Danni patrimoniali e non patrimoniali alle persone giuridiche e modalità della relativa quantificazione

 

1. Il danno patrimoniale

Il risarcimento di danni patrimoniali conseguenti al compimento di una fattispecie illecita è da sempre riconosciuto oltre che alle persone fisiche anche alle persone giuridiche, siano esse associazioni (riconosciute e non), società (di capitali, di persone…) ovvero enti territoriali esponenziali (Stato, Provincia, Comune…).
Il pregiudizio concreto, pertanto, sia presente che futuro, subito dalla persona giuridica va provato in giudizio con ogni mezzo ed ancorato al comportamento illegittimo del danneggiante attraverso il nesso di causalità, secondo quanto previsto dalla struttura dell’art. 2043 cod. civ.

In linea generale, per stabilire la sussistenza del nesso causale tra fatto dannoso ed evento di danno il giudice non può fare ricorso né alla causalità naturalistica in senso stretto (il che porterebbe a ritenere causa di un evento tutta la sterminata serie di precedenti senza i quali il fatto non si sarebbe potuto verificare), né alla causalità statistica, né alla propria semplice intuizione, anche se fondata sulla logica.
Per accertare il suddetto nesso eziologico, anche qualora la danneggiata sia una persona giuridica, il giudice dovrà, invece, valutare tutti gli elementi della fattispecie, al fine di stabilire se il fatto era obiettivamente e concretamente idoneo a produrre l’evento (cfr. Cass. 98/9794).

Successivamente, bisognerà quantificare la perdita patrimoniale subita nonché quella che, prevedibilmente, si verificherà in futuro a seguito del compiuto illecito (c.d. danno emergente e lucro cessante).

E’ necessario, cioè, quantificare il danno nella sua accezione patrimoniale, avendo riguardo alla situazione del patrimonio della persona giuridica antecedente al compimento dell’illecito e la sua consistenza successiva.

L’obiettivo economico è quello, infatti, di realizzare la perfetta compensazione della parte lesa, lasciandola indifferente rispetto al comportamento pregiudizievole tenuto dalla controparte. I criteri di valutazione del danno sono contenuti nell’art. 1223 cod. civ, il quale dispone che il risarcimento del danno deve comprendere la perdita patrimoniale, ovvero il danno emergente e il mancato aumento del patrimonio, ovvero il guadagno che la persona giuridica avrebbe percepito se non fosse avvenuto il comportamento illecito. Si tratta del lucro cessante.

Tuttavia, lo schema dell’art. 1223 cod. civ. è soltanto descrittivo e stà semplicemente ad indicare la direttiva del legislatore secondo cui la reintegrazione del patrimonio del soggetto leso deve essere integrale ed attenere a tutti i pregiudizi economici subiti dal danneggiato (cfr. Visintini, Trattato breve sulla responsabilità civile, Padova 1999, pag. 545 e ss).

Questo vuol dire che il legislatore non individua dei criteri precisi di valutazione, alla stregua di parametri predeterminati, per cui spesso le difficoltà probatorie che si incontrano nella quantificazione del danno impongono al giudice di ricorrere a valutazioni prognostiche, a presunzioni, ovvero a valutazioni equitative dello stesso (1226 cod. civ.).

Con particolare riferimento alla quantificazione del danno patrimoniale procurato ad una società per azioni, la Suprema Corte ha puntualizzato che qualora quest’ultima subisca, per effetto dell’illecito contrattuale commesso da un terzo, un dissesto economico, e detto danno sia tale da incidere sul valore delle azioni, il diritto al risarcimento compete solo alla società, non già anche a ciascuno degli azionisti, che risentono un pregiudizio indiretto ed eventuale, in quanto l’illecito colpisce il patrimonio della società ed obbliga il responsabile a risarcire il danno alla persona giuridica (nel cui bilancio il diritto al risarcimento costituisce una posta attiva) . Pertanto, il fatto lesivo opera come uno dei molteplici fattori, non solo economici, che influenzano il valore di mercato delle azioni, con la conseguenza che, in relazione al minor prezzo realizzato con la cessione delle stesse successivamente all’illecito, il socio non può vantare alcun diritto nei confronti dell’autore dell’illecito medesimo (cfr. Cass. 17187/02).

La Cassazione, quindi, in tale ultimo caso, ha considerato il diminuito valore delle singole azioni societarie conseguente all’illecito compiuto da un terzo, come uno dei parametri effettivi a cui riferire la quantificazione del complessivo danno patrimoniale (sotto forma di danno emergente e di lucro cessante) alla persona giuridica.
Il danno non patrimoniale e morale.
Discorso diverso e ben più ampio va fatto con riferimento al danno non patrimoniale e al danno morale.

Molto spesso la giurisprudenza e la dottrina hanno finito per sovrapporre le due voci di danno, considerandole sinonimi e, conseguentemente, ritenendo entrambe riferibili anche alle persone giuridiche.
Così’, infatti, si legge in Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1992, n. 12951: “Con riguardo al reato di diffamazione, quale fatto idoneo a pregiudicare l'immagine e la credibilità anche di persona giuridica, come uno stato, è configurabile, a carico dell'autore, anche la responsabilità risarcitoria per danno cosiddetto morale, considerato che il verificarsi di conseguenze dannose non patrimoniali è ravvisabile pure nei confronti delle persone suddette”.

Ed ancora, in Cass. civ., 10 luglio 1991, n. 7642 si legge che “Anche le persone giuridiche possono subire (e conseguentemente agire per il ristoro di) un danno non patrimoniale (c.d. morale)…”.

‘Danno morale’ e ‘danno non patrimoniale’ rappresentano, invece, fenomeni distinti, caratterizzati da una diversa ampiezza e da diversi presupposti di concessione e quantificazione.

L’espressione ‘danno morale’, in particolare, fa riferimento al danno subito dall’individuo nella sua sfera psichica (il c.d. pretium doloris), mentre l’espressione ‘danno non patrimoniale’ appare più ampia e tale da ricomprendere tutto ciò che rappresenta un danno alla sfera giuridica dell’individuo, pur non traducendosi in una perdita di carattere patrimoniale.

Un esempio può chiarire la distinzione.

Il compimento del reato di diffamazione a mezzo stampa può comportare sofferenze psichiche al soggetto diffamato consistenti nello stato di rabbia, vergogna, turbamento e preoccupazione indotti dalla pubblicazione diffamatoria. L’insieme delle conseguenze dannose riconducibili all’inflizione di tale sofferenza psichica rappresenta il ‘danno morale’ inferto all’individuo.
Alla stessa azione, tuttavia, possono conseguire ulteriori danni aventi carattere immateriale, o non immediatamente materiale, quali la lesione della reputazione, il danno all’immagine, il danno da stress, il danno alla vita di relazione, la compromissione o riduzione della capacità di concorrenza professionale. L’insieme di tali conseguenze è incluso nel più ampio novero del ‘danno non patrimoniale’, inteso come insieme delle conseguenze dannose di carattere non materiale, riconducibili ad un dato evento.

In tale prospettiva, il ‘danno morale’ rappresenta solo una voce del più ampio genus ‘danno non patrimoniale’.

L’art. 2059 cod. civ., che, come rilevato dalla Suprema Corte, si ispira ai medesimi criteri risarcitori "integrali" di cui al più ampio ed onnicomprensivo genus dell'art. 2043 c.c. (cfr. Cass. civ., 30 novembre 2000, n. 15330), sembra tenere conto di tale diversità, essendo rubricato sotto l’ampio titolo di “danno non patrimoniale”.

La giurisprudenza più recente ha, tuttavia, sancito definitivamente la distinzione. Ancora in Cass. civ. 30.11.2000, n. 15330, la Suprema Corte si riferisce alla norma di cui all’art. 2059 c.c. come alla “norma sul danno morale”. Ma in tale massima, come parte della dottrina ha fatto notare, è stata utilizzata una sineddoche (la parte per il tutto), dal momento che con tale pronuncia la Suprema Corte ha voluto intendere che la norma sul danno morale è contenuta all’art. 2059, senza volere intendere che tale articolo contenga solo una norma sul danno morale.

In altri casi, al contrario, la distinzione è stata delineata in modo inequivocabile.

Il Supremo Collegio ha, ad esempio, sancito che “danno non patrimoniale e danno morale sono nozioni distinte: il primo comprende ogni conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento sebbene di riparazione, mentre il secondo consiste nella cosiddetta "pecunia doloris’” (Cass. civ., 3 marzo 2000, n. 2367).

La distinzione si ritiene, ormai, definitivamente acquisita.

Va sottolineato, quindi, che per chi agisce per il risarcimento di danni immateriali sarà opportuno evitare il riferimento al solo ‘danno morale’, laddove il presupposto dell’azione sia il più ampio recupero di quanto spettante a titolo di danno non patrimoniale. Infatti, una eventuale imprecisione in tal senso – si richiedono i soli danni morali, intendendoli ricomprensivi di quelli non patrimoniali -, può prestare il fianco ad eccezioni da parte avversa (ad. esempio, in relazione alle persone giuridiche, sul difetto di legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni morali, come si vedrà meglio in seguito), mentre una eventuale modifica in conclusionale potrà comportare un’eccezione di controparte di tardiva modificazione del petitum.

Anche le conseguenze del riferimento all’una o all’altra voce, sotto il profilo del quantum restitutionis, sono rilevanti, dal momento che il risarcimento del danno morale è sottoposto a limiti rigorosi ed assume una relativa (e spesso insufficiente) consistenza solo nel caso di lesioni particolarmente gravi, specie se correlate alla morte di individui legati all’istante da uno stretto vincolo di parentela, mentre il risarcimento del danno non patrimoniale è spesso oggetto di quantificazioni rilevanti, in particolare allorquando siano coinvolti, indirettamente, valori comunque patrimoniali, come avviene nel caso di lesione dell’immagine di una società, con conseguente compromissione o riduzione della sua competitività e capacità concorrenziale nel mercato.

Le differenze tra le due voci sono profonde anche per quanto attiene ai presupposti di concessione e, in tal modo, veniamo al nucleo centrale della discussione.

Il danno morale, proprio perché inteso come insieme delle sofferenze psichiche arrecate ad un individuo a seguito di un determinato evento dannoso (la c.d. sofferenza transeunte) non può essere riconosciuto ad una persona giuridica che non è, logicamente, in grado di provarle (cfr. Cass. civ., 3 marzo 2000, n. 2367; Trib. Genova, 29 giugno 1994; Cass. civ., 5 dicembre 1992, n. 12951).

E’ evidente, infatti, che di vero e proprio danno morale non potrà parlarsi in relazione alle persone giuridiche non potendo queste ultime, per ovvie ragioni, provare quel lacerante “patema d’animo” essenziale per la qualificazione della fattispecie (si veda, inoltre, sul punto, Corte dei Conti nn.501 e 628/98, in tema di danno all’immagine della P.A.).

La tesi è stata ribadita, recentemente, da Cass. 2 agosto 2002, n.11592, in tema di equa riparazione per lesione del diritto alla ragionevole durata del processo.

La Suprema Corte ha sottolineato che la voce di danno non patrimoniale include tanto il danno morale, consistente in sofferenze, turbamenti, menomazioni dell’equilibrio psichico, quanto il danno che, pur non coinvolgendo la sfera dei sentimenti, degli affetti e della psiche, né comportando un nocumento riscontrabile in termini monetari, si evidenzi come compromissione di posizioni soggettive, parimenti tutelate, quali sono i diritti immateriali della personalità.

Orbene, prosegue la Corte, “la persona giuridica, per sua natura, non può subire dolori, turbamenti o altre similari alterazioni, ma è portatrice di quei diritti della personalità, ove compatibili con l’assenza della fisicità, e, quindi, dei diritti all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione…”.

Alla luce di tali principi, la Corte, sulla scia di un consolidato indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cass. 5 dicembre 1992, n.12951, Cass. 3 marzo 2000, n.2367), è giunta alla conclusione che “l’irragionevole durata del processo può ben produrre un danno non patrimoniale alla persona giuridica, alla condizione che il tema del dibattito coinvolga, direttamente o indirettamente, gli indicati diritti della personalità, pregiudicandoli per effetto del perdurare della situazione di incertezza connessa alla pendenza della causa”.

Ciò comporta anche un differente trattamento giuridico-processuale delle persone giuridiche rispetto a quelle fisiche: mentre, infatti, per queste ultime dall’eccessiva durata del processo si presume che derivi un automatico sentimento di scoramento o, quanto meno, di preoccupazione (c.d. danno morale in re ipsa), per le prime, “il pregiudizio subito può essere ravvisato solo se risulti provato un effettivo rifluire del fattore tempo a scapito dei menzionati diritti della personalità di cui esse stesse sono portatrici” (Cass. 2 agosto 2002, n.11592, citata).

Vale a dire, in altri termini, che mentre la persona fisica non dovrà provare concretamente di aver subito un danno morale (essendo quest’ultimo insito nella violazione compiuta e, quindi, in re ipsa), la persona giuridica, a cui è di fatto preclusa la possibilità di “versare lacrime di dolore”, dovrà e potrà provare unicamente gli eventualii danni non patrimoniali subiti, secondo lo schema comune dettato dall’art. 2043 cod. civ. (fatto – evento – nesso di causalità).

La dottrina (Ziviv, Il danno non patrimoniale, in La responsabilità civile, Cendon, Torino, 1998), ha fornito, sul tema, il suo contributo sottolineando che il danno psichico è concepibile sono con riferimento a soggetti “nati da ventre di donna”, mentre il danno non patrimoniale esistenziale – inteso come perdita dovuta ad una forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative causata dalla compromissione di una sfera anche differente rispetto a quella dell’integrità psico-fisica - è estensibile anche alle persone giuridiche, quando sia conseguente all’impedimento del raggiungimento dello scopo statutario.

Pur tuttavia, la presente trattazione non risulterebbe completa qualora si omettesse di ricordare che isolata e/o meno recente corrente giurisprudenziale ha riconosciuto, in determinate circostanze, il danno morale anche alle persone giuridiche e, in particolare, agli enti territoriali esponenziali.

Con riguardo al reato di diffamazione, il S.C. (cfr. sent. 5 dicembre 1992, n.12951) ha ritenuto il fatto lesivo dell’immagine e della credibilità di persona giuridica (nel caso specifico, uno stato), idoneo a configurare, a carico dell’autore, anche la responsabilità risarcitoria “per danno cosiddetto morale, considerato che il verificarsi di conseguenze dannose non patrimoniali, cioè sottratte ad una valutazione monetaria sulla base di criteri di mercato, è ravvisabile pure nei confronti delle persone suddette, in relazione alla lesione di diritti di natura non patrimoniale (come quelli all’onore, alla reputazione, alla identità personale)”.

Il riferimento va, inoltre, a Cass. 15 aprile 1998, n.3807, dove si legge che, in tema di danno morale, non vi è dubbio che un disastro costituente fatto-reato di enorme gravità, per il numero delle vittime e per le devastazioni ambientali dei centri storici determini, come fatto-evento, la lesione del diritto costituzionale dell’ente territoriale esponenziale (nel caso specifico, il comune) alla sua identità storica, culturale, politica, economica costituzionalmente protetta (art. 114 Cost.). Da ciò consegue, prosegue la Corte, che è insita la lesione della posizione soggettiva e che l’ente ha legittimazione piena e titolo ad esigere il risarcimento del danno (morale).

Su tale scia anche Tribunale di Milano, sentenza 22 novembre 2001, in cui si prevede “risarcibile a favore di una persona giuridica il danno morale conseguente alla obiettiva offesa di posizioni quali l’onore, la reputazione, l’immagine commerciale di per sé suscettibili di apprezzamento indipendentemente da una loro valutazione patrimoniale” e, inoltre, che “tale danno deve essere liquidato in via equitativa, indipendentemente dalla prova di un concreto nocumento agli interessi commerciali patrimoniali del soggetto leso”.

Un tale orientamento, influenzato ancora una volta dalla imprecisa sovrapposizione del concetto di “morale” e “non patrimoniale” è, tuttavia, rimasto isolato nel panorama giurisprudenziale italiano.

Poiché, invece, il danno non patrimoniale comprende gli effetti lesivi che prescindono dalla “umanità” del danneggiato, il medesimo è senza dubbio riferibile, come già accennato, anche ad enti e persone giuridiche.

In particolare, il S. C. ha sostenuto, in riferimento alla possibilità di configurare il danno non patrimoniale in capo alle persone giuridiche, come “non sia esatto che esso possa riguardare solo le persone fisiche e non quelle giuridiche. Una nozione adeguata del danno non patrimoniale porta ad escludere che esso vada limitato al solo campo delle sofferenze fisiche o morali mentre devono esservi correttamente inclusi tutti quei danni che non rientrano nella categoria del danno patrimoniale. Può così raffigurarsi anche un danno non patrimoniale diverso dal dolore, riferibile quindi alla persona giuridica, quale il danno che incide sulla reputazione, il danno che deriva dalla divulgazione di segreti e o di notizie riservate e simili (…) poiché il danno non patrimoniale comprende gli effetti lesivi che prescindono dalla personalità giuridica del danneggiato, il medesimo è riferibile anche a enti e persone giuridiche” (cfr. Cass. 2367/00: nella specie, in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva riconosciuto in favore di una società di capitali il risarcimento del danno non patrimoniale con riguardo a reato di diffamazione, accertato incidentalmente, quale fatto idoneo a pregiudicare l’immagine e la credibilità anche di persona giuridica).

In particolare: le voci del danno non patrimoniale e l’evoluzione giurisprudenziale.

Le persone giuridiche, pertanto, non possono subire danni morali. Possono, tuttavia, essere lese in quei diritti della personalità (quali, il diritto al nome, all’immagine, all’identità storica, politica, culturale…) a cui sia la Costituzione, sia il codice civile, sia la legislazione speciale forniscono ampia ed adeguata tutela.

Il concetto di danno non patrimoniale ha, tuttavia, subito una repentina evoluzione, collegata all’emersione dei c.d. nuovi diritti.

Come abbiamo visto, infatti, la giurisprudenza più recente, con netto taglio al passato, ha distinto nettamente il concetto di danno non patrimoniale e di danno morale, ammettendo il risarcimento del primo unicamente in applicazione e secondo lo schema del 2034 cod. civ.

Tale ragionamento si è fondato principalmente sull’impossibilità di ampliare il dettato dell’art. 2059 cod. civ. oltre i confini del patema d’animo e del danno morale tout court, costretto nell’abito della espressa previsione di legge. Conseguentemente, affinché sia riconosciuta la tutela risarcitoria è necessario che il comportamento lesivo abbia integrato gli estremi di un reato, in quanto la norma di legge richiesta dall’art. 2059 cod. civ. viene ravvisata nell’art. 185 cod. pen.

Pertanto ogni possibilità di impiego della responsabilità civile per la protezione di qualsiasi lesione produttiva di conseguenze non strettamente patrimoniali o morali doveva trovare soluzione inevitabilmente nell’art. 2043 c.c.

La vicenda più significativa ha riguardato la elaborazione del danno alla salute, in un primo tempo collocato sistematicamente fra i danni patrimoniali, poi tra i danni base o danni evento, poi ancora nel concetto di tertium genus di danno, poi infine fra i danni in re ipsa per i quali la patrimonialità o la non patrimonialità esprimerebbe una qualità ininfluente. Successivamente al danno alla salute, protagonista delle scene giuridiche è stato il c.d. danno esistenziale, quale figura autonoma di danno, indubbiamente scevro della caratteristica della patrimonialità, (ma, in senso contrario, si veda Trib. Milano, 21 ottobre 1999, in Resp. civ., 1999, p. 1335, con nota di Ziviz, Il danno esistenziale preso sul serio), che è stato immediatamente risarcito in applicazione dell’art. 2043 c.c. (cfr. Cass. 500/99).

La conclusione di questo processo ha portato ad attenuare il carattere della nozione di patrimonialità del danno nell’art. 2043 c.c., al punto che il concetto di danno, contenuto nella seconda parte della norma, da danno patrimoniale è diventato sinonimo di danno risarcibile.

Pertanto, il 2043 cod. civ., violentemente snaturato, ha perso altresì il doppio filtro selettivo su cui il danno aquiliano fondava la sua più intrinseca caratteristica: vale a dire il danno ingiusto e danno patrimoniale.

Ciò che ora la norma codicistica stà ad indicare è unicamente il danno “ingiusto e risarcibile”, concetto dagli evanescenti confini e, di certo, dallo scarso potere selettivo, dato che qualsiasi diritto inviolabile costituisce sempre una lesione ingiusta meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Anche la funzione del 2043 cod. civ. muta repentinamente, tradendo le sue origini storiche ed il suo significato preciso. Non più quella del risarcimento del danno, ritenuta compensativa della diminuzione di un patrimonio, bensì quella solidaristica e satisfattiva, data la ridotta importanza della patrimonialità dovuta all’invenzione di un danno aquiliano non patrimoniale, o, in alternativa, allo smisurato ampliamento della stessa nozione di patrimonialità (così Franzoni, Il danno esistenziale come sottospecie del danno alla persona, in Resp. civ., 2001, § 7).

Tutto ciò è accaduto per l’impossibilità, come detto, di ancorare il danno non patrimoniale, al contenuto dell’art. 2059, stante l’espressa previsione della riserva di legge in esso contenuto.

Pertanto, tutti i c.d. nuovi diritti, nati a seguito dell’interpretazione creativa dell’art. 2 della Cost. (diritti inviolabili dell’uomo), quali ad esempio il diritto ad una serena vita familiare, sessuale, lavorativa, il diritto alla vacanza, alla maternità, a non subire stress inutili, ecc., sono stati di fatto ritenuti risarcibili solo ed unicamente in applicazione dell’art. 2043 cod. civ.

La consolidata tradizione è stata rotta dalle cinque recentissime sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione (nn. 7281, 7282 e 7283 del 12 maggio 2003, e nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003) sul modo di interpretare il rinvio alla legge contenuto nell’art. 2059 cod. civ., nonché dalla seguente pronuncia della Corte Costituzionale (n. 233 dell’11 luglio 2003), interpretativa di rigetto, sulla legittimità di quest’ultimo.
In particolare, nelle motivazioni della Corte di Cassazione, è affermato che il rinvio alla legge operato dall’art. 2059 cod. civ. va inteso in modo estensivo, secondo un modello più ampio di quello previsto dall’art. 185 c.p., ragion per cui, quando siano lesi diritti inviolabili, riconducibili all’art. 2 cost., l’imperatività della norma costituzionale supera la mancata menzione di una espressa e testuale previsione di risarcimento del danno non patrimoniale.

Con questa premessa il danno non patrimoniale, sempre da comprendersi nell’ambito dell’art. 2059 c.c. assume, tuttavia, una ben distinta fisionomia rispetto a quella dell’art. 185 c.p.: il danno non patrimoniale (incluso nell’art. 2059 c.c.) si configura come una categoria distinta dal danno morale soggettivo o pretium doloris (combinato disposto art. 2059 cod. civ. e art. 185 c.p.).

Pur tuttavia, sono rimasti intoccati gli oneri probatori gravanti sul danneggiato. Quest’ultimo sarà comunque tenuto a fornir prova dell’esistenza del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’evento, essendo il solo danno morale, come già chiarito, risarcibile in re ipsa.

La mutata fisionomia del danno non patrimoniale coinvolge, com’è ovvio, anche le persone giuridiche, le quali, infatti, potranno ora lamentare la lesione di un proprio diritto non patrimoniale in virtù non più dell’art. 2043 cod. civ. bensì dell’art. 2059 cod. civ. onde ottenerne il relativo risarcimento dopo aver provato la presenza e l’entità delle lesioni stesse.

Infine, bisogna accennare a quali sono, concretamente, i danni non patrimoniali che la persona giuridica può lamentare.

In primo luogo, la violazione del diritto alla propria identità personale.
Il fondamento normativo del diritto all’identità personale è stato ravvisato dalla Corte Costituzionale nell’art. 2 Cost. che, per la sua valenza precettiva, è idoneo a fornire protezione ad ogni valore emergente della personalità umana, anche al fine di assicurare la tutela prevista dall’art. 3 Cost. del pieno sviluppo della persona umana (cfr. Corte Cost.. 3 febbraio 1994, n.13).

Diritto al l’identità morale, culturale, politica, storica, ideologica, sono, poi, i vari aspetti nei quali si estrinseca il diritto all’identità personale, che vengono salvaguardati nel nostro ordinamento giuridico attraverso gli strumenti della tutela inibitoria e risarcitoria previsti espressamente dalle norme in materia di diritto al nome e diritto all’immagine (cfr. Cass. 7 febbraio 1996, n.978).

Tuttavia, l’art. 2 della Cost., ha natura di “clausola aperta” e, pertanto consente una lettura certamente evolutiva delle norme contenute nel codice civile e nelle leggi speciali. Ciò significa che i vari aspetti del diritto all’identità personale (o anche detto diritto alla personalità), non devono essere considerati numerus clausus ma, al contrario, tale diritto è suscettibile di ricomprendere tutte le voci che nel corso del tempo verranno identificate e considerate attinenti alla valore “personalità”.

Fortemente connesso al diritto all’identità personale è, inoltre, il diritto all’immagine, che nella sua più ampia accezione è da intendersi come diritto a veder tutelata la propria immagine e, cioè, la propria identità personale, il proprio nome, la propria reputazione e la propria credibilità così come proiettate nel sociale.

Tali diritti ricevono tutela nel nostro ordinamento principalmente con riferimento alle persone fisiche.

Pur tuttavia non vi è ragion di ritenere che la tutela di cui si discute sia preclusa alle persone giuridiche.

Il codice civile, infatti, disciplina, nel primo libro, sia le persone fisiche (art. 1 e ss) sia le persone giuridiche (art. 11 e ss), come due species di un unico genus, cui vengono riferite le norme dei successivi libri, nei limiti della compatibilità. Ciò porta ad escludere l’applicabilità alle persone giuridiche unicamente di quelle norme che presuppongono una determinata condizione fisica del soggetto (quali, ad esempio, quelle relative al matrimonio, alla filiazione ed ai rapporti di diritto familiare in genere).

Pertanto, anche le persone giuridiche possono godere di quelle forme di protezione che discendono direttamente dal dettato costituzionale ed in modo particolare dalla previsione generale dell’art. 2 Cost. che tutela le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo.

Anche le persone giuridiche hanno diritto a veder tutelata la propria identità, immagine, reputazione, credibilità ecc.

Sul punto vi è un’ampia casistica giurisprudenziale.

Si ricordi, ad esempio, in tema di risarcimento del danno per irragionevole durata del processo, il riconoscimento operato dal S.C. (cfr. sent. 2 agosto 2002, n.11573, citata), in favore delle persone giuridiche, del diritto all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine e alla reputazione.

Ovvero, si ricordi il riconoscimento esplicito operato dalla Corte dei Conti (cfr. sentt. sez. giur. reg. Umbria, 29 novembre 2001, n.511 e 8 marzo 2000, n.107; sez. II giuridica centrale app. 6 novembre 2000, n.338/A) di un vero e proprio diritto all’immagine ed al prestigio della p.a., quale diritto fondamentale della persona giuridica pubblica, la cui lesione è suscettibile di una autonoma valutazione patrimoniale.

Infine, la giurisprudenza (cfr., ex pluribus: T. Milano, 28 gennaio 1993) è concorde nel ritenere le persone giuridiche titolari del diritto al nome di cui all’art. 7 cod. civ., il quale, espressamente dettato per le persone fisiche, è suscettibile di applicazione in via analogica anche in favore delle società.

Questi diritti, come ampiamente esposto nel corso della trattazione, sono da ricomprendersi nell’ambito dei diritti non patrimoniali (anche quando comportano effetti di tipo indirettamente patrimoniale) la cui lesione è ora risarcibile in applicazione del “nuovo” art. 2059 cod. civ., pur essendo oggetto di specifica prova da parte dell’istante in sede processuale.

Autore: Dott.ssa Sara Cimino - tratto dal sito: www.ergaomnes.net