatta possa essere quella della applicazione dell'art. 72 legge fall., perché se il contratto continua a produrre effetti obbligatori per una parte (qui il lavoratore)significa che non si è "arrestato" e che continua, dunque, a produrli anche per l 'altra, ovvero,in una parola,che è ancora pienamente operativo ed efficace. D'altro canto, la natura "reale" del periodo di preavviso, ossia la continuità del rapporto per la sua durata è uno dei capisaldi,dalle moltissime applicazioni, del diritto del lavoro. Può ancora aggiungersi che, ove si ritenesse applicabile l 'art.72 legge fall., il contraente "lavoratore " riceverebbe, alla fine, un trattamento deteriore rispetto al contraente "venditore" direttamente considerato dallo stesso art.72: il venditore che non ha ancora eseguito la prestazione non è, infatti, tenuto ad eseguirla in cambio di moneta fallimentare. Può farlo se lo vuole, ma altrimenti può astenersene ed attendere la determinazione del curatore: se questi si scioglie dal contratto al venditore resta il bene e dunque non ha perso nulla, e se invece vi subentra il venditore viene pagato in prededuzione, con denaro di massa. Il contraente "lavoratore", invece, dovrebbe, ai sensi dell'art. 2119 secondo comma, comunque restare a disposizione e quindi, in sostanza, prestare o consumare le sue "opere ", ma se il curatore decidesse di non subentrare nel contratto, riceverebbe l 'indennità di mancato preavviso, e cioè la retribuzione di quel periodo, in moneta fallimentare. Sul piano logico-interpretativo, dunque, la tesi della continuazione automatica appariva preferibile, e comportava un vantaggio,per l 'epoca,non piccolo: il privilegio riconosciuto ai crediti di lavoro era infatti di grado infimo (solo una legge del 1975 lo avrebbe portato al primo grado) e la vera tutela, costituita dal Fondo di garanzia della L. 297/1982 era molto al di là da venire, talché la collocazione in prededuzione dell 'indennità di preavviso,ed anche (economicamente "soprattutto ") delle indennità di anzianità rappresentava un sostanziale progresso che mai, tuttavia, la giurisprudenza ha smesso di osteggiare. Quella tesi della continuazione automatica ha poi acquistato ulteriore credibilità ed organicità con l 'entrata in vigore della L. 15/07/1966 n. 604, che riduceva ad eccezione la libertà di licenziamento ed introduceva la necessità di un giustificato motivo soggettivo od oggettivo. Invero, nel nuovo quadro sistematico nascente dei combinati disposti dalla nuova legge e dall'art. 2119 secondo comma c.c., il fallimento, che non costituiva giusta causa di licenziamento e lasciava in esistenza il rapporto di lavoro con automatico subentro della curatela, poteva, però, dispiegare negative conseguenze sulla efficienza dell'organizzazione aziendale, tali da configurare, in concreto, un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ma se in tal modo si dava,da un lato,una sistemazione giuridica alla intersezione originaria tra diritto del lavoro e diritto fallimentare, dall'altro si aprivano nuovi orizzonti,perché una volta ammessa la necessità,per un legittimo licenziamento dei dipendenti dell 'impresa fallita,di un giustificato motivo oggettivo,la considerazione successiva poteva essere soltanto che esso sarebbe ricorso molto spesso,o quasi sempre,ma non immancabilmente e in modo ineluttabile. Tutto dipendeva, infine, dal fatto che si determinasse o meno la dispersione dei beni e dell'organizzazione aziendale, e dunque,se si fossero irrobustite,con idonei interventi nominativi, le teoriche possibilità di sopravvivenza dell 'azienda attraverso la procedura concorsuale (esercizio provvisorio, affitto o cessione dell'intero complesso) e, per altro verso, si fosse riusciti a garantire ai lavoratori mezzi di resistenza economica durante lo svolgimento della vicenda, si sarebbero potuto formulare piani non più velleitari, ma sufficientemente realistici di salvaguardia di posti di lavoro e dell 'attività produttiva. Occorreva, insomma, mettere a punto strumenti sufficienti per un "pilotaggio "delle procedure concorsuali in direzione non dello smembramento dell'azienda e del realizzo parcellizzato dell'attivo, ma del subentro di nuovi soggetti imprenditoriali. Con questo subentro si sarebbe potuto realizzare la salvaguardia dei posti di lavoro, visto che all'affitto ed alla vendita fallimentare dell'azienda si sarebbe poi potuto cercare di applicare, anche prima della novella del 1990 (art. 47 L. 428/1990) il disposto dell'art.2112 c.c. ed il suo precetto di continuità,con il subentrante, dei rapporti di lavoro. Risultava già chiaro, peraltro, che il divario tra la continuità giuridica del rapporto di lavoro nonostante la dichiarazione di fallimento e l'effettiva continuità dell'occupazione nell'impresa, o anche fuori di essa, era assai ampio e sarebbero occorsi molti e diversificati interventi normativi per cercare di colmarlo. Interventi che avrebbero anche dovuto eliminare alcune "rigidità" discendenti da quelle acquisizioni teoriche come nel caso dell'art.2112 c.c. appena ricordato: il "rilancio" di un'impresa già in stato di decozione non può che essere graduale e comportare, almeno nel breve-medio periodo, ristrutturazioni e riorganizzazioni profonde, con conseguente esubero di parte del vecchio personale che, invece, il vecchio testo dell'art. 2112 c.c. avrebbe fatto passare, in massa ed automaticamente, alle dipendenze del nuovo imprenditore. Occorreva, poi, evitare che il mantenimento dei rapporti di lavoro si traducesse subito in un insostenibile carico delle finanze fallimentari,con l 'accensione di debiti retributivi da soddisfare con denaro della massa in prededuzione e,insomma configurare una più ampia intersezione,tra fallimento e diritto del lavoro,inserendo espressamente la vicenda concorsuale nella disciplina generale,che prendeva forma giusto agli inizi degli anni '70, dei mezzi di governo delle crisi occupazionali e produttive. Sempre -si intende- sulla base di quel presupposto: che con la dichiarazione di fallimento null'altro avvenga nel contratto di lavoro se non la sostituzione dell'Ufficio nei poteri e doveri della parte datoriale.

 

3) Le procedure concorsuali e gli "altri "rapporti di lavoro

Prima di addentrarsi nell 'esame della evoluzione normativa degli anni '70 -esame indispensabile per comprendere l 'attuale quadro legale ed i suoi problemi- è necessaria una breve riflessione che investe la concreta ampiezza della nostra tematica. Il fatto è che nei lunghi e fitti dibattiti dottrinali e giurisprudenziali e negli interventi legislativi in tema di procedure concorsuali e rapporti di lavoro, si è sempre presupposto ed inteso che questi fossero rapporti di lavoro subordinato e a tempo indeterminato. E non vi è dubbio che,fino a qualche anno fa una simile considerazione non divergesse di molto dalla effettiva consistenza del problema socio-economico. Ma oggi? Oggi dilagano i rapporti di lavoro a termine e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa,che sono, statisticamente, gli strumenti attraverso i quali le imprese reclutano gli 8/10 delle nuove forze lavorative. Né si tratta più di situazioni temporanee che preludono all'assunzione stabile del lavoratore con rapporto a tempo indeterminato, perché è ormai confermata la rilevazione di un fenomeno nuovo ed inquietante: sempre più sono i lavoratori che hanno ormai alle spalle soltanto rapporti a termine o soltanto rapporti parasubordinati,per i quali si prefigura una intera vita lavorativa di "precariato ". Poco importa che una parte rilevante di quei rapporti sia in realtà illegittima trattandosi, con riguardo ai rapporti di collaborazione, di semplici simulazioni o camuffamenti di rapporti di lavoro subordinato o, con riguardo ai rapporti a termine, di contratti stipulati in violazione delle causali consentite dalla legge dalla contrattazione collettiva. Ciò non toglie,infatti,che al momento della dichiarazione di fallimento occorre farsi carico della sorte anche di questi rapporti, sempre più presenti e numerosi, ed anzi la sussistenza di frequenti casi di illegittimità non può non costituire, per gli Uffici fallimentari,un grosso problema aggiuntivo.Proprio in questo momento, sarà fatta, probabilmente, valere dagli interessati l 'illegittimità della loro situazione e la pretesa di trasformazione di quei rapporti in normali rapporti a tempo indeterminato,onde rivendicare un soltanto spettanze passato, ma anche benefici futuri, quelli che,come vedremo,le leggi assicurano,anche nelle procedure concorsuali,al rapporto di lavoro "classico ". Già le situazioni "fisiologiche "non sono comunque di facile soluzione poiché se si considerano, ad esempio, i rapporti a termine, è veramente difficile condividere l 'opinione,comune anche in giurisprudenza (v.Cass. n. 799/1980) per cui il curatore potrebbe comunque recedere dal contratto di lavoro a termine, non diversamente che da un contratto di lavoro a tempo indeterminato, invocando il giustificato motivo oggettivo. Si tratta,invero,di un 'opinione semplicistica,che non tiene conto del fatto che l'apposizione di un termine ad un contratto di lavoro,come ad altri contratti di durata per la distribuzione o erogazione di servizio di beni,non ha solo lo scopo e l 'effetto di porre un limite fisso temporale all 'efficacia del contratto, così da determinare l 'estinzione automatica del rapporto, ma anzitutto quello di far assumere alle parti il rischio della sopravvenuta antieconomicità del contratto; quel rischio -cioè- per il quale l 'ordinamento conferisce, normalmente, alle parti di un contratto di durata il diritto di recesso (ordinario). Solo l 'esistenza di una giusta causa legittima pertanto il recesso "ante tempus" (Cass. n. 2590/1983), ma l 'art.2119 secondo comma esclude, per parte sua, che il fallimento integri una giusta causa. L 'invocabilità di un giustificato motivo oggettivo è, peraltro, esclusa dalla stessa opposizione al termine e, dunque, a rigor di logica, al lavoratore resta dovuto tutto l' "id quod interest", l 'intero importo -cioè- dei compensi previsti fino alla scadenza del termine. Quanto ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa si tratta di valutare lo stato di avanzamento del processo di osmosi con la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, processo, per il vero, osteggiato dalla giurisprudenza ma che è ormai nella realtà sociale oltre che, a nostro avviso, nell 'art.35 Cost.. Se si ritiene, infatti, che sussiste tra i rapporti di collaborazione ed i rapporti di lavoro subordinato ancora una sostanziale estraneità, che rende inapplicabile ai primi la normativa codicistica (non parliamo di quella speciale) del recesso, ed in particolare l 'art.2119 secondo comma, potrebbe affermarsi l 'applicabilità a quei rapporti di collaborazione non della regola di continuità automatica del rapporto con la curatela,ma del meccanismo previsto dall 'art.72 L.F. che, in caso di mancato volontario subentro del curatore comporterebbe l '"arresto" del rapporto e della maturazione di ogni connesso diritto del prestatore al momento della dichiarazione del fallimento,e poi la sua estinzione. Ove si adottasse,invece, la diversa valutazione di comunanza,o quanto meno di estensibilità per analogia, di alcuni principi normativi, si dovrebbe giungere alla conclusione della continuazione del rapporto,con possibilità della curatela di procedere ad un recesso ordinario,"ad nutum "pressoché immediato, purché al contratto di collaborazione non sia stato apposto -come normalmente avviene- un termine. In questo caso,infatti,si determinerebbe la medesima situazione sopra ricordata a proposito del contratto di lavoro subordinato a termine: escluso, dall 'art.2119 secondo comma,il recesso straordinario,ed escluso,dal termine,il recesso ordinario, il prestatore diverrebbe creditore, nei confronti del fallimento,del "tantundem "di tutti i compensi previsti fino alla scadenza. A queste incertezze va aggiunta quella che attiene alla stessa qualificazione concreta del singolo rapporto,perché è innegabile che tra subordinazione e para-subordinazione è assai difficile distinguere e,purtroppo,che il ricorso ai rapporti parasubordinati è stato,da parte dei datori di lavoro italiani, molto spregiudicato. Si pensi che,a fine 1999,i rapporti censiti dall 'INPS sfiorano i 2 milioni e non sarà difficile comprendere che per buona parte di essi potrebbe porsi una questione di simulazione e di riqualificazione del rapporto in rapporto subordinato,e che una sede elettiva per tale contestazione sarà proprio la sede fallimentare. È un grave problema,che viene consegnato al legislatore,perché se ne tenga conto nell'elaborazione, peraltro tormentatissima, della nuova normativa "statutaria "del lavoro parasubordinato:le soluzioni immaginate fino ad ora (ad esempio "la previa certificazione" amministrativa della natura del rapporto) non sembrano, per il vero, appaganti.

 

4)La legislazione degli anni '70 e la vicenda fallimentare: dalla continuità "teorica" del rapporto di lavoro alla salvaguardia dell 'occupazione.

Si può dunque dire,tornando ora all 'evoluzione dei rapporti tra lavoro subordinato e procedure concorsuali,che nei primi anni '70,il punto principale ed iniziale riguardante la sorte del rapporto di lavoro,e cioè la sua continuazione automatica con la curatela,era ormai acquisito,ma che la distanza tra questo punto di partenza ed un concreto approdo di salvaguardia dei posti di lavoro restava enorme. Per quale ragione,infatti,il curatore di un fallimento non avrebbe dovuto procedere immediatamente ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di tutti i dipendenti, dal momento che ogni giorno di ritardo avrebbe significato accumularsi di debiti retributivi da pagare in prededuzione?E quando,per lo più, la stasi produttiva dell 'azienda fallita non avrebbe consentito un utilizzo proficuo,delle prestazioni lavorative? Solo in pochissimi casi poteva realizzarsi la sequenza fortunata che avrebbe dovuto contemplare l 'autorizzazione,dapprima,di un esercizio provvisorio,con coinvolgimento, per di più,di tutti i dipendenti,e poi il subentro, senza soluzione di continuità, di un nuovo soggetto imprenditoriale il quale rilevasse (eventualmente previa affittanza) l 'attività aziendale e tutti i rapporti di lavoro.Questo "libro dei sogni "sembrava destinato a chiudersi, nella normalità dei casi, già dopo la prima pagina,ma le contingenze socio economiche e sindacali hanno prodotto un esito diverso. Il fatto è che la grande crisi, insieme economica e di ristrutturazione, che investì l'industria italiana negli anni '70 generò una specifica e fitta legislazione di sostegno del reddito e (nelle intenzioni) dell'occupazione dei lavoratori dipendenti da imprese in crisi economica e produttiva, nell'ambito della quale ben poteva trovare posto la vicenda fallimentare riducibile, tutto sommato, ad una particolare connotazione della crisi aziendale. L'istituto giuridico protagonista di questa fase storica è stato, senza alcun dubbio,la cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS) così come disciplinata, o ridisciplinata, dalla L. n. 675/1977. Diversamente dalla "sorellina minore", ossia dalla CIG ordinaria, la CIGS veniva qualificata non come semplice misura previdenziale,ma come strumento di politica economica, governato, non per nulla,da un comitato di ministri (C.I.P.I.) per far fronte a situazioni, o "stati "di difficoltà con importanti riflessi economici ed occupazionali: stato di crisi locale o settoriale,situazioni di ristruttrazione o riorganizzazioni aziendali comportanti la esecuzione di piani complessi di riassetto,ed anche stati di crisi economica aziendale non qualificata dall 'adozione dei precisi programmi di ristrutturazione, ma comunque di notevole rilievo sociale. Non è un mistero che dell 'ampia discrezionalità gestionale insita in un simile strumento fu fatto un uso talvolta distorto o, come si è spesso detto, solo assistenziale, soprattutto con riguardo alla causale "crisi aziendale" che non responsabilizzava l'imprenditore alla formulazione ed esecuzione di piani specifici, ma il giudizio negativo,assai diffuso in epoca neoliberista,merita,a nostro avviso, una qualche correzione o almeno alcune precisazioni. Il fatto è che sull 'istituto della CIGS si sono assommate, nel breve volgere di un triennio, due importanti funzioni di tutela sociale:la sperata salvaguardia del posto di lavoro nell'azienda in crisi o in ristrutturazione,ma anche, con l 'entrata in vigore della L. 675/1977, lo sperato ricollocamento del lavoratore in altra impresa del settore,grazie all 'attivazione del circuito di mobilità "amministrata ". L'intento, indubbiamente "alto" e "nobile", era quello di eliminare il ricorso alla misura traumatica costituita dai licenziamenti collettivi e di sostituirla con dei trasferimenti di mano d 'opera dalle imprese in crisi o in ristrutturazione alle imprese in espansione, assicurando, nell'intanto, ai lavoratori la percezione di un reddito sostitutivo a quello di lavoro e non troppo minore, ossia dell'integrazione salariale straordinaria.Non per nulla l 'art.25 della L. n. 675/1977 vietava al datore di lavoro di effettuare licenziamenti per tutto il periodo di durata del decreto CIPI di crisi occupazionale che attivava il circuito di mobilità, creando il vincolo, per le aziende non in crisi di quel settore, di non fare nuove assunzioni se non tra i lavoratori sospesi con godimento di CIGS ed  iscritti nelle liste di mobilità, ancora formalmente dipendente dall 'impresa in crisi. Si deve,dunque,avere ben presente che un lavoratore poteva,in quel sistema fruire di CIGS straordinaria anche per molti anni,e con causale di "crisi aziendale ", non solo in vista di una possibile ripresa produttiva della sua impresa di appartenenza (sempre meno probabile con il passare del tempo) quanto in vista del suo passaggio ad altra impresa del settore,grazie al meccanismo di mobilità. Mobilità che dovrà essere intesa (e questo era il presupposto ideale, se si vuole ideologico, discendente dalla temperia politica "compromesso storico ") sempre "da posto di lavoro a posto di lavoro ". Corollario importante di questo sistema era, pertanto, anche di non caricare di oneri finanziari l 'impresa "cedente "in stato di crisi, la quale doveva,tuttavia, mantenere in forza,quei lavoratori nella (lunga)attesa di un esito positivo: allo scopo furono previsti non solo il pagamento diretto da parte dell 'INPS delle integrazioni salariali (L. 215/1978), ma anche l 'addossamento delle quote di indennità di anzianità (poi di T.F.R.) maturata dopo il collocamento in CGIS al "Fondo per la mobilità ". Per altro verso, onde facilitare la possibilità di cessione dell 'intera azienda di rami di essa a nuovi soggetti imprenditoriali fu prevista (art.1 D.L.30 marzo 1978,convertito in L. 215/1978) la possibilità di "azzerare ", con accordo sindacale, l 'anzianità dei lavoratori che,per effetto dell'art. 2112 c.c., sarebbero passati alle loro dipendenze. In questo nuovo quadro legislativo la "variabile "costituita dal fallimento dell 'impresa poteva,come detto,inserirsi senza difficoltà,e le questioni costituenti, per l 'innanzi, ostacoli concretamente insuperabili al mantenimento in forza di dipendenti, potevano trovare una risposta convicente. Invero, le "ragioni "che avrebbero dovuto indurre il curatore a procedere ad immediati licenziamenti per giustificato motivo oggettivo svanivano: egli "ereditava ", bensì, una azienda già in stato di crisi e, magari, inattiva con i lavoratori già collocati in CIGS ma, a ben vedere, dal loro mantenimento in forza non sarebbe derivato alla procedura alcun danno, perché le integrazioni salariali sarebbero state direttamente dall 'INPS e le quote di indennità di anzianità direttamente dal "Fondo per la mobilità ". Anzi sarebbe divenuto iniquo privare questi lavoratori della prospettiva di essere ricollocati mediante il meccanismo di mobilità,il quale postulava la permanenza in vita, almeno formalmente dei rapporti, soltanto perché l 'imprenditore loro datore di lavoro era stato dichiarato fallito. Senza tacere, poi, che una volta eliminati i problemi economico- finanziari collegati all'attesa, la dichiarazione di fallimento poteva creare addirittura il presupposto di una più agevole cedibilità del complesso aziendale o di suoi rami,che l 'eventuale cessionario avrebbe ricevuto "purificato ", proprio grazie al fallimento,da debiti e passività. Conseguenza logica di queste valutazioni è stata la L. n. 301/1979 la quale, aggiungendo un settimo comma all 'art.25 L. 675/1977, ha realizzato l '"innesto" della vicenda concorsuale nella normativa di regolazione e tutela del mercato del lavoro, ovvero segnato una nuova e più ampia intersezione tra diritto del lavoro e diritto fallimentare. La nuova previsione legislativa sanciva, inelegantemente, la "inefficacia "di eventuali licenziamenti (già) intervenuti a seguito di fallimento,e la continuazione dei rapporti di lavoro "ai soli fini dell 'intervento di CIG per crisi aziendale dichiarata": l 'espressione,alquanto contorta, tradiva lo scopo immediato dell 'intervento normativo,che era quello di "sanare "una situazione già verificatasi (il "caso Venchi-Unca") ma il portato precettivo e l 'apporto sistematico erano, al contrario di quanto si è spesso letto,del tutto chiari. Con quell'intervento normativo il legislatore garantiva che permanesse, nonostante il fallimento, il presupposto tecnico per la fruizione del sistema di mobilità da parte dei lavoratori,e cioè la permanenza, in capo a loro, della titolarità di un rapporto di lavoro,e nel far questo implicitamente confermava che quel rapporto era comunque continuato nonostante la dichiarazione di fallimento. Al curatore del fallimento veniva inibito di dar corso concreto a provvedimenti di licenziamento,anzi,a nostro avviso addirittura adottarli,perché la previsione testuale di "inefficacia "e di continuazione dei rapporti "ai soli effetti dell'intervento del CIGS "va intesa con riguardo a licenziamenti già intervenuti prima della stessa L. 27 luglio 1979 n. 301,ed esattamente nello spazio temporale compreso tra la sua entrata in vigore e l '1 giugno 1979. Tutto ciò confermava solo una "neutralità" dell 'evento "dichiarazione di fallimento" rispetto al funzionamento ed alle regole del sistema di protezione inaugurato dalla L. 675/1977 giacché, come detto, anche al datore di lavoro ancora "in bonis ", ma già ammesso alla CIGS e destinatario del decreto ministeriale di mobilità, l'art.25 della legge proibiva di licenziare. Vi era,però,la possibilità di leggere in quella previsione qualcosa di più: un "di più" che costituisce la genesi dell 'attuale,e tanto discussa previsione dell 'art.3 L. 223/1991 ed aiuta ad interpretarlo correttamente. Invero, ai sensi dell 'art.2 L. 301/1979, il rapporto continuava "ai (soli)fini dell 'intervento della CIG per crisi aziendale": che dire,allora,dell 'ipotesi che essa fosse stata invece chiesta ed ottenuta dall 'imprenditore, ancora "in bonis ", per ristrutturazione aziendale, secondo un piano o programma di cui la dichiarazione di fallimento aveva bruscamente interrotto la realizzazione? L 'unica risposta possibile era che,a quel punto, la causale della CIGS si trasformava da "ristrutturazione "nell 'altra,ormai sola configurabile,di "crisi aziendale ",ma ciò comportava, a ben guardare, una autonoma rilevanza e considerazione legislativa dell '"evento fallimento ",che poteva essere,come è stato, foriera di importanti sviluppi. Nell 'applicazione concreta,invero,la previsione dell 'art.2 L. 301/1979 non ha dato luogo a soverchi problemi: scaduto l 'ultimo periodo semestrale (per così dire "prefallimentare ")di CIGS per ristrutturazione,i curatori inoltrarono richiesta di ulteriori semestri per "crisi aziendale ",magari dopo essersi premu- rati,per scrupolo burocratico,di inviare ai lavoratori lettere di licenziamento, con contestuale dichiarazione di sospensione della sua efficacia.La "causale " della CIGS,però,era cambiata,così da comportare,ad esempio,l 'esenzione da controlli sulla realizzazione del vecchio programma di ristrutturazione,e dive- niva,dunque,possibile affacciare l 'idea che il fallimento costituisse una auto- nomia causale di intervento della CIGS. Idea -va aggiunto -che avrebbe permesso di porre rimedio a quella lacuna o aporia del sistema di mobilità,che ben poteva essere indicato come il suo "piede di argilla ":al fatto cioè,che esso si basava sulla concessione della CIGS straor- dinaria e la presupponeva,collegandovi il decreto ministeriale di crisi occupa- zionale,il divieto di licenziamento collettivo,il vincolo assuntivo imposto alle altre imprese del settore ecc.,ma non prevedeva "a monte "un obbligo dell 'im- prenditore che pur ne avesse avuto i requisiti,di chiedere la CIGS per i dipen- denti divenuti eccedentari,invece che procedere al loro immediato licenzia- mento collettivo. Il paradosso fu più volte denunziato dalla dottrina,e non mancarono anche giudici di merito,i quali rilevarono l 'assurdità di lasciare al capriccio del dato- re di lavoro la fruizione da parte dei dipendenti di preziosissime tutele e previ- denze di cui,tra l 'altro,le finanze pubbliche e non quelle private del datore di lavoro sopportavano l 'onere. 33.Tuttavia,il principio che si cercava così di affermare,e cioè quello della necessità del preventivo ricorso alla CIGS,se possibile,rispetto ai licenziamen- ti collettivi non riuscì a far breccia come regola generale e cogente,e lo si ritro- va oggi,ma solo come criterio di massima di un confronto intersindacale,nel- l 'art.4 L. n.223/1991,a mente del quale quel confronto deve avere ad oggetto le possibili misure alternative al licenziamento,e le ragioni della loro mancata adozione. Certamente,il caso di imprenditori che rifiutassero di ricorrere in via pre- ventiva alla CIGS,resistendo alle intuibili pressioni politiche e sindacali era raro,e si presentava,però,per lo più,proprio nelle situazioni che qui interessa- no:quelle cioè di un repentino tracollo dell 'impresa,segnato dall 'apertura di una procedura concorsuale a carico di un imprenditore,il quale fino all 'ultimo avesse cercato di nascondere o evitare l 'insolvenza,che,viceversa,la pubblica- zione in Gazzetta Ufficiale della sua richiesta di CIGS avrebbe segnalato a cre- ditori,fornitori,istituti di credito ecc.. La configurazione del fallimento come un 'autonoma causale di ricorso alla CIGS avrebbe,quindi consentito di risolvere il problema,rendendo possibile,ed eventualmente obbligatorio,per il curatore di richiedere lui stesso,per la prima volta,la concessione della CIGS,così da consentire poi ai dipendenti di atten- dere senza troppi patemi o il ricollocamento presso altra impresa grazie alle pro- cedure di mobilità,o il subentro nella gestione dell 'azienda fallita di un nuovo soggetto imprenditoriale,magari costituito da loro stessi,riuniti in cooperativa ("legge Marcora "). Questa linea di politica del diritto fu,anzi,esplicitata in un decreto legislati- vo che non si riuscì a convertire in legge,ma che costituisce l 'antecedente logi- co e giuridico dell 'art.3 L. 223/1991:alludiamo al D.L.11 dicembre 1979 n. 264,il quale,appunto,faceva apertamente obbligo al curatore fallimentare di avviare le procedure di mobilità e di richiedere un trattamento di CIGS,aggiun- tivo rispetto a quelli di cui l 'impresa avesse precedentemente goduto,e da con- cedersi,per un massimo di 12 mesi,a periodo trimestrali,e con procedura sem- plificata dal Ministero del lavoro,senza necessità di intervento del C.I.P.I.. L 'ispirazione di fondo,come si vede,era ormai del tutto diversa,ed in un certo senso,opposta all 'opinione tradizionale,e riassumibile nel concetto che nel corso di una crisi aziendale,la dichiarazione di fallimento,o l 'inizio di altra procedura concorsuale,rappresentasse non una circostanza negativa,ma,al con- trario,una opportunità positiva per la salvaguardia dell 'occupazione,perché a certe condizioni,avrebbe facilitato il subentro nella gestione aziendale di un nuovo imprenditore. Condizioni che possono essere riassunte in tre diverse esigenze:non nerare la procedura di oneri finanziari;incoraggiare i lavoratori a restare uniti e a non 34.disperdersi,così da salvaguardare il capitale umano dell 'impresa;incentivare, favorire e privilegiare le intenzioni e i tentativi di subentro di nuovi soggetti eco- nomici.In questa prospettiva doveva considerarsi superata anche la tradiziona- le distinzione tra procedure concorsuali conservative e liquidatorie,ma per un tentativo compiuto di realizzare quelle condizioni si sarebbe dovuta attendere la nuova disciplina organica,delle crisi aziendali e occupazionali,sostitutiva di quella della L. 675/1977.

 

5) La nuova legislazione su mobilità e crisi aziendali.Il fallimento come "opportunità" di ripresa produttiva ed occupazionale.

Con la L. n.223/1991 il legislatore italiano riformava profondamente il sistema di mobilità interaziendale dei lavoratori che crisi o ristrutturazioni azien- dali avesse reso eccedentari.Abbandonava l 'idea,rivelatosi irrealizzabile,della mobilità solo "da posto di lavoro a posto di lavoro "accettando che il ricolloca- mento scontasse la perdita,anche formale,del vecchio posto di lavoro,ma pun- tava con molta decisione,da un lato sulla partecipazione sindacale ai processi di mobilità,e,dall 'altro su forti incentivi economico-normativi per i datori di lavoro che assumessero i lavoratori posti in lista di mobilità.La precedente fruizione di CIGS non costituiva più un requisito indispensabile per l 'ammissione alle nuove liste di mobilità e per le fruizioni delle indennità di mobilità,pur restando ipotesi per più versi privilegiata,rispetto a quella,parallela,di licenziamenti col- lettivi "immediati ",senza previo ricorso alle integrazioni salariali. Ma in questo modificato quadro legislativo,l 'ipotesi del fallimento o di altre procedure concorsuali,acquistava definitivamente autonomia,e diveniva un "caso a parte " oggetto di attenzione privilegiata,,e della speciale disciplina dell 'art.3. Non esitiamo ad ammettere che questa disciplina ha incontrato nella dottrina e nella giurisprudenza fallimentari ostilità e malcelati rifiuti,e ripetuti tentativi di vera e propria disapplicazione,ma i suoi critici dovranno,del pari riconosce- re che essa è stata opera -non importa se opportuna o inopportuna -dei lavori- sti,e frutto di quell 'evoluzione normativa e concettuale degli anni '70 che abbiamo appena tratteggiato.Il suo contenuto giuridico precettivo non può dun- que essere travisato,per quanto possa risultare ostico certe visuali,per le quali, ad esempio,resta incomprensibile che il curatore possa e debba richiedere C.I.G.e non licenziare i lavoratori proprio quando l 'attività aziendale,con il fal- limento,è cessata,e non si sa se e quando ci saranno prospettive di riattivazio- ne tramite affidamento temporaneo o cessione definitiva a nuovi imprenditori. E debba richiedere,per di più,una C.I.G.del tutto particolare,a concessione automatica,e meramente "assistenziale " perché diretta non già ad accompagna-- 35.re tentativi di ripresa produttiva in corso,ma l 'attesa,da parte dei lavoratori,di una nuova "chance ",che potrebbe non presentarsi affatto. Ma l 'art.3 della L. n.223/1991 è,invece norma in sé perfettamente coe- rente,purché ci si ponga dal punto di vista che l 'ha ispirata,e che ritiene non soltanto che l 'azienda,e con essa l 'occupazione,possa essere salvaguardata nella procedura concorsuale grazie al subentro dei nuovi soggetti imprendito- riali,ma anche che la probabilità o possibilità di tale subentro non possa essere valutata immediatamente,già all 'indomani della dichiarazione di fallimento,e che per essa non sia affatto decisivo che l 'attività non abbia subìto interruzione alcuna grazie alla disposizione di un esercizio provvisorio.È infatti,esperienza comune che la "soluzione economico-imprenditoriale può benissimo non esse- re alla vista fin dall 'inizio,e crearsi o manifestarsi dopo un certo tempo,fin quando l 'avviamento non sia del tutto perduto,e l 'organizzazione aziendale, specie sotto il profilo del capitale umano,sia ancora esistente. Di qui l 'automaticità e l 'autonomia del primo ricorso alla C.I.G.,che è sicu- ramente diversa ed aggiuntiva,come causale,rispetto a quella per ristruttura- zione e per crisi,tanto da non essere soggetto al giudizio del C.I.P.I.(ancora esi- stente al tempo di entrata in vigore nella legge),ma disposta direttamente dal Ministro del lavoro. Lo scopo di gran lunga preminente,e non compreso dai critici della norma, è quello di salvaguardare la compattezza e la permanenza delle maestranze,alle quali occorre mandare un messaggio assolutamente tranquillizzante:non disperdersi,ed attendere le possibili soluzioni positive,essendo assolutamente certa la continuità del reddito tramite integrazioni salariali. Solo successivamente,in sede di rinnovo del trattamento,può e deve porsi il problema della esistenza di concrete possibilità di rilancio,perché se in un anno le prospettive positive non si sono palesate,è probabilissimo che non si palesi- no più e non c 'è,dunque,motivo di non procedere alla "messa in mobilità "dei lavoratori secondo la normale procedura disciplinata dall 'art.4 della stessa L. n.223/1991,il quale,appunto,regola la risoluzione dei rapporti dei lavo- ratori che,alla fine di un periodo di C.I.G.non possano essere riutilizzati in modo produttivo.Naturalmente,ove l 'attività sia,invece,continuata tramite esercizio provvisorio (e non sia stata per questo richiesta la C.I.G."automatica " del primo periodo)ma poi non siano apparse possibilità di rilancio o di suben- tro,la risoluzione dei rapporti determinata dalla chiusura dell 'esercizio seguirà l 'altra via prevista dalla L. n. 223/1991, quella dei licenziamenti collettivi in senso stretto,disciplinata dall 'art.24. Non può, pertanto, essere condiviso quell 'orientamento dottrinale e giuri- sprudenziale che,in evidente contrasto con il testo di legge,pretende di "anticipare" alla fase iniziale quella valutazione delle possibilità di ripresa che la norma colloca, invece, chiaramente nella seconda fase, così da rendere incerta e discrezionale anche la richiesta della "prima" integrazione salariale.Questa opinione non riesce,evidentemente,a metabolizzare l 'idea che il legislatore possa aver voluto fare "investimento a fondo perduto "sui lavoratori dell'impresa fallita e sulla loro possibilità di rimanere occupati in quell'azienda, invece di fini- re nelle liste di mobilità,per essere poi forse ricollocati tramite incentivi. Invece,proprio di questo si tratta,e cioè di un investimento "a fondo perdu- to ",che non è,tuttavia,né irrazionale né immotivato per due ordini di ragioni: perché,parallelamente il legislatore ha creato le condizioni del possibile subentro di nuovi imprenditori attraverso una disciplina "premiale "dell 'affitto fallimentare dell 'azienda,e perché,in ogni caso,ove l 'investimento si riveli proficuo, si risparmia all 'Erario il pagamento (più oneroso)delle indennità di mobi- lità di lunga durata,cui hanno ora diritto i lavoratori licenziati per esubero. È scorretto,ci pare,cercare di criticare questa "ratio " legislativa a partire dai casi-limite:certamente ci saranno dei casi in cui la situazione appare da subito disperata e l 'attesa inutile,ma su di essi fa premio lo scopo di garantire nella generalità delle ipotesi sicurezza,tranquillità e coesione delle maestranze,scopo che solo l 'automaticità della prestazione realizza. D 'altro canto,l 'opinione che abbiano dichiarato di non condividere,non ha saputo portare,a suo sostegno,nell 'altro che una petizione principio ed un argo- mento interpretativo equivoco,ed anzi erroneo.La petizione di principio è che la valutazione delle possibilità di ripresa dovrebbe farsi sempre,fin dall 'inizio, perché tra i principi ispiratori della L. 223/1991 ci sarebbe anche quello di eliminare l 'uso "assistenziale "della C.I.G.:del che può francamente dubitarsi, visto che la L. n.223/1991 ha mantenuto la causale di "crisi aziendale "che non responsabilizza l 'imprenditore a nessuna ripresa produttiva certa tramite programmi di ristrutturazione.Va aggiunto però,che nel caso che ci interessa l 'uso dell 'C.I.G.non è affatto assistenziale,bensì proprio strumentale ad una ripresa produttiva tramite affittanza e/o cessione. Soluzione, questa, che la dispersione delle maestranze renderebbe impraticabile. L'argomento interpretativo erroneo consiste nel valorizzare l 'inciso del terzo comma dell'art. 3 L. n. 223/1991 secondo cui,il curatore una volta valutata e ritenuta,d 'accordo con il giudice delegato,l 'insussistenza di prospettive,col- loca i lavoratori in mobilità ai sensi dell'art.4, "ovvero dell 'art.24 ": se può usare anche dall 'art.24 -si è detto -e cioè della norma che disciplina i licen- ziamenti collettivi non preceduti da ricorso alla C.I.G.,ciò significa che il cura- tore non è obbligato sempre,subito dopo il fallimento,a richiedere la C.I.G.. L 'argomento è fallace perché il riferimento all 'art.24 si spiega,come detto, in tutt 'altro modo,che giustifica tra l 'altro,perché sia collocato nel comma terzo dell 'art.3,ossia in quello che disciplina la seconda fase.Nella prima fase,infat- 37.ti,subito successiva al fallimento possono darsi due evenienze:che non sia stata disposta la continuazione dell 'attività,ed allora si ricorre alla C.I.G."automati- ca ",oppure che sia stata disposta,ed allora non vi è ricorso alla C.I.G..In tal caso,esaurito l 'esercizio provvisorio,in mancanza di altre prospettive,il collo- camento in mobilità,ossia il licenziamento collettivo,non può che avvenire ai sensi dell 'art.24,non essendoci stato previo ricorso alla C.I.G.,per il solo buon motivo,però,che l 'attività aziendale era continuata.Una valutazione "iniziale " delle possibilità di ripresa non c 'entra per nulla e non esiste. Non può sfuggire,d 'altra parte,che quando la valutazione è davvero prevista, e cioè,nella seconda fase di proroga ,il parere favorevole del curatore e del giu- dice delegato non è sufficiente perché occorre (o occorreva)anche quello del C.I.P.I.:come si spiegherebbe,allora,l 'assenza del C.I.P.I.e del suo giudizio dire- zionale nella prima fase,di concessione iniziale del trattamento di integrazione? L 'unica risposta possibile è,appunto,che il primo periodo di erogazione risponde ad un criterio di automaticità,ed il secondo,invece,ad uno di pruden- te discrezionalità. La sorte dei contratti di lavoro nel fallimento è,dunque,quella di continuare con la curatela e di permanere almeno per tutto il periodo di prima concessione dalla C.I.G."automatica di cui all 'art.3 primo comma L. 223/1991,oppure di perdurare per la durata dell 'esercizio provvisorio autorizzato,e ciò come pos- sibile preludio ad ulteriore continuazione con passaggio alle dipendenze di un affittuario o di un cessionario finale dell 'azienda. Questo felice esito,però,è tutt 'altro che scontato,e può mancare,o perché nessun nuovo imprenditore si offre di subentrare,o perché,il nuovo imprendi- tore pur rilevando,in affitto o definitivamente,l 'azienda si dichiara disponibile ad assumere una parte soltanto dei lavoratori.Al quale ultimo proposito va ricordato che la soluzione prevista dall 'art.47 L. 28 dicembre 1990 n.428,e che consente di derogare con accordo sindacale,in presenza di una procedura concorsuale attivata,alla regola generale dell 'art.2112 c.c.(in tema automatico trasferimento al cessionario dell 'azienda di tutti i rapporti di lavoro),difetta, probabilmente,di possibilità di controllo democratico da parte degli interessati, ma non certamente di realismo.La progressività dello sperato rilancio azienda- le,con riassorbimento graduale del personale costituisce,invero,un 'esigenza alla quale difficilmente si può sfuggire,ancorché comporti,scelte dolorose,alle quali il legislatore ha cercato di porre parziale rimedio con la previsione di un diritto di preferenza,per un anno,nelle future assunzioni in favore dei lavorato- ri rimasti,per l 'intento,esclusi.In ogni caso,però,anche quando la prospettiva di subentro non si realizzi,o finisca con il riguardare una parte soltanto di dipen- denti dell 'azienda fallita,resta il fatto che la sorte dei lavoratori coinvolti nella crisi aziendale non è diversa e non è peggiore,ma semmai migliore,di quella 38.che avrebbero avuto se l 'impresa non fosse stata sottoposta ad una procedura concorsuale,ma solo liquidata volontariamente.Dopo aver goduto della C.I.G. "automatica "dell 'art. 3 primo comma L. n. 223/1991, magari in aggiunta a precedenti periodi di integrazione salariale,avranno ancora diritto, infatti, all'intero trattamento di mobilità previsto dalla stessa legge, ed in proposito occorrono alcune precisazioni in ordine a quell'orientamento giurisprudenziale secondo cui il curatore,procedendo al definitivo licenziamento "totale "non sarebbe tenuto a seguire il procedimento di consultazione sindacale disciplinato dall 'art.4 della legge e richiamato dall'art.24. Se con ciò si vuol dire che un procedimento il cui scopo normale è di far tornare,se possibile,sulla sua deci- sione di cessazione di attività un imprenditore "in bonis ", diviene inutile quando di esso diviene protagonista un pubblico ufficiale investito dell'ufficio fallimentare, si può, con molti "distinguo "anche concordare,ma se si vuole affermare che in tal caso si sarebbe fuori dalla disciplina sostanziale dei licenziamenti collettivi e della messa in mobilità,intesa come fonte delle tutele e previdenza di cui agli artt. 7 e seguenti della L. n.223/1991, allora il dissenso non può che essere totale.Una simile eccezione sarebbe immotivata,oltre che del tutto iniqua:il dovere del curatore di procedere ai sensi dell 'art.4 e 24 è previsto direttamente dalla legge (art.3 comma terzo),né si ritiene che esso non valga quando il curatore licenzi "subito dopo" la dichiarazione di fallimento, giacché questa possibilità deve,in realtà,essere esclusa per l'automaticità e necessità di intervento della C.I.G. in quella prima fase. Va ora notato, avvicinandoci all'ultima parte del nostro discorso, che l'approdo descritto dall 'art.3 L. n. 223/1991, ed esteso dalla stessa norma anche alle procedure concorsuali minori, è stato in qualche modo rivisitato e messo in discussione della recente normativa che ha disciplinato, o ridisciplinato, l 'amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi (D.lgs 8 luglio 1999,n.270). Il tema è di per sé rilevante,ma la diffusa opinione che intravede in questa disciplina un modello generalizzabile di procedura concorsuale, accentua l 'interesse e l'attenzione.

 

6) Procedure (apparentemente)liquidatorie e procedure conservative: alcuni spunti di riflessione sull 'amministrazione straordinaria.

Emerge da quanto si è fino ad ora esposto che la procedura fallimentare, apparentemente solo liquidatoria,ha invece sviluppato,virtualmente, una seconda ed opposta natura, conservativa, se non dell 'impresa, quanto meno dell'attività produttiva e dell'occupazione ad essa connessa. I disposti dell'art. 3 L. 223/1991 suggeriscono e prefigurano, infatti, un "iter" nel quale, con apparente paradosso, la finalità liquidatoria si realizza proprio attraverso la cessione in blocco,ad un nuovo soggetto subentrante, dell 'azienda o di sue parti,mentre,per altro verso,viene incentivata e finanziata l'attesa da parte dei lavoratori di questo positivo sbocco:si tratta,certo,solo di una possibilità, ma fortemente perseguita e strumentata dal legislatore.Per converso,con il D.Lgs 08/07/99 n.270,che ha ridisciplinato "ab imis" la procedura di "amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi ", la finalità conservativa del patrimonio produttivo (e dell'occupazione) viene portata in primo piano tanto da essere assunta, nell 'art.1 del testo normativo, proprio come tratto e scopo caratterizzante dell 'istituto, ma è lecito esprimere qualche dubbio circa la maggior efficacia di questa soluzione, per così dire "istituzionale" del problema di salvaguardia dei posti di lavoro,rispetto a quella inserita nel "doppio fondo "della "liquidatoria "procedura fallimentare. Va segnalato che il D.lgs 08/07/1999 n. 270 fornisce, anzitutto, una ulteriore risposta,ancorché nella forma alquanto reticente, al vecchio quesito della applicazione -o meno- del meccanismo di "resiliazione" dell'art. 72 L.F., perché l 'art. 50 del decreto legislativo prevede espressamente, al primo comma,che il commissario straordinario possa sciogliersi dai contratti, anche ad esecuzione continuata e periodica,ancora ineseguiti o non interamente eseguiti,ma, appunto esclude da tale regola,al quarto comma, "i contratti di lavoro subordinato, in rapporto ai quali restano ferme le disposizioni vigenti". Il testo legislativo non dice quali siano queste "disposizioni", ma è chiaro che ci si riferisce all 'opinione maggioritaria e dominante,della continuità automatica del rapporto di lavoro e della sottoposizione alle compesse regole del recesso individuale e collettivo. D'altro canto la continuazione dei rapporti,nonostante la sentenza di "dichiarazioni di stato di insolvenza" e la successiva apertura dell'amministrazione straordinaria, è confermata dalle previsioni dell 'art. 63 comma 2° e 4° le quali prevedono, rispettivamente, l 'obbligo per l 'eventuale acquirente dell'azienda di mantenere per almeno un biennio, i livelli occupazionali stabiliti all 'atto della vendita,e la possibilità di stabilire con accordo sindacale, ai sensi dell'art. 47 L. 428/1990, in tale momento, che solo una parte dei dipendenti dell 'impresa insolvente passino all'acquirente. Questo, ovviamente, nel quadro di uno dei due possibili programmi dell'amministrazione straordinaria contemplati nell'art. 27: nel programma, cioè, "di cessione di complessi aziendali " perché nell'altro tipo di programma, quello "per ristrutturazione", la continuità occupazionale è, in linea di principio, addirittura scontata. Perché,allora,abbiamo manifestato il dubbio che, nell'ambito delle procedure di amministrazione straordinaria,la tutela dell 'occupazione possa essere non più forte, ma anzi più debole di quella prevista, per il caso di fallimento, dall 'art.3 L. 223/1991? Perché, fondamentalmente, nessun limite è posto, almeno espressamente, dal testo legislativo ai poteri gestionali della amministrazione straordinaria con riguardo alla possibilità di procedere ad una riduzione del personale nel corso dell 'esecuzione sia dell 'uno che dell 'altro tipo di programma, né l'art.56, che disciplina il "contenuto del programma", contempla la necessità di preventive determinazioni su tale argomento. In linea teorica la prima valutazione operativa del commissario potrebbe riguardare proprio la esistenza di una eccedenza di personale già evidente e la necessità di eliminarla in via prodromica a qualsiasi altro sviluppo seguendo scrupolosamente -si intende- le procedure dell'art. 24 L. 223/1991. Ed allora, si manifesterebbe nuovamente quella ricordata lacuna o aporia del nostro sistema di sicurezza sociale per cui l 'imprenditore in difficoltà (ovvero il suo "sostituto" amministratore straordinario) ha la facoltà, ma non l 'obbligo, di richiedere l 'intervento della CIGS per le causali di ristrutturazione o crisi aziendale: solo la "procedura concorsuale" di cui all'art. 3 L. n. 223/1991 è -almeno secondo l 'interpretazione che ne abbiamo dato- ad intervento automatico ed obbligatorio.Vero è che tra le ipotesi di applicazione dell 'art. 3 L. n.223/1991 è contemplata anche l' "amministrazione straordinaria", ma si trattava naturalmente del vecchio istituto, quello regolato dalla L. 2 aprile 1979 n.95, meno caratterizzato in senso "conservazionista "rispetto a quello attuale. Sappiamo di coltivare in qualche modo un paradosso, ma esso è nel diritto obiettivo:per estremizzare il concetto confrontiamo la situazione di un dipendente di una impresa in difficoltà che sia stato ammesso alla procedura di amministrazione controllata ordinaria (che è la procedura conservativa per eccellenza), con quella del dipendente di una impresa fallita. Certamente l 'ammissione all'amministrazione controllata non sfiora neanche, dal punto di vista giuridico, il dipendente il cui rapporto di lavoro non subisce interferenza alcuna, ma ciò non toglie che se l 'impresa resta senza commesse e, concretamente, la sua attività si arresta,quel dipendente possa essere licenziato per riduzione di personale, se il datore di lavoro non decide "benevolmente" di richiedere l 'intervento della CIGS. Né gli gioverà certo il fatto che dopo qualche mese, magari, l 'azienda sia affittata e poi rilevata da altro soggetto imprenditoriale. È un rischio che il dipendente dell 'impresa fallita, invece, non corre perché l 'arresto della produzione avrà, per lui, l'effetto di collocazione automatica in CIGS ex art.3 L. 223/1991,con passaggio poi alle dipendenze dell'eventuale affittuario. In sintesi estrema: le procedure "istituzionalmente conservative" garantiscono, nell'immediato, la continuità effettiva dell'occupazione ma aprono rischi subito successivi, mentre quelle istituzionalmente "liquidatorie" (fallimento, concordato per cessione dei beni) aprono, in teoria, un gravissimo rischio immediato ma poi l'art. 3 L. 223/1991 lancia, per così dire, sul precipizio una passerella di notevole lunghezza, con possibilità di diretto e felice approdo finale. Un coordinamento si rende necessario e, certamente, il primo raccordo può essere quello di rendere il commissario giudiziale,cioè il primo soggetto investito di poteri ai sensi dell'art. 19 D.lgs n. 270/1999, destinatario degli obblighi dell'art. 3 L. 223/1991 quando l 'attività aziendale si sia, nel frattempo arrestata. Forse è giunto il momento di rifondere le discipline, quella del diritto concorsuale e quella del diritto del lavoro e della sicurezza sociale, provando a "pensarle insieme" con approccio davvero multidisciplinare, in sede di redazione di un nuovo "corpus" normativo sostitutivo della legge fallimentare e di cui il D.Lgs. n. 270/1999 costituisce probabilmente una sorta di prototipo. Credo si possa dire, concludendo, che nel ventennio 1970-1990 i fallimentaristi hanno un poco subìto le incursioni dei lavoristi i quali, peraltro, sembrano adesso aver perso l 'iniziativa:una maggiore sinergia nell'opera di riforma sarebbe davvero auspicabile, anche perché il nostro ordinamento di sicurezza sociale ha bisogno di riforme certo non meno di quello delle procedure concorsuali. Una esigenza va segnalata, sopra tutte: occorre passare da una concezione settoriale, industrialista, per la quale i problemi del lavoro, anche con riguardo agli effetti delle procedure concorsuali, si sono identificati con i problemi del lavoro industriale, ad una visuale universalista, di protezione sociale diffusa, pur nelle necessarie articolazioni per ambiti e settori produttivi. Ma un 'analoga articolazione di disciplina, all'interno di un quadro unitario, costituisce certamente anche la linea-guida del futuro diritto concorsuale.

Tratto dalla Collana di studi giuridici dell'Ordine degli Avvocati di Bari
Atti del Seminario di Studi su: "LA TUTELA DEL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO NELLE PROCEDURE CONCORSUALI"

Prof. Piero Giovanni ALLEVA
Ordinario di Diritto del Lavoro all'Università di Bologna

Articolo tratto da: www.ilFallimento.it