Cassazione Civile, Sez. Lavoro
08/06/2009 n. 13171

 

Pres. SCIARELLI Guglielmo - Est. ROSELLI Federico - P.M. RIELLO Luigi - D.S.F. c. SAIPEM S.P.A.

 

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con ricorso del 27 dicembre 2002 al Tribunale di Milano D.S.F. e gli altri qui indicati i epigrafe, gjà dipendenti della s.p.a.

 

Saipem, convenivano in giudizio questa nonchè la s.p.a. Ghizzoni e chiedevano accertarsi la nullità dell'atto di trasferimento di un ramo d'azienda, al quale essi erano appartenuti, dall'una all'altra società, compiuto in data 27 novembre 2000; di conseguenza essi chiedevano anche la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro presso la Saipem.

 

Costituitesi le convenute, il Tribunale accoglieva le domande con decisione del 3 gennaio 2004, riformata integralmente con sentenza del 15 aprile 2005 dalla Corte d'appello, la quale riteneva che la mancanza di preventiva comunicazione alle rappresentanze sindacali della volontà di compiere il trasferimento comportava non la nullità di questo bensì soltanto l'eventuale azione collettiva L. 30 maggio 1970, n. 300, art. 28; in ogni caso la comunicazione era avvenuta.

 

La Corte d'appello escludeva altresì la nullità dell'atto di trasferimento per frode alla legge, ossia per inesistenza del ramo d'azienda e per dissimulazione della volontà di mutare il titolare dei rapporti di lavoro, vale a dire il datore, senza il consenso dei lavoratori, oppure di ridurre il personale eludendo le procedure di licenziamento collettivo, imposte dalla L. 23 luglio 1991, n. 223.

 

La reale esistenza del ramo d'azienda, denominato "Costruzioni terra Italia", risultava da una persuasiva consulenza tecnica di parte, nella quale veniva indicata l'attività del ramo, consistente nella progettazione, costruzione e posa di tubi di grande diametro, curata da novantadue dipendenti di diversa qualifica; un accordo per la mobilità del 1999 dimostrava la preesistenza di questo, sia pure in crisi produttiva. Che poi la cessione di esso costituisse un tentativo di superare la crisi economica dell'intera società cedente non escludeva la liceità della cessione.

 

L'appartenenza al ramo risultava infine dai curricula dei lavoratori attualmente appellati.

 

Contro questa sentenza ricorrono per Cassazione il D.S.F. e litisconsorzi mentre la s.p.a. Saipem resiste con controricorso.

 

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Col primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47 e dell'art. 331 c.p.c. osservando come alla s.p.a. Ghizzoni, cessionaria del ramo d'azienda e convenuta nel giudizio di primo grado, non sia stato notificato l'atto d'appello, malgrado la sua posizione di litisconsorte necessario: il mancato ordine giudiziale di integrazione del contraddittorio causerebbe la nullità della sentenza qui impugnata. Il motivo non è fondato.

 

Le Sezioni unite di questa Corte con la sentenza 22 ottobre 2002 n. 14897 hanno escluso il litisconsorzio necessario nelle ipotesi in cui il prestatore di lavoro, agendo in giudizio, affermi l'esistenza del rapporto con un datore di lavoro (nel caso attuale, la società cedente il ramo d'azienda) e neghi il rapporto con altra persona (nel caso attuale, la società cessionaria). In questi casi infatti il lavoratore non deduce in giudizio un rapporto plurisoggettivo nè una situazione di contitolarità ma tende ad un'utilità conseguibile rivolendosi ad una sola persona, ossia al datore vero. L'accertamento negativo dell'altro rapporto avviene senza efficacia di giudicato, mentre l'eventuale contrasto di giudicati è bilanciato dalle esigenze di economia e speditezza processuale, ostacolate dalla presenza di altra parte nel giudizio.

 

Col secondo motivo i ricorrenti denunciamo la violazione della L. n. 428 del 1990, art. 47 e dell'art. 2697 c.c., per avere la Corte d'appello ravvisato la comunicazione alle organizzazioni sindacali della cessione di ramo d'azienda; comunicazione in realtà mai avvenuta.

 

Il motivo è inammissibile per difetto di interesse.

 

La sentenza impugnata afferma l'irrilevanza della detta comunicazione ai fini della validità del negozio di cessione d'azienda, e la sua rilevanza soltanto quale condotta antisindacale, ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28. Con tale affermazione essa attribuisce natura interpretativa, e quindi efficacia retroattiva, alla L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 3, come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, art. 1, poichè i fatti di causa risalgono al 2000, e l'affermazione è plausibile poichè gli effetti della detta omissione di comunicazione erano controversi già prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 18 del 2001 (Cass. 4 gennaio 2000 n. 23).

 

Ciò stante, l'affermazione di avvenuta comunicazione è stata resa dalla Corte d'appello ad abundantiam, onde non sussiste ora l'interesse dei ricorrenti a contestarla.

 

Col terzo motivo essi, oltre ad insistere inutilmente sul suddetto difetto di comunicazione, deducono la violazione dell'art. 1325 c.c. e vizi di motivazione per assenza di causa nel negozio di cessione, ossia per inesistenza così del ramo d'azienda ceduto come dell'attività ad esso assegnata, per mancanza di commesse, e per ravvisabilità del motivo illecito, consistente nell'intenzione di ridurre il personale senza le procedure di garanzia imposte dalla L. n. 223 del 1991.

 

Col quarto motivo i medesimi lamentano la violazione dell'art. 2112 c.c. in relazione agli artt. 12, 14 e 71 c.c.n.l. 29 novembre 1994 per il settore energia delle aziende a partecipazione statale nonchè vizi di motivazione, per avere la Corte d'appello accertato l'esistenza del ramo d'azienda solo si(a base di una perizia di parte, mentre la realtà dimostrava la mancanza di beni organizzati per la produzione e dell'attività da svolgere con continuità ed infine per essere stati, prima della cessione, i lavoratori assegnati non già ad uno specifico ramo bensì ad attività generali dell'impresa.

 

Col quarto motivo i ricorrenti, invocando gli artt. 1325, 1343, 1344, 1345, 1346 c.c., e la L. n. 428 del 1990 e la L. n. 223 del 1991, insistono sul reale scopo perseguito dalla datrice di lavoro ossia sull'intenzione di eludere, attraverso la simulata cessione del ramo d'azienda, le garanzie assicurate dalla legge per il caso di riduzione del personale.

 

I tre motivi, da esaminare insieme perchè connessi, non sono fondati.

 

In materia di trasferimento di parte (c.d. ramo) di azienda tanto la normativa comunitaria (direttiva del Consiglio UE del 29 giugno 1998 n. 98/50 e poi 12 marzo 2001 n. 01/23) quanto la legislazione nazionale (art. 2112 c.c., comma 5, sostituito dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 32) perseguono il fine di evitare che il trasferimento si trasformi in semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro, in una pluralità di rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sul piano sia della solvibilità sia dell'attitudine a proseguire con continuità l'attività produttiva. A questo fine la citata direttiva del 1998 richiede che il ramo d'azienda oggetto del trasferimento costituisca un'entità economica con propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati per un'attività economica, essenziale o accessoria. Analogamente l'art. 2112 c.c., comma 5, cit. parla di "parte d'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata".

 

Il motivo del trasferimento, poi, ben può consistere nell'intento di superare uno stato di difficoltà economica.

 

La giurisprudenza esige così la ravvisabilità di un'entità economica organizzata in modo stabile e non destinata all'esecuzione di una sola opera (Corte giustizia UE 24 gennaio 2002 in causa 51/00), ovvero di un'organizzazione quale legame funzionale che renda le attività dei lavoratori interagenti e capaci di tradursi in beni o servizi determinati (Cass. 10 gennaio 2004 n. 206).

 

Nel caso di specie la sentenza impugnata, liberamente e legittimamente ritenendo attendibile una consulenza tecnica di parte, ha accertato l'esistenza, prima del trasferimento, di un ramo d'azienda denominato "Costruzioni terra Italia", destinato alla progettazione, fabbricazione e posa a terra di tubi di grande diametro, a cui erano assegnati tra gli altri i lavoratori attualmente ricorrenti.

 

Questo accertamento, non infirmato dal fatto che dette attività possano essere state ostacolate dalla crisi delle commesse, non è censurabile nel giudizio di legittimità, nel quale i ricorrenti inutilmente perseguono una rivalutazione dei fatti, anche attraverso l'inserzione nell'atto di impugnazione di fotocopie di documenti, la cui produzione è vietata dall'art. 372 c.p.c..

 

Col sesto motivo essi lamentano la violazione dell'art. 2112 c.c. cit. per mancato loro consenso al trasferimento del ramo d'azienda, ma il motivo è manifestamente infondato perchè la disposizione non richiede il consenso dei lavoratori, da non confondere col potere di opporsi in sede giudiziale, ciò che essi hanno fatto col presente processo (Cass. 5 marzo 2008 n. 5932).

 

Rigettato il ricorso, le travagliate vicende normative e giurisprudenziali, anche a livello comunitario, relative alla nozione di ramo d'azienda, giustificano la compensazione delle spese processuali.

 

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.