DONAZIONE DA GENITORI A FIGLIO MINORE E CONFLITTO D'INTERESSI

 

La donazione da genitore a figlio minore ha posto da sempre l'interprete di fronte all'interrogativo circa la sussistenza o meno di un conflitto d'interessi tra genitore donante e figlio donatario.
I notevoli risvolti pratici collegati alla diversa soluzione del problema hanno alimentato una discussione particolarmente accesa tra due contrapposti orientamenti.
Orbene, con il presente lavoro si cercherà di offrire un modesto contributo di chiarezza sul punto, tentando altresì una diversa lettura della fattispecie in esame.

 

Da tempo dottrina e giurisprudenza sono impegnate sul tema della donazione da genitori a figlio minore e sulle problematiche ad essa connesse.

E' singolare notare che, a dispetto dell'apparente semplicità della vicenda negoziale, il dibattito che si è sviluppato in ordine alla disciplina legislativa da applicare ha reso la relativa questione una delle più tormentate e controverse in materia di volontaria giurisdizione.

Sul tema ancor oggi si confrontano due principali correnti di pensiero.

Da un lato, vi è chi sostiene che il contratto de quo sarebbe caratterizzato da un evidente conflitto d'interessi tra donante e donatario, con la conseguente applicabilità dell'art. 320, comma 6, c.c. secondo il quale: "se sorge conflitto d'interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa potestà, o tra essi e i genitori o quello di essi che esercita in via esclusiva la potestà, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale. Se il conflitto sorge tra i figli e uno solo dei genitori esercenti la potestà, la rappresentanza dei figli spetta esclusivamente all'altro genitore".

Questa posizione, oltre all'adesione di una parte (minoritaria) della dottrina [1], ha avuto largo seguito in giurisprudenza, trovando la sua consacrazione nella sentenza della Cassazione del 14 gennaio 1981, n. 439 d [2].

Secondo la S.C. il principale argomento a sostegno della tesi del conflitto d'interessi si ricaverebbe dalla lettera del comma 3 dell'art. 320, in particolare dalla previsione dell'autorizzazione giudiziale anche per l'accettazione della donazione pura e semplice, la quale - si fa notare - "difetterebbe di base logica" laddove "nella sovrana prospettazione-valutazione del legislatore" fosse "rimasta estranea la configurabilità di un potenziale contrasto tra la posizione del donante e quella del donatario".

Dunque, dalla previsione normativa dell'autorizzazione giudiziale anche per l'accettazione della donazione non soggetta a pesi o condizioni, la S.C. fa discendere la possibilità di un pregiudizio per il minore donatario (che l'autorizzazione sarebbe diretta a scongiurare) e quindi la possibilità di un conflitto d'interessi con il genitore donante.

L'altro argomento utilizzato dalla Corte si collega all'art. 437 c.c. a norma del quale "il donatario è tenuto, con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante...".

Orbene, secondo la suddetta pronuncia, a questa situazione giuridica già di per sé "...tale da richiedere una valutazione di convenienza, e quindi una scelta, per chi riceve la donazione, tra l'arricchimento che essa comporta e l'assunzione dell'obbligo della prestazione degli alimenti..." si aggiungerebbe, nella fattispecie in esame, un'ulteriore ragione di conflitto connessa alla "...potenziale posizione, in certo senso contrapposta, in cui vengono a trovarsi i due soggetti del rapporto, i quali sono reciprocamente tenuti, anche in base ad altro titolo, cioè per la semplice qualità di genitore e di figlio, alla prestazione degli alimenti, con le ripercussioni correlate al fenomeno depauperamento-arricchimento dei rispettivi patrimoni...".

E questo secondo rilievo, secondo la Cassazione, costituirebbe altresì valido motivo per escludere che l'accettazione della donazione possa provenire dall'altro genitore non donante in quanto lo stesso, "nella qualità di titolare - nei confronti del coniuge donante e, in linea gradata del figlio - della pretesa alimentare..." verrebbe ad essere combattuto tra l'interesse ad arricchire il patrimonio del figlio e quello, contrapposto, a non depauperare il patrimonio del coniuge.

La conclusione cui si perviene è che nel caso di donazione da parte di uno dei (come di entrambi i) genitori, si dovrà far luogo, in applicazione della prima parte del comma 6 dell'art. 320 c.c., alla nomina di un curatore speciale ai fini dell'accettazione della liberalità.

L'orientamento espresso dalla S.C. ha avuto larga eco, come ricordato, nella giurisprudenza di merito la quale, tra l'altro, in alcune pronunce non si è limitata a richiamarsi alle motivazioni fornite dalla Cassazione ma è andata oltre.

In particolare, a conferma dell'esistenza di un conflitto d'interessi anche con il genitore non donante (se coniuge del donante), si è affermato che in conseguenza della donazione di uno dei genitori al figlio minore si avrebbe, oltre alla modifica dell'ordine previsto dall'art. 433 c.c. (per effetto del disposto dell'art. 437 c.c.), una diversa ripartizione dei diritti previsti dal codice nella successione dei legittimari (artt. 536 e ss.).

In sostanza, la donazione potrebbe comportare una lesione della quota di legittima spettante al coniuge non donante [3].

Sul fronte opposto a quello della giurisprudenza dominante si è attestata tradizionalmente la dottrina prevalente [4], la quale ha sempre negato in radice qualsiasi conflitto tra genitore donante e figlio minore donatario, aggiungendo che tale operazione negoziale, atteso l'"imprescindibile dualismo di posizioni giuridiche" tipico di ogni contratto, presupporrebbe unicamente un impedimento ad accettare la donazione da parte dello stesso genitore donante.

Seguendo tale impostazione l'opinione più accreditata [5], ha ritenuto che: 1) qualora la donazione provenga da uno solo dei due genitori esercenti la potestà, la stessa potrà essere accettata dall'altro genitore ai sensi dell'art. 317 c.c. comma 1; 2) nell'ipotesi di rifiuto o d'impossibilità dell'altro genitore così come nel caso in cui donante sia il genitore che esercita in via esclusiva la potestà troverà invece applicazione l'art. 321 c.c., con la conseguente nomina di un curatore speciale per il compimento dell'atto.

La critica di fondo operata dalla dottrina prevalente alla teoria del conflitto d'interessi muove dalla considerazione che "...il carattere gratuito della donazione ed il vantaggio che essa offre, almeno in via di regola, per il donatario escludono che si profili un conflitto d'interessi tra il donante ed il donatario..." [6].

In particolare, si osserva che il conflitto d'interessi per essere rilevante deve essere attuale non meramente eventuale: il conflitto, in altri termini, deve essere "...tale da determinare una situazione di pericolo di danno al rappresentato..., per il dubbio ragionevole o giustificato che il rappresentante...possa tutelare, nell'atto, l'interesse proprio..." o di altro rappresentato (conflitto diretto) ovvero quello di "...persona legata da vincoli di affetto o di affari con il rappresentante..." (conflitto indiretto) [7].

A parere dello scrivente la posizione della dottrina prevalente si lascia decisamente preferire, e ciò oltre che per la ragionevolezza che si ritiene insita nelle argomentazioni sviluppate, anche per una serie di altre ragioni che si vanno analiticamente ad esporre.

Collegare il conflitto d'interessi alla previsione normativa dell'autorizzazione giudiziale per l'accettazione della donazione (come fatto dalla S.C. nella citata sentenza) rappresenta una scelta arbitraria in quanto fondata su un procedimento deduttivo (quello che ritiene di poter desumere la possibilità del conflitto dalla possibilità del pregiudizio per il minore) esattamente inverso a quello sotteso alla disciplina dettata dall'art. 1394 c.c. che regolamenta il conflitto d'interessi in funzione della possibilità di un pregiudizio che ne può derivare per il rappresentante.

Né si può pensare che vi sia una corrispondenza biunivoca o una relazione di necessaria consequenzialità reciproca tra conflitto e pregiudizio, potendo quest'ultimo evidentemente e logicamente collegarsi a situazioni giuridiche diverse, rispetto alle quali sia assente qualsiasi contrapposizione d'interessi tra rappresentante e rappresentato.

In secondo luogo, il ragionamento della Corte ancor più che da argomentazioni di carattere logico, risulta smentito proprio dalla lettera dell'art. 320 c.c.

Tale norma, infatti, per legittimare l'interpretazione datane dalla Cassazione (sia pure limitatamente al collegamento tra l'autorizzazione giudiziale e la mera possibilità di un pregiudizio conseguente all'atto), avrebbe dovuto essere formulata, nella parte finale, in questi termini: "...se non dopo autorizzazione del giudice tutelare", senza altra specificazione, ovvero, preferibilmente "...se non in assenza di qualsiasi pregiudizio del figlio dopo autorizzazione del giudice tutelare.".

Laddove, viceversa, si è collegata la possibilità dell'atto e la stessa autorizzazione giudiziale alla "necessità o utilità evidente" è ovvio che il legislatore ha preteso "qualcosa in più", ed è all'accertamento di questo qualcosa in più che deve essere collegata la previsione dell'autorizzazione giudiziale non alla semplice valutazione dell'assenza di pregiudizio.

Né avrebbe senso ritenere di poter identificare l'utilità evidente o la necessità di un atto con la mera mancanza di pregiudizio.

Qualsiasi persona, evidentemente, è in grado di comprendere come una qualsiasi operazione negoziale, e più in generale qualunque accadimento, possa essere assolutamente inutile e non necessaria per un soggetto e nel contempo priva per lo stesso del benché minimo pregiudizio.

Del resto tale norma, correttamente interpretata, si spiega agevolmente in relazione alla condizione d'incapacità dell'interessato a provvedere personalmente alla cura dei propri interessi e alla conseguente scelta del legislatore di assoggettare l'amministrazione dei beni del minore a regole di gestione qualificata e non meramente neutra.

La realtà è che la donazione (anche quella soggetta a pesi o condizioni) rappresenta un negozio che, almeno nella configurazione accolta dal legislatore, esclude per definizione qualsiasi possibilità di pregiudizio per il donatario.

Qualunque argomentazione contraria, non potrà non trovare un ostacolo insormontabile nel dato normativo, e in particolare nella disposizione secondo la quale "il donatario è tenuto all'adempimento dell'onere (solo) entro i limiti di valore della cosa donata" (art. 793, comma 2, c.c.).

Ancor meno appagante si presenta l'argomento fondato sugli artt. 433 e 437 c.c.

Invero inserire nel ragionamento motivazioni connesse a mere aspettative future ed eventuali, quali le pretese alimentari ex artt. 433 e 437 c.c. o i diritti riservati ai legittimari di cui agli artt. 536 ss. c.c., significa inevitabilmente insinuare il sospetto di un potenziale conflitto d'interessi in numerose operazioni negoziali compiute dai genitori quali rappresentati legali dei figli minori.

Basti pensare alle alienazioni, alle assunzioni di obbligazioni e più in generale a tutti gli atti di straordinaria amministrazione posti in essere per necessità del figlio minore.

Nella vendita di un immobile del minore imposta dalla necessità di impiegare il ricavato per un intervento chirurgico, ad esempio, secondo il metro di valutazione utilizzato nella suindicata pronuncia, ben potrebbe essere evocato un conflitto d'interessi in capo ai genitori in quanto l'operazione negoziale essendo destinata a produrre un depauperamento del patrimonio del minore potrebbe, anche in questo caso, pregiudicare indirettamente le loro aspettative alimentari e successorie.

Nell'esempio fatto il pregiudizio risulterebbe ancor più evidente attesa la perdita da parte dei genitori dell'usufrutto legale (art. 324 c.c.) sui beni venduti, perdita cui non farebbe riscontro alcun corrispondente incremento patrimoniale, atteso che il corrispettivo, pur conseguito, sarebbe comunque vincolato al soddisfacimento della suddetta esigenza.

Ma, che tali effetti indiretti e puramente eventuali siano rimasti esclusi dalla valutazione legislativa circa la configurabilità di un conflitto d'interessi tra genitori e figlio minore, si evince chiaramente dallo stesso dato normativo allorché legittima al compimento dei suddetti atti proprio i genitori quali esercenti la potestà sul figlio minore [8].

D'altro canto non sorprende affatto che, una volta accettata la logica ispiratrice della denunciata sentenza si sia giunti a sostenere che: "...si ha conflitto d'interessi tutte le volte in cui il rappresentante si trovi in condizioni che turbino obiettivamente la sua imparzialità... non rilevando che il suo interesse - concorrente o confliggente con quello del rappresentato - sia futuro ed eventuale..." ed ancora che: "...l'elemento rivelatore della presenza del conflitto d'interessi è dato dall'obiettiva mancanza d'imparzialità nel momento della conclusione dell'atto da parte del rappresentante..." [9].

Pur senza voler considerare tale posizione rappresentativa dell'orientamento avversato, non si può far a meno di denunziare il rischio insito nella teoria del conflitto d'interessi e che l'atteggiamento giurisprudenziale ora ricordato concretamente dimostra.

La verità è che l'idea del conflitto d'interessi meramente eventuale se lascia perplessi in generale si rivela del tutto inaccettabile (oltre che, per le cose dette, legislativamente smentita) per ciò che riguarda in particolare l'ambito dei rapporti tra figli minori e genitori esercenti la potestà sui primi.

Il vincolo di sangue che caratterizza tali rapporti ha svolto un ruolo fondamentale di condizionamento legislativo.

Infatti, come autorevole dottrina [10] ha avuto modo di chiarire "...le facoltà che spettano, in tema di amministrazione ai genitori esercenti la potestà sono più ampie e soggette a controlli più attenuati e limitati rispetto all'amministrazione del tutore...".

Orbene in un contesto nel quale il maggior affidamento proveniente dai genitori, in virtù del vincolo di sangue, ha indotto il legislatore a adottare minori cautele, appare ancor più evidente la necessità di un maggior rigore nell'accertamento dei presupposti del conflitto d'interessi il quale potrà configurarsi solamente nella sua reale effettività, tenendo conto dell'interesse collegato alla posizione istituzionale eventualmente ricoperta dal rappresentante legale, in proprio o come rappresentante di terzi, nonché in relazione alla funzione tipica del negozio concretamente posto in essere.

Nella vendita, ad esempio, non potrà che farsi riferimento all'interesse del compratore a conseguire per effetto dello scambio che si realizza, il miglior rapporto tra il bene acquistato e il prezzo pagato, e tale interesse non può non essere contrapposto all'interesse speculare del venditore.

Del resto non è un caso che il legislatore abbia ritenuto di dover escludere espressamente qualsiasi possibilità, per i genitori esercenti la potestà di rendersi acquirenti dei beni e dei diritti del minore (art. 323 c.c.).

Nella donazione, viceversa, l'unico interesse giuridicamente rilevante del donante risulta quello ad arricchire l'altra parte disponendo a favore di questa di un diritto o assumendo verso la stessa un'obbligazione, e rispetto ad esso l'interesse patrimoniale del donatario non può che essere convergente giammai in conflitto.

Eventuali altri interessi, pur concretamente ipotizzabili, potranno assurgere al più al rango di motivi (che come noto sono di regola giuridicamente irrilevanti), salvo che, nella rappresentazione del soggetto agente, abbiano avuto tale peso nella determinazione negoziale da incidere sullo stesso profilo causale del negozio: in tal caso ben sarà possibile un conflitto d'interessi ma saremo fuori ovviamente dallo schema della donazione e ciò, naturalmente, anche ove ricorra un atto gratuito (non donativo).

Peraltro tali interessi, che si concretino in motivi della donazione o che comportino un declassamento della stessa ad atto gratuito o ad altro atto negoziale, non sfuggiranno certo alla valutazione che il giudice dovrà svolgere in sede di autorizzazione all'accettazione o all'acquisto del bene, oggetto dell'atto, da parte del minore. Ma gli stessi non verranno in rilievo in quanto tali bensì unicamente sotto il profilo della convenienza e opportunità economica dell'acquisto patrimoniale da realizzare.

Le considerazioni svolte appaiono allo scrivente decisive nell'escludere, in sintonia con l'indirizzo dottrinario prevalente, qualsiasi possibilità di conflitto d'interessi nella donazione al figlio minore e ciò indipendentemente dalla circostanza che tale donazione provenga da entrambi i genitori o da uno solo di essi: in quest'ultimo caso sarà altresì irrilevante che il genitore non donante assuma anche lui (assieme al minore) la veste di donatario.

Rimane un unico interrogativo: la dottrina che sostiene tale posizione ha tratto da questa corretta impostazione del problema le giuste conclusioni?

Come sopra ricordato, l'orientamento che esclude qualsiasi conflitto d'interessi in tema di donazione da genitori a figlio minore ritiene nondimeno che nella fattispecie negoziale in oggetto ricorra un "imprescindibile dualismo di posizioni giuridiche" che impedisce l'accettazione della donazione (destinata al figlio minore) da parte dello stesso genitore donante.

Secondo la dottrina prevalente, dunque, non sarebbe utilizzabile lo schema del contratto con sé stesso disciplinato dall'art. 1395 c.c.

Questa conclusione per quanto autorevolmente sostenuta e largamente condivisa [11], a giudizio dello scrivente, alimenta dei dubbi che si ritiene opportuno esporre in questa sede.

Che la donazione esprima la necessità di un dualismo di posizioni giuridiche risulta assolutamente pacifico.

Analogamente, appare fuori discussione che la rappresentanza legale non è assimilabile alla rappresentanza volontaria alla quale eminentemente si ricollega lo schema del contratto con sé stesso.

Eppure tali argomentazioni non appaiono premesse idonee a giustificare una soluzione quale quella accolta dalla dottrina prevalente.

Invero, una volta esclusa per definizione la possibilità del conflitto d'interessi nella donazione fatta dai genitori al figlio minore, è lecito chiedersi perché mai le proposizioni sopra espresse dovrebbero costituire un impedimento al ricorso all'autocontratto.

Pur volendo riconoscere nel contratto con sé stesso, previsto dalla richiamata norma codistica, un istituto eccezionale e non l'espressione di un principio generale da applicare in ogni caso in cui possa affermarsi l'esclusione di qualsiasi conflitto d'interessi tra rappresentante e rappresentato, non ci sono ragioni convincenti per ammettere quantomeno una lettura estensiva di tale disposizione.

Non è certo un caso che anche tra coloro che condividono la natura eccezionale dello strumento se ne affermi l'utilizzabilità in tutte le ipotesi nelle quali "...il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d'interessi", ed in particolare quindi anche in quelle in cui tale determinazione non sia frutto dell'iniziativa del rappresentato ma si colleghi all'oggetto del contratto [12].

Ricorrendone identica ratio, analoga soluzione si ritiene debba coerentemente essere adottata qualora la determinazione oggettiva del contenuto del contratto (tale da escludere la possibilità del conflitto) sia conseguenza della particolare natura e struttura della fattispecie negoziale da realizzare [13]. Del resto la stessa formulazione letterale della norma sembra legittimare una tale interpretazione laddove non imputa esplicitamente e direttamente la determinazione del contenuto del contratto (tale da escludere la possibilità del conflitto d'interessi) al dominus.

Autorevole dottrina [14] ha obiettato che "...anche se l'ammissibilità dell'autocontratto si dilatasse al di là della lettera della legge fino a comprendere qualsiasi ipotesi in cui sia genericamente escluso il pericolo di pregiudizio per l'interessato ... la rappresentanza volontaria presenta sempre, se non altro, per il conferimento, specifico o generico, del potere di rappresentanza, un minimum di partecipazione della volontà del dominus, che manca per definizione, nella rappresentanza legale. E questa partecipazione, anche minima, può ben valere a ricondurre l'autocontratto alla volontà del dominus...".

E si è aggiunto che il "...dualismo di posizioni giuridiche tra donante e donatario ... impone due valutazioni distinte, autonome, opposte, ciascuna delle quali non può essere annullata senza ridurre la donazione ad un negozio unilaterale...".

Tale posizione, pur nel rispetto che si deve al prestigio di chi l'ha sostenuta, non appare decisiva.

Va contestata, innanzitutto, l'ipotesi di partenza: non si vuole, infatti, ricavare dalla norma dell'art. 1395 c.c. il principio secondo il quale, nel nostro ordinamento giuridico, l'autocontratto va considerato valido in tutti i casi di semplice esclusione della possibilità di conflitto, ma, in perfetta coerenza con la formulazione normativa, la sua ammissibilità nelle sole ipotesi nelle quali la mancanza (anche solo potenziale) del conflitto sia conseguenza della determinazione (anche oggettiva) del contenuto del contratto.

Non convince, in secondo luogo, la conclusione cui si perviene: non si può evidentemente contestare che la rappresentanza volontaria è tale in quanto la titolarità del potere rappresentativo trova la sua fonte nella volontà del dominus, ma altro è la volontà di conferire la procura altro la valutazione circa la convenienza a compiere il negozio per il quale il potere è stato riconosciuto.

Orbene tale valutazione compete unicamente al rappresentante, e solo a lui è giuridicamente imputabile, a meno di non voler declassare lo stesso a mero strumento della volontà del rappresentato e la sua attività ad una semplice ambasceria.

Certo è possibile che lo stesso dominus, nel momento in cui conferisce la procura, abbia reputato opportuno compiere il negozio, ma l'unica valutazione dalla quale dipenderà la conclusione dello stesso è evidentemente quella del rappresentante, il quale sarà assolutamente libero nel suo apprezzamento potendo finanche (nonostante la procura) decidere di non negoziare.

Ciò che si può concedere è soltanto che nella donazione con sé stesso da parte del genitore donante, la valutazione di convenienza avverrà, almeno di regola, contestualmente alla determinazione a donare, ma tale circostanza a ben vedere (se correttamente intesa) ricorre in qualsiasi ipotesi di (valido) contratto con sé stesso, senza che per questo si dubiti della natura contrattuale della fattispecie o, se si preferisce, della stessa possibilità di realizzare il negozio.

La realtà è che, come ha avuto modo di sottolineare la più recente teoria del contratto [15], affinché una determinata fattispecie negoziale si caratterizzi come fattispecie contrattuale è necessario, ma anche sufficiente, poter affermare la bilateralità del regolamento di interessi da essa posta in essere, vale a dire l'imputabilità giuridica di tale regolamento a due parti.

E ciò ricorre sicuramente anche nella donazione con sé stesso, rispetto alla quale non si potrebbe certo dubitare che l'assetto di interessi, (depauperamento di una parte, per suo spirito di liberalità, in funzione dell'arricchimento dell'altra) che ne scaturisce, sia identico a quello realizzato da una qualsiasi altra donazione.

Certo, il compito formativo del negozio, che normalmente è affidato a due parti, nella donazione con sé stesso verrà assolto da un unico soggetto, ma ciò è esattamente quanto accade in ogni contratto con sé stesso.

Dunque, almeno nell'attuale stato dell'elaborazione dottrinaria, non sembra che l'utilizzabilità del relativo modello in tema di donazione da genitori a figlio minore incontri obiezioni insuperabili, salvo accettare tentativi di distinguo (come quelli sopra denunciati) connessi alla rilevanza della volontà del dominus nella rappresentanza volontaria i quali, a parere dello scrivente, più che segnalare una ragione sostanziale di esclusione della rappresentanza legale dall'ambito di operatività del contratto con sé stesso, si risolvono in una tautologica riedizione, sotto il profilo della fonte, della differenza tra i due tipi di rappresentanza.

 

Autore: Francesco Coppola - tratto da  "Famiglia e Diritto", 6 / 2003, p. 632


Note:

1 Per tutti Finocchiaro-Finocchiaro, Diritto di famiglia, II, Milano 1984, 2112. 

2 In Foro it. 1981, I, 678; in Foro pad. 1981, I, 14; in Riv. not. 1981, 149; in Vita notar. 1981, 875. 

3 Cfr. Trib. Roma 30 giugno 1986. 

4 Cfr. per tutti Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1984, 318-319; Torrente, La donazione, Milano, 1956, 373; Mazzacane, La giurisdizione volontaria nell'attività notarile, Roma, 1980, 163. 

5 Jannuzzi, op. cit., 316-317.

6 Torrente, op. cit., 372.

7 Jannuzzi, op. cit., 176.

8 Cfr. art. 320 comma 3 c.c.  

9 Cfr. Trib. Roma 15 gennaio 1987. 

10 Jannuzzi, op. cit., 68  

11 Cfr. per tutti Torrente, La donazione, 373. 

12 cfr. per tutti, Bianca, Il Contratto, III, 100. 

13 Analogamente, Iorio, A proposito dell'accettazione della donazione fatta al figlio minore dal padre esercente la patria potestà, in Foro it., 1953, IV, 115. 

14 Torrente, op. cit., Milano, 1956, 373. 

15 Donisi, Il contratto con sé stesso.