Attività degli amministratori dopo l'accertamento della causa di scioglimento della società e responsabilità nei confronti dei terzi

 
 

Operazioni vietate

Il limite all'attività dell'amministratore al verificarsi di condizioni aziendali che determinano lo scioglimento della società è disposto dall'art. 2486 c.c.

Agli effetti dell'articolo citato - che vieta agli amministratori della società il compimento di determinate operazioni dopo il verificarsi di un fatto che determina lo scioglimento della stessa - vanno qualificati come nuove operazioni tutti quei rapporti giuridici che, svincolati dalle necessità inerenti alla liquidazione delle attività sociali, siano costituiti dagli amministratori, con assunzione di nuovi vincoli per la società (Cass. civ., 28 gennaio 1995, n. 1035, in Cod. e leggi d'It., cd-rom, 4/2002, parte I) per il conseguimento di un utile sociale e per finalità diverse da quelle della liquidazione della società (Cass. civ., 19 settembre 1995, n. 9887, in Soc, 1996, 282).

Deve cioè essere ritenuta «nuova» ogni operazione che si ponga in termini di incompatibilità con il mutato scopo sociale, cioè tutte quelle operazioni comportanti l'avvio di azioni speculative, l'assunzione di rischi nuovi, suscettibili di compromettere il diritto dei creditori e degli stessi soci, non già quelle che si inseriscono nella continuazione dell'impresa finalizzate alla realizzazione più conveniente dei beni della medesima e alla estinzione dei rapporti pendenti. Sono quindi giudicate precluse agli amministratori tutte quelle attività non finalizzate alla liquidazione della società, mentre non devono considerasi nuove le attività economiche connesse a precedenti operazioni in corso e che ne costituiscono il necessario sviluppo, le attività economiche destinate alla conservazione del patrimonio sociale e le operazioni dirette a preparare, attuare o rendere più proficua la liquidazione.

Attività consentita

Gli amministratori perciò possono (e nel contempo devono) compiere gli atti strettamente necessari alla conservazione del patrimonio esistente al momento in cui si verifica una causa di scioglimento. Devono inoltre dare esecuzione ai contratti in corso. L'improvvisa interruzione di ogni attività potrebbe infatti pregiudicare la conservazione dell'integrità del patrimonio provocando la perdita dell'avviamento.

Le operazioni consentite, che continuano a costituire un dovere degli amministratori, sono, per esempio, quelle che riguardano l'esecuzione dei contratti in corso e delle cause in corso, nonché gli adempimenti societari e fiscali e gli interventi urgenti necessari alla salvaguardia dei beni sociali:

Responsabilità degli amministratori

Gli amministratori assumono, per gli affari intrapresi al di fuori dei limiti consentiti, una responsabilità illimitata e solidale, sia nei confronti dei terzi che nei confronti della società per i danni provocati dall'attività compiuta. Dalla eventuale responsabilità risarcitoria non sono esclusi i sindaci, se si prova che non hanno vigilato con la diligenza richiesta dal loro mandato.

La responsabilità gravante sugli amministratori per la violazione degli obblighi di cui all'art. 2486 c.c. - correlata alla loro conoscenza dell'avveramento di una causa di scioglimento, da considerarsi peraltro iuris tantum presunta, in considerazione del loro ufficio - riguarda l'eventuale danno che ne sia conseguito, costituito dalla diminuzione del patrimonio sociale.

Responsabilità verso i terzi

La responsabilità diretta degli amministratori verso i terzi per violazione del divieto di operazioni diverse da quelle dirette alla conservazione del patrimonio sociale, posto dall'art. 2486 c.c., sussiste indipendentemente dalla circostanza che la causa di scioglimento sia opponibile ai terzi, in conseguenza del compimento delle formalità pubblicitarie ovvero sia dagli stessi conosciuta.

La disposizione dell'art. 2484 c.c. - nella quale è ravvisabile la conferma dell'operatività di diritto delle cause di scioglimento della società il cui effetto si produce appena esse sono dichiarate e depositate nell'ufficio del registro delle imprese indipendentemente dalla conseguente formale messa in liquidazione - esprime sul piano normativo la coerente conseguenza del fatto che, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato, quale era in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale, onde gli amministratori non possono più utilizzarlo a tal fine, ma sono abilitati a compiere soltanto gli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando ad essi inibito il compimento di nuovi atti di impresa suscettibili di porre a rischio, da un lato, il diritto dei creditori della società a trovare soddisfacimento sul patrimonio sociale, e, dall'altro, il diritto dei soci a una quota, proporzionale alla partecipazione societaria di ciascuno, del residuo attivo della liquidazione. La responsabilità degli amministratori, che l'art. 2486 c.c. fa discendere della violazione del divieto in questione, assume due aspetti, rispettivamente verso la società e verso i terzi. Sotto il primo profilo è sufficiente constatare che l'obbligo di contenuto proibitivo posto dall'art. 2486 c.c. rientra tra quelli, genericamente indicati come derivanti dalla legge o dall'atto costitutivo, la cui inosservanza costituisce fonte di responsabilità di natura contrattuale, in relazione al peculiare rapporto di origine negoziale che intercorre tra amministratore e la società da lui rappresentata e che si definisce appunto come «rapporto di amministrazione»; responsabilità da valutarsi in concreto alla stregua del parametro della diligenza professionale specifica. Sotto il secondo profilo, la configurazione di una responsabilità diretta degli amministratori verso i terzi emerge sia dal tenore della norma nella quale si parla di responsabilità non per la violazione del divieto ma per le operazioni poste in essere in violazione del divieto, sia dal rilievo che se la responsabilità operasse solo verso la società e non anche verso i terzi non avrebbe senso che essa venisse qualificata come illimitata e solidale, sia infine da altri dati di interpretazione sistematica desumibili dal raffronto con la disciplina delle società di persone (artt. 2274 e 2279 c.c.) e dalla constatazione della simmetria che caratterizza l'ipotesi in argomento rispetto a quella delle obbligazioni assunte nel periodo anteriore alla iscrizione della società (art. 2331 2° comma c.c.); restando così irrilevante l'opponibilità o meno ai terzi della causa di scioglimento. E ciò a definitiva confutazione dell'opinione talora prospettata secondo cui la responsabilità verso i terzi sussisterebbe solo se ed in quanto la causa di scioglimento sia ad essi opponibile (in virtù della iscrizione nel registro delle imprese), restando altrimenti obbligata la sola società, contro la quale opinione è agevole rilevare, tra l'altro, che essa condurrebbe a far dipendere proprio da un comportamento ulteriore degli amministratori l'insorgenza o meno della responsabilità a loro carico. Conviene sottolineare, ancora, che il divieto in questione non rappresenta la proiezione di una incapacità negoziale che colpisca la società di guisa che la responsabilità degli amministratori si ponga in rapporto di alternatività con la responsabilità della società stessa, con la duplice conseguenza che la responsabilità degli amministratori al suddetto titolo dovrebbe essere esclusa ogniqualvolta la società possa essere chiamata direttamente, in proprio, a rispondere degli effetti obbligatori di atti posti in essere validamente dagli amministratori come tali e per essa impegnativi: per contro, devesi ritenere che al divieto, espressione di una limitazione posta dalla legge ai poteri degli amministratori ma non anche - in se stesso - di una compressione della capacità negoziale della società, sia correlata una responsabilità degli amministratori concorrente con quella della società, salva restando, per quest'ultima, la rilevanza del compimento delle formalità pubblicitarie o della conoscenza di fatto.

Per quanto riguarda poi la natura della responsabilità degli amministratori verso terzi derivante dall'art. 2486 c.c., si può opportunamente osservare che la violazione del divieto di operazioni non consentite costituisce a carico degli amministratori una fattispecie tipica di obbligazioni che, pur avendo natura extracontrattuale, non può perciò solo essere ricondotta nello schema generale dell'art. 2043 c.c., in quanto nel compimento di dette operazioni gli amministratori non agiscono in proprio ma pur sempre in qualità di organi investiti della rappresentanza della società. Il buon fondamento della qualificazione in termini di responsabilità extracontrattuale trova adeguata giustificazione nella considerazione della inesistenza, tra gli amministratori e i terzi, di un rapporto diretto negoziale del tipo di quello che intercorre, invece, tra gli amministratori e la società.

Determinazione del danno

In presenza di una causa di scioglimento della società, gli amministratori possono intraprendere soltanto operazioni dirette al fine della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale. La violazione del divieto di intraprendere operazioni diverse da quelle consentite rende responsabili gli amministratori illimitatamente e solidalmente degli eventuali danni prodotti a terzi.

Il nesso di causalità tra danno e inadempimento è direttamente ricavabile dalle conseguenze dell'evento: l'aggravamento della condizione economica della società per l'attore socio, la perdite del credito per l'attore terzo creditore.

Quando il danno non può essere oggettivamente determinato nel suo ammontare, la legge prevede il ricorso all'equo apprezzamento del giudice, ma non sempre il giudice può acquisire elementi sufficienti a stabilire l'interconnessione esistente tra cause e danno e a parametrare gli effetti, a volte variamente compensativi, di comportamenti non univocamente produttori di solo danno, ma suscettibili di influenzare il risultato netto, da una parte in senso negativo e dall'altra in senso positivo, tanto che il comportamento alternativo avrebbe potuto rimuovere l'aspetto pregiudizievole dell'operazione, ma non senza annullare anche i connessi risvolti vantaggiosi.

L'applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, per cui il danno deve essere quantificato dopo aver operato la compensazione con gli eventuali benefici che siano derivati, direttamente o indirettamente, dall'azione degli amministratori trova applicazione quando i benefici sono correlati alla stessa operazione che ha procurato il danno. Così, ad esempio, se, nell'ipotesi di prosecuzione indebita dell'attività sociale nei casi in cui avrebbe dovuto essere pronunciata la cessazione della società, siano derivati danni, costituiti dall'aggravamento del dissesto, dalla valutazione del danno devono essere dedotti gli eventuali profitti che il prolungamento dell'attività ha prodotto. Il danno inoltre non deve essere determinato nella misura della riduzione in valore assoluto del patrimonio sociale, ma devono essere individuate le componenti direttamente addebitabili al comportamento riprovevole dell'amministratore.

Per poter addebitare agli amministratori l'intero deficit patrimoniale della società, in assenza di una norma che lo consenta o che estenda il fallimento anche alle persone degli amministratori medesimi, occorrerebbe fosse dimostrato che la formazione di detto deficit è conseguenza diretta degli atti illegittimi degli organi sociali. Se è vero che il risarcimento del danno presuppone la prova dell'esistenza di un nesso causale tra il danno stesso e l'atto illecito generatore di responsabilità, non si vede come dalla suindicata dimostrazione possa prescindersi. Né certo potrebbe sostenersi che, in questo caso, il nesso di causalità sia da presumere: nessuna norma, invero, autorizza a tanto, e neppure la logica lo consente, non solo perché, al contrario, è ragionevole supporre che il risultato finale dell'attività di un'impresa sia sempre frutto di scelte gestionali, non censurabili sul piano della legittimità, ma anche perché - con specifico riguardo all'ipotesi delle operazioni compiute dopo scioglimento della società per perdite - già il fatto che il capitale sociale fosse perduto (in tutto o in parte) prima del compimento di dette operazioni non esclude l'elevata probabilità che lo sbilancio accertato poi in sede fallimentare derivi, almeno parzialmente, da cause pregresse» (Rordorf, Il risarcimento del danno nell'azione di responsabilità contro gli amministratori, in Amm.e fin. 5/1993, 622).

Ingiustificata appare quindi l'adozione di parametri di normalità , inidonei a fornire risposte applicabili sul piano dell'equità, tenendo conto che la decisione deve ripristinare interessi offesi, non pregiudicarne altri, neppure a titolo di punizione.

Sembra in ogni caso arbitrario imputare la riduzione del patrimonio netto unicamente alle nuove operazioni compiute. Devono infatti essere estrapolate le sole cause di danno risarcibile che sono soltanto quelle direttamente imputabili all'illecito proseguimento dell'attività.

La riduzione complessiva del patrimonio netto dovrebbe essere depurata delle rettifiche naturali - non imputabili agli amministratori - che si sarebbero rese necessarie, per effetto della legale instaurazione dell'immediato procedimento di liquidazione, anche senza l'effettuazione delle nuove operazioni:

a) immobilizzazioni materiali: il loro valore, in caso di liquidazione, può ridursi drasticamente, soprattutto quando sono costituite da macchinari e impianti specifici di non facile convertibilità; possono subire anche deprezzamenti del 50%;

b) immobilizzazioni immateriali: sono costituite da costi attivati in previsione del proseguimento dell'attività. In caso di cessazione della stessa, il loro valore è frequentemente pari a zero;

c) rimanenze: il valore di stralcio può essere di molto inferiore al costo; frequentemente si presenta prudente una svalutazione del 50%;

d) crediti: i crediti a volte vengono riscossi alla scadenza, in quanto il cliente mira a forniture puntuali da parte del creditore; in caso di liquidazione la riscossione del credito si fa più difficile, tanto che si può presumere perdite di realizzo;

e) risconti attivi: si tratta di costi differiti al futuro esercizio, che non avranno, in caso di cessazione, la possibilità di usufruire di una competenza futura e devono perciò essere annullati;

f) debiti: in caso di liquidazione, i debiti mantengono almeno il loro valore nominale; inoltre vengono incrementati dalle spese della procedura, per il preavviso non lavorato dei dipendenti, e simili.

Per effetto delle rettifiche sopraindicate, il patrimonio netto subisce una contrazione naturale, a volte molto ingente, connessa al nuovo stato dell'impresa, affatto indipendente dal comportamento degli amministratori.

Il danno risarcibile effettivo può essere ben inferiore a quello emergente dal semplice acritico raffronto tra l'attivo e il passivo; ed è al danno effettivo che ci si deve riferire per quantificare il risarcimento.

La prova del danno compete all'attore, ma in queste situazioni, quando l'incerta conoscenza dei fatti può provocare richieste ingiustificate, è opportuno un apposito intervento chiarificatore da parte dell'amministratore spettando a lui, ai sensi dell'art. 1218 c.c., la prova dei fatti che valgono ad escludere o ad attenuare la sua responsabilità.

Autore: Dott. Giorgio Bianchi - tratto da "Il Quotidiano Giuridico" 08/05/2006