Beni in comunione legale e successivo fallimento


Se un imprenditore individuale, in regime di comunione legale con il coniuge, destina dopo le nozze determinati beni all'esercizio dell'impresa, quali effetti giuridici potrà determinare su quei beni una successiva dichiarazione di fallimento?

Dispone l'art. 178 codice civile che i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio sono oggetto di comunione de residuo; quei beni infatti si considerano oggetto di comunione solo se sussistono al momento del suo scioglimento. Si tratta di una previsione per certi versi speculare a quella dell'art. 177 primo comma lett. d) codice civile, che individua quale oggetto di comunione immediata tra i coniugi le aziende costituite dopo le nozze, ma gestite da entrambi. Chiara è la ratio della previsione normativa: quando l'impresa è esercitata solo da un coniuge, si vuole assicurare a questi la disponibilità dei beni aziendali, di cui risponde personalmente; soluzione diversa si impone quando entrambi i coniugi svolgono attività d'impresa.

Si precisa in dottrina (Schlesinger, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, 136 ss.) che alcuni beni dovrebbero essere esclusi dalla comunione de residuo pure se utilizzati nell'esercizio d'impresa da parte di uno dei coniugi in comunione legale: così sicuramente quelli appartenenti a terzi, ma utilizzati dal coniuge imprenditore nel ciclo produttivo, ma pure quelli che già appartenevano ad entrambi i coniugi, nonché i beni "personali" di cui all'art. 179 codice civile. In definitiva i beni che cadono in comunione de residuo sarebbero oggetto di "acquisti" effettuati durante il matrimonio che entrerebbero, se non destinati all'esercizio di un'impresa, direttamente in comunione; ma ciò non accade proprio per permettere al coniuge imprenditore una gestione meno svincolata e più autonoma.

Si discute quando un bene possa ritenersi "destinato" all'esercizio di un'impresa del coniuge. In assenza di ogni indicazione normativa, la giurisprudenza ha escluso la necessità di una dichiarazione nell'atto d'acquisto, ritenendo sufficiente l'obiettiva destinazione funzionale (Cass. 29/11/1986, n. 7060, in Foro it. 1987, I, 810; Cass. 27/05/1997, n. 4533). L'esistenza di tale destinazione (trattandosi di un'eccezione alla regola generale dell'acquisto immediato alla comunione) dovrà essere valutata con il necessario rigore: essa sarà nettamente preminente su altri usi e verrà realizzata all'atto d'acquisto. Ove il coniuge utilizzasse nell'impresa un bene della comunione, questo non cesserebbe di essere comune. Al contrario, cessando la destinazione prima dello scioglimento della comunione, il bene sicuramente entrerebbe in comunione immediata.

Molto si è discusso, in dottrina, sulla natura del diritto del coniuge sui beni destinati all'impresa quando la comunione si scioglie (e si tratta di una problematica comune a tutte le forme di comunione de residuo). In particolare ci si è chiesti se tale diritto abbia natura reale (con conseguente contitolarità del cespite) ovvero di credito. Da un lato, si evidenzia una certa contradditorietà nell'acquisizione, sotto forma di contitolarità, di un complesso di beni proprio quando la comunione si scioglie e si allenta il vincolo di solidarietà tra coniugi; in tale contesto si ritiene che il coniuge avrebbe solo un diritto di credito da far valere nelle operazioni di divisione. (Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, Milano 1979, 190; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al codice civile, I,1,Torino 1983, 172; Schlesinger, op. cit., 120, il quale ammette peraltro la contitolarità per i mobili). D'altra parte, si afferma che allo scioglimento della comunione vi è l'esigenza di fornire idonea garanzia e adeguata provvista (in termini di contitolarità e non di credito) al coniuge dell'imprenditore, che ha indirettamente contribuito all'acquisizione di quei beni. (Finocchiaro, Diritto di famiglia, Milano 1984, 796). Tale seconda tesi è stata recepita dalla giurisprudenza di legittimità, ancorché con riferimento alla comunione de residuo dei proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi (art. 177 lett. c) codice civile); si è affermato infatti che "i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi entrano di pieno diritto a far parte della comunione immediata e, conseguentemente, entrano a far parte della comunione immediata gli acquisti compiuti dai coniugi utilizzando i proventi delle rispettive attività separate" (Cass. 23/09/1997, n. 9355, in Foro it. 1999, I, 1323). Ancora, si è precisato che fanno parte della comunione de residuo "tutti i redditi percetti e percipiendi rispetto ai quali il titolare dei redditi stessi non riesca a dare la prova che sono stati consumati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione" (Cass. 10/10/1996, n. 8865, in Fam. e dir. 1996, 515 con commento di Schlesinger).

Dopo aver delineato, in termini generali, il regime giuridico della comunione de residuo, è ora possibile analizzare specificatamente il caso proposto su cui si è pronunciata di recente la Suprema Corte (Cass. 09/03/2000, n. 2680, in Il fallimento 2001, 39 con commento di Caravaglios). Nel caso di specie, la moglie, dopo il fallimento del marito, conviene in giudizio la curatela per sentir accertare la propria contitolarità, in ragione di un mezzo, di un immobile che il marito aveva realizzato su terreno di sua proprietà e successivamente destinato ad attività d'impresa; deduce altresì che quel fabbricato sarebbe comunque ricaduto nella comunione de residuo, come bene aziendale, in virtù di una contitolarità immediata tra i coniugi. La Cassazione, confermando le decisione resa in sede di merito, respinge le domande. Non rileva qui la problematica inerente ai rapporti tra accessione ed acquisti in comunione a titolo originario, anche perché sul punto vi è ormai un orientamento costante, puntualmente ripreso dalla decisione cui si riferisce; occorre invece esaminare la relazione intercorrente tra la declaratoria di fallimento ed il regime giuridico dei beni destinati all'impresa del coniuge fallito, costituita dopo le nozze. Si è visto che la comunione de residuo è operativa per i beni che residuano nel momento in cui si scioglie la comunione legale tra i coniugi; tra le varie cause che determinano tale scioglimento ricorre la dichiarazione di fallimento di uno dei coniugi (art. 191 codice civile). Ma tale dichiarazione determina anche lo spossessamento del debitore ed il vincolo di tutti i suoi beni, in forza di una sorta di pignoramento generale, al soddisfacimento dei creditori. Si tratta di due effetti tra loro antitetici, per i quali occorre individuare un criterio di priorità temporale. Precisa al riguardo la Cassazione con la sentenza da ultimo richiamata che lo spossessamento del fallito, "seppur contestuale da un punto di vista cronologico all'effetto dello scioglimento della comunione, è tuttavia, da un punto di vista logico, antecedente poiché concorre a costituire la ratio legis dello scioglimento della comunione". Tale conclusione è articolata su una duplice motivazione:

a) i beni acquistati dal coniuge imprenditore, destinati all'esercizio dell'impresa, sono aggredibili per intero da parte dei creditori di quelli, prima dello scioglimento della comunione; pertanto, risulterebbe "irragionevole pensare che con la dichiarazione di fallimento la garanzia dei creditori possa dimezzarsi";
b) anche a prescindere dalla dichiarazione di fallimento, "lo stesso concetto di comunione de residuo non può avere riguardo ai beni destinati a confluirvi senza avere contemporaneamente riguardo alle passività che gravano su quei beni, anche solo in virtù della garanzia generica ex art. 2740 codice civile".

La Suprema Corte esclude dunque che, a fronte dello spossessamento del patrimonio del fallito, i beni destinati all'esercizio di un'impresa costituita da uno dei coniugi dopo le nozze possano cadere in comunione de residuo con il coniuge non imprenditore. Detta comunione potrà riguardare soltanto quei beni che dovessero risultare dopo la chiusura della procedura concorsuale. Tale conclusione prescinde dalla natura (reale o obbligatoria) del diritto del coniuge sui beni della comunione de residuo (argomento sul quale la pronuncia cui ci si riferisce non prende posizione).

Tratto dal sito: www.fallimento.ipsoa.it