Corte di Cassazione
Sezione I° civile
Sentenza 25 maggio 2007 n. 12314

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il sig. Andrea R., coniugato con la sig.ra Renata D. e separatosene consensualmente con atto omologato il 26 aprile 1990, chiese, con ricorso al Tribunale di Brescia depositato il 14 febbraio 2001, pronunciarsi la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Nonostante l'opposizione della sig.ra D., che allegava esservi stata riconciliazione dei coniugi, i quali avevano ripreso a convivere dall'ottobre 1990 al dicembre 1991, il Tribunale accolse la domanda del ricorrente.

La Corte di appello di Brescia, con sentenza del 16 gennaio 2004, ha poi respinto, su conforme parere del pubblico ministero, il gravame della soccombente, osservando che ella non aveva provato la sua eccezione. Infatti la riconciliazione si verifica quando sia stata ricostituita la comunione materiale e spirituale tra i coniugi, ossia l'intero complesso dei rapporti che caratterizzano il vincolo matrimoniale, e quindi non solo dei rapporti concernenti l'aspetto materiale del matrimonio, ma anche di quelli che sono alla base della comunione spirituale; sicché l'appellante avrebbe dovuto dimostrare "qualcosa di più della coabitazione ripristinata con il marito", in quanto tale circostanza, pur essendo certamente significativa e rilevante, non è, tuttavia, di per sé sola decisiva, "occorrendo anche la dimostrazione del ripristinarsi dell'affectio tra i coniugi, della volontà di superare le pregresse ostilità e di affrontare in comune le difficoltà future". E tale prova non era stata fornita; anzi, considerato che i coniugi, anche dopo la ripresa della coabitazione, avevano continuato a frequentare amicizie diverse ed avevano dormito in camere separate - circostanze, queste, che poco si conciliano con la normalità della situazione familiare - vi era "persino il dubbio che i coniugi si siano limitati a ripristinare null'altro che la mera coabitazione".

Avverso tale sentenza ricorre la sig.ra D. per un solo, complesso motivo, cui resiste il sig. R. con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso denuncia violazione dell'art. 3, primo comma, n. 2, lett. b), della l. 1° dicembre 1970, n. 898 e vizio di motivazione. La ricorrente deduce che:

a) la durata della riconciliazione non può avere alcuna rilevanza, e nella specie essa si era protratta per oltre un anno;

b) durante tale periodo i coniugi avevano - anche significativamente - trascorso assieme periodi di vacanza, durante i quali avevano anche dormito assieme, come confermato dal figlio, e i giudici di merito non avevano dato il giusto peso a tale rilevantissima circostanza, preferendo dare maggior peso alla testimonianza de relato di un amico del sig. R., cui quest'ultimo avrebbe riferito che "le cose non andavano bene";

c) che non è provato che i coniugi avessero frequentato amici non comuni;

d) che il principio giuridico applicato dalla Corte di appello, secondo cui è necessaria, ai fini della configurabilità della riconciliazione, la ripresa della comunione anche spirituale tra i coniugi, va opportunamente precisato, evitando sia di pretendere, per la mera cessazione di una separazione già in atto (art. 3, primo comma, n. 2, lett. b), della l. n. 898 del 1970, cit.), più di quanto rientri nella fisiologia di matrimoni mai interrotti, sia che l'indagine del giudice, nella ricostruzione presuntiva dell'elemento psicologico della riconciliazione, sconfini indebitamente nella sfera intima delle persone e presupponga una vera e propria probatio diabolica;

e) che non rileva l'assenza di rapporti sessuali tra i coniugi, peraltro non provata.

Il ricorso è fondato sotto il profilo di cui alla lett. c).

Nella giurisprudenza di legittimità la riconciliazione è tradizionalmente definita come situazione di completo ed effettivo ripristino della convivenza coniugale, mediante la ripresa dei rapporti materiali e spirituali che caratterizzano il vincolo del matrimonio e sono alla base del consorzio familiare (a tale definizione si rifà la sentenza qui impugnata).

Tuttavia non si è mancato di evidenziare, in pronunce più recenti (cfr., in particolare, Cass. 12428/2001, in motivazione, ed ivi ulteriori riferimenti), che, nella qualificazione della fattispecie concreta, valore essenziale va attribuito "agli elementi esteriori oggettivamente ed inequivocabilmente diretti a dimostrare la seria e comune volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita, piuttosto che a quegli stati d'animo che, appartenendo alla sfera dei sentimenti, sono tanto più difficili da accertare in quanto permeati di soggettività"; onde si è ritenuto corretto "conferire rilievo centrale, ai fini del relativo accertamento, agli elementi di fatto ed alle iniziative concrete idonei a lumeggiare l'evento riconciliativo, alla loro durata, alla loro collocazione nel tempo, in sostanza alla loro oggettiva capacità di dimostrare la disponibilità dei coniugi alla ricostituzione del nucleo familiare, prescindendo da irrilevanti riserve mentali".

In tale quadro di riferimento, particolare rilievo è stato attribuito al ripristino della coabitazione, che, pur non integrando di per sé la vera e propria convivenza coniugale (potendo il vivere sotto lo stesso tetto non essere accompagnato da comportamenti volti ad una totale condivisione della vita familiare), tuttavia assume, anche in relazione alla sua durata, un forte valore presuntivo, per la sua idoneità a dimostrare la volontà dei coniugi di superare il precedente stato.

L'elemento oggettivo del ripristino della coabitazione tra i coniugi, quindi, è potenzialmente idoneo a fondare il positivo convincimento del giudice quanto all'avvenuta riconciliazione; con la conseguenza che spetterà al coniuge interessato a negarla dimostrare "che il nuovo assetto posto in essere, per accordi intercorsi tra le parti o per le modalità di svolgimento della vita familiare sotto lo stesso tetto, era tale da non integrare una ripresa della convivenza, e quindi da non configurarsi come evento riconciliativo" (Cass. 12428/2001, cit.).

A tale orientamento, che giustamente valorizza il dato oggettivo dei comportamenti dei coniugi (in armonia con il dettato dell'art. 157, primo comma, c.c., che appunto fa riferimento al "comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione"), questo Collegio intende dare continuità.

La Corte di appello, invece, discostandosi da esso ed evidentemente sopravvalutando aspetti legati alla sfera dei sentimenti piuttosto che all'oggettività dei comportamenti, ha doppiamente errato nel motivare il proprio convincimento contrario all'intervenuta riconciliazione: per un verso, pretendendo che l'appellante fornisse prove ulteriori della riconciliazione - segnatamente quanto al suo aspetto psicologico - già logicamente presumibile, salvo prova contraria, in base al dato oggettivo della ripresa della durevole coabitazione dei coniugi; per altro verso, ritenendo (peraltro in maniera perplessa, evocando, cioè, il semplice "dubbio") superata siffatta presunzione in base alle sole circostanze che i coniugi frequentassero amici diversi e dormissero in camere separate, significative, semmai, sul piano dei sentimenti, ma di per sé non incompatibili con la convivenza (nel senso sopra chiarito di coabitazione accompagnata da comportamenti volti alla totale condivisione della vita familiare) e, dunque, con l'interruzione della separazione (ovvero, appunto, con la riconciliazione).

Nell'accoglimento di tale censura restano assorbiti gli ulteriori rilievi della ricorrente.

La sentenza va pertanto cassata con rinvio, per un nuovo esame, al giudice indicato in dispositivo, il quale provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione.