Il principio generale di buona fede e la disciplina del contratto
Quanto segue è parte
della monografia di A. D'ANGELO "Il contratto in generale. La buona
fede", Torino, 2004; volume compreso nel Trattato di diritto
privato (editore Giappichelli)
1. Buona fede e disciplina dell'esecuzione del
contratto
Tra le norme del codice che, rispetto a differenti
fasi dei rapporti tra le parti e a diversi momenti della formazione del giudizio
di risoluzione delle controversie contrattuali, esprimono, o implicano, il
riferimento alla buona fede (correttezza) quale regola oggettiva, e criterio di
giudizio, è essenzialmente all'art. 1375 c.c. che deve volgersi un'indagine che,
senza estendersi alla rilevanza della stessa nelle trattative, nella formazione
del contratto e nella sua interpretazione, si incentri sull'attuazione e la
disciplina del rapporto.
Dall'enunciato dell'art. 1375 c.c. risulta
inequivocamente che la norma esprime un precetto circa la condotta dei
contraenti nella esecuzione del contratto. Ma larghi spazi di indefinizione
investono sia la protasi che l'apodosi: la generalità ed ampiezza del contenuto
della prima (nel suo riferimento all'esecuzione del contratto) non indica
fattispecie corrispondenti a situazioni e conflitti di interesse definiti;
mentre la seconda si esaurisce nel richiamo ad un valore, ad un principio
assiologico: la buona fede. È per ciò che il compito della dottrina e della
giurisprudenza rispetto all'art. 1375 c.c. si è rivelato, più che interpretativo
del suo enunciato, essenzialmente determinativo dei contenuti regolamentari e
dei parametri valutativi implicati dalla norma. Ed al riguardo si è imposta la
considerazione delle interferenze con più generali problematiche circa
l'articolazione dell'ordinamento, gli àmbiti di autonomia del giudice rispetto
alla legge ' che certe tipologie di formulazione degli enunciati normativi
possono esaltare ', circa i rischi di arbitrio e di incertezza che possono
derivarne e gli strumenti e i criteri di controllo della discrezionalità delle
decisioni giudiziarie.
L'applicazione del precetto di buona fede, e la
stessa definizione del suo contenuto, denunciano inoltre profili problematici di
interferenza con altre regole, di fonte legale e convenzionale, che attengono
anch'esse alla esecuzione del contratto.
La disciplina generale dei contratti, quella
dell'adempimento delle obbligazioni, quella dei diversi tipi legali dettano una
serie di regole che attengono, o sono applicabili, alla esecuzione dei rapporti
contrattuali. E al riguardo si pongono problemi di individuazione delle
relazioni tra esse e la buona fede; ciò non solo nel senso della identificazione
dei confini tra àmbiti regolamentari diversi, ma anche in quello della verifica
di rapporti di complementarietà ed integrazione. La stessa operatività nell'area
contrattuale di precetti dettati dalla legge con più generale riferimento
all'agire umano suscita problemi relativi non solo, ancora una volta, alla
definizione dei confini e delle relazioni di concorrenza tra regole, ma anche
alla verifica di rapporti di ausiliarietà tra le medesime, essendo anche stata
prospettata la funzione della buona fede di veicolo per l'applicazione ai
contratti di più generali valori espressi dall'ordinamento (si pensi al rapporto
tra la buona fede e il principio di solidarietà enunciato dall'art. 2
Cost.).
Particolarmente critica appare la relazione tra la
regola di buona fede e il regime stabilito dagli stessi contraenti nella
convenzione. Si tratta infatti di definire i termini di compatibilità tra il
rispetto dell'autonomia contrattuale, la salvaguardia delle aspettative di
ciascuna delle parti all'attuazione del programma negoziale dalle stesse
definito, da un lato, e, dall'altro, l'intervento regolamentare del giudice
fondato sulla buona fede, il quale, a ragione degli ampi spazi di indefinizione
lasciati dal precetto legale, pare destinato ad assolvere una funzione
genuinamente determinativa; si tratta quindi di indagare circa la compatibilità
tra le regole convenzionali e quelle costruibili dal giudice alla stregua della
buona fede.
La prescrizione della conformità a buona fede
della condotta delle parti nella esecuzione del contratto determina, dunque, una
singolare articolazione e interferenza tra regole, e tra ruoli di
regolamentazione, appartenenti ad ordini differenti: legale, convenzionale,
giudiziario. E, nella formulazione del giudizio individuale pratico, la
decisione dei casi alla stregua della buona fede contrattuale rivela connessioni
con temi pur non programmaticamente inerenti all'àmbito della presente indagine:
la considerazione di circostanze e condotte della fase precontrattuale e
formativa, la valutazione ermeneutica dei contenuti pattizi. È nella
identificazione e comprensione di queste relazioni e interferenze che potranno
trovarsi non soltanto le soluzioni dei problemi di concorrenza tra fonti
regolamentari diverse, ma anche i criteri di orientamento dell'intervento del
giudice, che, alla stregua della pura e semplice considerazione del precetto
enunciato dall'art. 1375 c.c., e a ragione della indeterminatezza dei suoi
contenuti, potrebbe apparire incontrollato e arbitrario.
Il significato del riferimento della norma alla
esecuzione del contratto non sembra però circoscrivere il precetto alla
disciplina dell'adempimento. Nella fase esecutiva possono manifestarsi conflitti
di interesse tra i contraenti che non concernono l'attuazione delle prestazioni
e che la buona fede può contribuire a risolvere. In tal senso l'esecuzione del
contratto è la fase dei rapporti nella quale la regola è destinata ad operare
piuttosto che il criterio di delimitazione della materia regolata. Si vedrà
peraltro come il riferimento alla esecuzione abbia suscitato dubbi di
compatibilità con esso della prospettata funzione della buona fede di fonte
integratrice del regolamento contrattuale, e come esso sembri segnare la
separazione di campo tra la clausola generale e le regole di validità del
contratto.
2. Inattendibilità delle definizioni di buona
fede
I caratteri di indeterminatezza degli elementi
dell'enunciato dell'art. 1375 c.c. e le connesse peculiarità del precetto, anche
riguardo alla sua relazione con altre norme e con il ruolo del giudice, danno
ragione della vanità degli sforzi di pervenire ad una definizione della buona
fede e ne revocano in dubbio la stessa legittimità.
Dalla complessiva considerazione della dottrina e
della giurisprudenza non si desume una nozione univoca di buona fede, né è dato
rinvenire una determinazione comunemente accettata dei contenuti della regola
che essa esprime.
Molto spesso gli intenti definitori si risolvono
nella indicazione di sinonimi o di perifrasi che non descrivono la nozione più
di quanto non faccia il puro e semplice impiego della formula «buona fede» e
che, comunque, non sembrano poterne esaurire le valenze (pur se da alcuni di
essi possono trarsi, come si dirà, alcune utili indicazioni circa i criteri di
applicazione della regola): «correttezza e lealtà»; «rispetto della parola
data», «protezione degli affidamenti suscitati»; «fedeltà ad un accordo
concluso» e «impegno all'adempimento delle altrui aspettative»; «solidarietà»;
«onestà»; «cooperazione» e «linearità di comportamento»; «rispetto della
personalità e della dignità altrui».
Con particolare riguardo al riferimento alla
correttezza, esso manifesta un'analoga indefinizione e non pare idoneo a
rappresentare il significato di buona fede, essendo ormai prevalente in dottrina
l'affermazione della sostanziale identità di contenuto e di àmbito di
operatività delle due formule e delle regole che ad esse
corrispondono.
Quanto all'identificazione di un divieto '
implicato dal dovere di correttezza e buona fede ' di «comportamenti vessatori
ed ostruzionistici», essa sembra enucleare uno dei criteri alla stregua dei
quali valutare la conformità a buona fede di determinate condotte tenute nella
esecuzione del contratto, ma non pare possa trarsene una definizione esaustiva e
generalizzabile.
Nella giurisprudenza un certo abuso della
definizione per sinonimi conduce a volte al richiamo contestuale di nozioni tra
loro non omogenee o non compatibili: «diligenza» e «solidarietà», «diligenza e
correttezza».
Né risultano più esaurienti, ai fini della
definizione della nozione e della determinazione del suo contenuto, i tentativi
di classificazione della buona fede nelle diverse categorie di doveri o di
regole: così tra le regole di pura opinione, tra quelle della coscienza
etico-sociale, o del costume.
A ben vedere, la mera enunciazione di un principio
assiologico scevra dal riferimento del valore affermato a definite situazioni di
contatto sociale, a determinati interessi, individuali o collettivi, non esprime
alcuna direttiva esauriente da cui possano attendibilmente trarsi regole di
condotta. Essa infatti cela, sotto una formula prescrittiva, una proposizione
tautologica; si pensi alla più generale e comprensiva tra le espressioni cui si
è ricorsi per rappresentare la nozione di buona fede: l'onestà; prescrivere che
i contraenti debbano tenere un contegno onesto equivale a dire che la loro
condotta deve essere «retta», deve uniformarsi al perseguimento ed alla
realizzazione del bene e, quindi, che essi «devono operare come si deve». La
stessa formulazione di principî e regole mediante espressioni che designano
virtù (onestà, probità, lealtà) rivela la circolarità delle proposizioni
prescrittive che in tale enunciazione si esauriscono: stabilire che la condotta
deve essere conforme a virtù equivale a decretare che occorre bene operare. Per
poter desumere da formule siffatte regole definite e la soluzione di concreti
conflitti di interesse si deve allora necessariamente ricorrere ad operazioni
determinative che non possono trovare la loro fonte e i loro criteri nella pura
e semplice definizione del valore enunciato in quei precetti e in un
inattendibile sforzo esegetico.
Di fronte alla difficoltà di enucleare una nozione
di buona fede sufficientemente determinata nei suoi contenuti e nei suoi confini
si profila una «diffusa convinzione circa una sorta di ineffabilità della buona
fede». È significativo in tal senso che un'autorevole voce dottrinale, assai
aperta al riconoscimento di ampi spazi di operatività alla correttezza-buona
fede, affermi la «impossibilità di una definizione precisa ed aprioristica del
contenuto normativo delle regole della correttezza e della buona fede», mentre
da altri si riconosce come siano «irrisolvibili» i «problemi di definizione del
contenuto» della stessa, o si sottolinea l'impossibilità di ridurre la buona
fede e, in genere, le clausole generali, «in concetti definiti una volta per
tutte». Ed il riferimento delle clausole generali a «valori», intesi quali
«oggettività ideali», «archetipi» dà ragione di tale impossibilità.
Non stupisce dunque che siano sorte in vario tempo
riserve sull'impiego della buona fede, motivate a ragione della «vaghezza» del
concetto, e che si sia giunti a vedere nella regola una «norma in bianco» e a
negare che la formula abbia nel diritto italiano «assunto un contenuto
determinato», dubitandosi della possibilità di stabilire «un sicuro significato
di buona fede». La diffusa consapevolezza della difficoltà di definirne e di
trarne criteri determinati ed univoci di soluzione dei conflitti ha perpetuato
le risalenti diffidenze e resistenze, di matrice giuspositivista, verso la
regola. E tali difficoltà hanno suffragato i timori di un intervento arbitrario
del giudice sui contratti che possa sovvertire gli assetti negoziali
volontariamente stabiliti dai privati.
La consapevolezza della necessità di operazioni
determinative che trovino la loro fonte e i loro criteri al di fuori della pura
e semplice evocazione o definizione del valore di buona fede conferma l'esigenza
di volgere la ricerca alla identificazione delle relazioni tra quel valore e la
trama di regole legali e convenzionali che interferiscono con la disciplina del
contratto e della sua esecuzione, e dei rapporti tra ruoli di regolamentazione
appartenenti a differenti ordini: legale, convenzionale, giudiziario. E, in tal
senso, la problematica della buona fede rivela la sua afferenza a quella delle
clausole generali.
3. Buona fede e clausole generali
I profili problematici che emergono già da una
prima considerazione della formulazione dell'art. 1375 e della difficoltà, ed
anzi della impossibilità, di definizione della nozione di buona fede
corrispondono a quelli che denunciano tutte le clausole generali; in consonanza
con l'ormai comune riconoscimento che la norma enuncia, appunto, una clausola
generale. Mentre il riferimento alla buona fede come principio generale, se
implica una problematica di vasta portata e rilevanza, in relazione alla sua
operatività al di fuori dell'area dei contratti e delle obbligazioni,
nell'àmbito di questa, invece, quale che sia il significato di principio
generale che voglia adottarsi, non pare assumere alcun rilievo, essendo ogni
problema di disciplina dei rapporti alla stregua della correttezza assorbito
dall'operatività della clausola generale, in virtù del disposto degli artt. 1175
e 1375 c.c.
Tra le diverse specie di indeterminatezza di
formule normative si suole distinguere la clausola generale per alcuni caratteri
che, secondo una sintesi necessariamente semplificata e conforme ai consolidati
orientamenti della dottrina, possono così riassumersi: la mancanza nella formula
normativa della indicazione di una «fattispecie analitica», l'inserimento in un
àmbito delineato da altre disposizioni, il riferimento del precetto a «valori»,
l'attribuzione al giudice di un compito determinativo di regole concrete. Se la
stessa funzione di applicazione di norme formulate con la tipica struttura
condizionale a fattispecie analitica non esclude àmbiti di determinazione
rimessi al giudice, il ruolo determinativo riservato a quest'ultimo rispetto
alle clausole generali è reso molto ampio e peculiarmente autonomo dalla
indefinizione della fattispecie, e dello stesso precetto a ragione del suo
riferimento a valori. E il fondamento di tale ruolo risiede nella stessa
peculiarità del programma normativo che si esprime nelle clausole generali, le
quali sono specificamente volte ad instaurare quella «articolazione
dell'ordinamento» che consiste nella ripartizione di competenze normative tra
legge e giudice.
L'autonomia del ruolo determinativo del giudice '
sia riguardo all'apprezzamento del fatto, svincolato dal procedimento di
sussunzione in una fatti-specie legale data, sia riguardo alla attuazione del
valore enunciato dal precetto ' assicura i vantaggi di elasticità e duttilità
che corrispondono alla struttura del programma normativo proprio delle clausole
generali. Ma a questi fanno riscontro correlati rischi: di arbitrio e di
incontrollabilità delle decisioni, di precarietà delle previsioni degli esiti
giudiziari.
Entrambi gli aspetti, invero tra loro
inscindibili, sono consapevolmente riscontrati tanto dai fautori che dai
contestatori dell'opportunità del ricorso a tecniche legislative che valorizzano
il ruolo determinativo del giudice. L'affermazione delle clausole generali nel
nostro ordinamento (e in quello comunitario), sia sul piano dell'evoluzione
legislativa che su quello degli orientamenti giurisprudenziali, non ha rimosso
l'attenzione per i rischi connessi alla loro applicazione; e si continua ad
avvertire che l'autonomia che esse riservano al giudice non apre, non deve
aprire, «uno spazio incontrollato di libere scelte».
Ma se l'attività determinativa del giudice fosse
affidata alla pura e semplice ricognizione dei valori nei modelli offerti dalla
«coscienza sociale», il controllo delle sue scelte si esaurirebbe in un puro e
semplice confronto di opinioni sottratto all'operatività di qualsivoglia tecnica
propriamente giuridica; e non potrebbe scongiurarsi il pericolo di un'autentica
giurisdizione equitativa, che sembra a volte tentare i giudici chiamati ad
applicare clausole generali.
Certo non può vagheggiarsi un controllo
dell'applicazione delle clausole generali che sia affidato a procedimenti logici
sostanzialmente corrispondenti a quelli propri dell'applicazione di norme
formulate secondo la struttura condizionale e mediante la definizione di
fattispecie analitiche. Così, deve rifuggirsi dalla tentazione di costruire una
definizione dei contenuti della clausola generale, surrogando la mancata
enunciazione normativa di fattispecie analitiche e di precetti definiti, per poi
dedurne, secondo lo schema sillogistico, la soluzione dei concreti conflitti di
interessi; e in tal senso si comprendono i constatati insuccessi degli sforzi
definitori della buona fede. Né può ammettersi la riduzione del contenuto delle
clausole generali al mero rinvio ad altre norme dell'ordinamento,
circoscrivendosi l'àmbito delle prime alla protezione di posizioni giuridiche
che le seconde già assicurano, secondo un atteggiamento sostanzialmente
sterilizzatore manifestato da un risalente ' e persistente, seppur minoritario '
orientamento giurisprudenziale svalutativo della buona fede. Siffatti tentativi
di controllo della discrezionalità del giudice nella attuazione delle clausole
generali non rispettano infatti le loro peculiari proprietà normative, le negano
e le svuotano, anziché offrire soluzioni per scongiurare il rischio che il loro
uso si risolva in una arbitraria giurisprudenza equitativa.
Se si riconosce che il problema delle clausole
generali è essenzialmente di controllo del loro uso, e dell'esercizio del ruolo
determinativo che esse conferiscono al giudice, la soluzione non può consistere
nell'adozione di tecniche volte a sopprimere, anziché a controllare, tale
funzione.
Al riguardo si è affermata l'esigenza di una
verifica di «concordanza con i valori riconosciuti dall'ordinamento giuridico».
Il rilievo che le clausole generali operano nel quadro di altre disposizioni di
legge, integrandosi in un contesto normativo che regolamenta un dato settore di
rapporti, induce a ritenere che la stessa funzione determinativa del giudice non
possa prescindere dal rispetto della coerenza con tale contesto della decisione
e del suo fondamento. In tal senso, la considerazione del contenuto di altre
norme, la stessa opera costruttiva della dottrina e indicazioni complessive
d'ordine sistematico, devono orientare la decisione del giudice e costituiscono
criteri di controllo della medesima.
Si tende però anche a proporre che la ricerca da
parte del giudice di elementi alla stregua dei quali esercitare il suo potere
determinativo venga orientata verso il contesto sociale, piuttosto che verso
quello normativo; e ciò nel senso della ricognizione dei valori da attuare e
delle figure sintomatiche degli stessi rinvenibili nella esperienza sociale e
nella stessa casistica giudiziaria.
La clausola generale, si è detto, costituisce lo
strumento di un programma normativo che si articola in una ripartizione di
competenze regolamentari tra legge e giudice; il potere determinativo del
secondo trova quindi nella prima non solo il proprio fondamento, ma anche
criteri e limiti al suo esercizio, il quale, oltre l'àmbito che gli è
programmaticamente riservato, deve essere compatibile e coerente con
l'ordinamento. Se la prospettiva orientata verso il contesto normativo consente
l'individuazione di criteri di esercizio del potere determinativo, e di tecniche
di controllo del medesimo, propriamente giuridici, pur rispettosi del ruolo del
giudice implicato dalle clausole generali, quella orientata verso l'esperienza
sociale sembra sottrarre l'opinione del singolo giudice a controllabili criteri
di giudizio. È per ciò che l'esigenza di scongiurare i rischi di arbitrio e di
imprevedibilità delle decisioni giudiziarie suggerisce di privilegiare la prima
prospettiva rispetto alla seconda, anche se non ci si può nascondere che lo
stesso controllo di concordanza con l'ordinamento, se correttamente esplicato
nel rispetto delle proprietà delle clausole generali, lascia al giudice un non
esiguo àmbito di discrezionalità valutativa, che può essere peraltro temperato e
organizzato nella formazione di orientamenti che, a loro volta, assumono una
portata specificamente giuridica nel momento in cui essi si risolvono in
ragioni, e criteri di controllo, della giustificazione motivazionale delle
decisioni. Quella discrezionalità non attiene certo ad un foro interiore,
ermeticamente separato dalla realtà sociale. In quest'ultima il giudice dovrà
ricercare dati che potranno in vario modo assumere rilevanza nella formazione
del giudizio; ad esempio al fine di valutazioni di normalità di condotte dei
contraenti. Certo, in questo senso, la stessa focalizzazione dei criteri di
giudizio può volgersi alla considerazione di orientamenti mutuati
dall'esperienza della realtà sociale, ma il giudice dovrà sottoporli ad un
filtro di compatibilità con le direttive dell'ordinamento, onde rispettare la
lealtà verso quest'ultimo che il programma normativo proprio delle clausole
generali, e il suo stesso ruolo, gli impongono. La delega di potere normativo
non può essere tradita con il sovvertimento delle direttive espresse da
disposizioni di legge, anche diverse da quella sulla quale tale delega si
fonda.
Le indicazioni che si traggono dal contesto
normativo, anche in virtù dell'opera costruttiva della dottrina, la messa a
punto da parte della giurisprudenza di «figure sintomatiche», la stessa
manifestazione nelle sentenze del fondamento valutativo e del procedimento
logico seguito, consentono la elaborazione di criteri orientativi e la
formazione di tendenze, contribuendo a rendere l'esercizio del potere
determinativo del giudice suscettibile di un controllo logico-giuridico e meno
incline all'arbitrio equitativo.
Si deve però fin d'ora segnalare come la buona
fede contrattuale riveli, rispetto a queste tematiche, una propria specificità.
Da un lato, infatti, il controllo di concordanza con l'ordinamento interferisce
con un materiale normativo molto ricco, convergendo sul terreno della esecuzione
del contratto la disciplina generale dei contratti, quella dell'adempimento
delle obbligazioni, quella dei singoli tipi contrattuali legali; dall'altro, il
ruolo determinativo del giudice deve confrontarsi, oltre che con il contesto
legale, con il piano dell'autonomia privata. Se tali profili denunciano una
peculiare criticità, offrono anche materia per un solido fondamento alla
elaborazione di criteri di orientamento degli apprezzamenti e delle decisioni
dei giudici.