L'ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE CON APPORTO DI LAVORO

Sommario:
1) Premessa

2) Nozione e disciplina
3) Distinzione dal lavoro subordinato
4) Effettiva partecipazione
5) Adeguate erogazioni
6) La garanzia di un compenso minimo
7) L'avviamento di una nuova attività
8) La partecipazione ai ricavi anziché agli utili
9) Il lavoratore associante
10) La certificazione del rapporto
11) Profili fiscali e previdenziali
12) Conclusioni.  

1.                 Premessa

È ancora ammesso il lavoro in associazione in partecipazione? Entro quali limiti?

La recente istituzione delle commissioni di certificazione dei rapporti di lavoro previste  dagli articoli 75 e seguenti del D.Lgs. n. 276/2003, con il decreto adottato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali  il 21 luglio 2004 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 agosto 2004, offre l'occasione per un riesame dei caratteri distintivi propri di questa tipologia di rapporto di lavoro.

Anche perché, in attesa dell'emanazione di quei codici di buone pratiche, moduli e formulari, che il Ministero del Lavoro dovrà adottare con proprio decreto, a norma dell'art. 78 del D.Lgs. n. 276/2003, tenendo conto dei prevalenti orientamenti giurisprudenziali in materia di qualificazione del rapporto di lavoro autonomo e subordinato, le commissioni di certificazione si troveranno ad operare semplicemente sulla base del loro regolamento interno e delle norme di legge (art. 2 D.M. 2/7/03).

E non sarà certamente un compito facile distinguere fino a che punto possa ritenersi sicuramente genuino un contratto di associazione in partecipazione ed oltre quali limiti invece si presti ad essere facilmente disconosciuto in caso di ricorso al giudice del lavoro per erronea qualificazione o difformità del rapporto di lavoro.

L'associazione in partecipazione, infatti, è forse una delle più problematiche tipologie di rapporto di lavoro disponibili dopo la riforma, che desta non poche incertezze sul piano operativo e contrasti in dottrina e giurisprudenza, con particolare riguardo alle questioni solevate dalla previsione di un compenso minimo garantito al lavoratore o della partecipazione ai ricavi anziché agli utili o ancora dalla effettiva partecipazione ed adeguate  erogazioni a chi lavora richieste dall'articolo 86 del recente D.Lgs. n. 276/2003.

"Fare il punto" sulle principali questioni in materia, senza pretesa di esaurirle, pare quindi un utile contributo per una sempre maggiore certezza dei rapporti di lavoro, pur con tutta la prudenza consigliabile in attesa delle prime indicazioni ministeriali e delle prime pronunce giurisprudenziali che tengano conto delle recenti novità legislative.

2.                 Nozione e disciplina

L'associazione in partecipazione, com'è noto, è il contratto tipico con cui un imprenditore associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto.

(art. 2549 c.c.).

È pacificamente riconosciuto che l'apporto dell'associato può essere della più varia natura, patrimoniale o anche personale, e può anche consistere in una attività lavorativa a favore dell'imprenditore associante.

(ex multis Cass. n. 15175/2000).

L'associazione in partecipazione con apporto di lavoro, pur con alcune particolarità e criticità sulle quali ci si soffermerà in seguito, rimane comunque soggetta alla disciplina generale dettata dall'art. 2549 all'art. 2554 del codice civile.

Si tratta quindi di un contratto si scambio, sinallagmatico, essenzialmente caratterizzato dall'aleatorietà della quota di utili attribuita all'associato in cambio del suo apporto, che a seconda dei risultati della gestione, potrebbe anche risultare nulla.

Anzi, salvo patto contrario, l'associato partecipa anche alle perdite dell'impresa, nella stessa misura in cui partecipa agli utili, ma le perdite che colpiscono l'associato non possono superare il valore del suo apporto.

(art. 2553 c.c.).

La gestione dell'impresa o dell'affare rimane in capo all'imprenditore associante, l'unico verso il quale i terzi possono acquistare diritti ed assumere obbligazioni, salve le eventuali forme di controllo da parte dell'associato espressamente previste dal contratto.

(art. 2551 e 2552 c.c.)

In ogni caso l'associato ha diritto al rendiconto della gestione con cadenza almeno annuale, al fine di conoscere i dati di bilancio in base ai quali viene determinata la sua quota di partecipazione agli utili.

(art. 2552 c.c.).

Salvo patto contrario, inoltre, l'associante non può attribuire partecipazioni per la stessa impresa o per lo stesso affare ad altre persone senza il consenso dei precedenti associati.

(art. 2550 c.c.)

Il contratto di associazione in partecipazione non richiede la forma scritta, né ai fini della validità, né ai fini della prova.

 (Cass. n. 4235/88).

Quanto alla durata, può essere stipulato a tempo determinato o indeterminato, salvo il diritto di recesso ex art. 1373 c.c. e  ferma restando, comunque, la possibilità di ottenerne la risoluzione in caso di grave inadempimento della controparte.

(Cass. n. 2272/67; Cass. n. 4473/93; Cass. n.6951/94).

A differenza di quanto avviene nei contratti associativi e societari, caratterizzati dalla comunione di scopo, a seguito dell'associazione in partecipazione non si determina la formazione di un nuovo soggetto giuridico o di un patrimonio autonomo diverso da quello dell'imprenditore associante.

(Cass. n. 6757/2001).

Di conseguenza, qualora la quota di utili spettante all'associato non sia stata determinata in sede contrattuale, non può trovare applicazione la presunzione di uguaglianza delle quote tipica del contratto di società, stante la diversità delle due fattispecie, ma va preso in considerazione il valore dell'apporto dell'associato rispetto al valore complessivo dell'impresa o dell'affare.

(Cass. n. 1134/68; Cass. n. 1476/82)

Il rapporto che si viene ad instaurare fra l'imprenditore associante ed il lavoratore associato, che apporta nell'impresa la propria attività lavorativa prevalentemente personale, di norma consiste in una collaborazione parasubordinata ai sensi dell'art. 409 c.p.c., con conseguente devoluzione delle eventuali controversie al giudice del lavoro. Qualora però all'attività lavorativa personale si affianchi un ulteriore apporto materiale, tale da escludere il carattere prevalentemente personale della collaborazione e quindi la sussistenza della parasubordinazione, torna ad affermarsi la competenza del giudice ordinario.

(Cass. n. 3936/97).

Anche il trattamento fiscale e previdenziale è diverso a seconda se il lavoratore associato apporti anche altri beni o esclusivamente la propria attività lavorativa, nel qual caso è sostanzialmente analogo a quello degli altri collaboratori parasubordinati, pur con alcune particolarità, come si vedrà meglio in seguito.

Da ultimo, l'art. 2554 civile rinvia all'art. 2102 qualora la partecipazione agli utili sia attribuita ad un lavoratore subordinato, lasciando quindi aperta la fondamentale questione della distinzione fra associazione in partecipazione con apporto di lavoro e lavoro subordinato con partecipazione agli utili.

3.                 Distinzione dal lavoro subordinato

Evidentemente, il contratto di associazione in partecipazione non può tradursi in un facile strumento per eludere le norme inderogabili poste a tutela del lavoro subordinato, né il lavoratore può abdicare i suoi diritti sottoscrivendo tale contratto, trattandosi altrimenti di rinunzie non valide a norma dell'art. 2113 e di pattuizioni nulle per frode alla legge ex art. 1344 del codice civile.

Di conseguenza il nomen iuris, la qualificazione del rapporto data dalle parti, non può essere vincolante per il giudice, ma è solo uno degli elementi da prendere in considerazione, per verificare la genuinità del contratto, in quanto il successivo comportamento concretamente tenuto dalle parti potrebbe esprimere una diversa volontà effettiva o un successivo mutamento della originaria volontà contrattuale.

(Cass. n. 1420/02).

Il Giudice, quindi, deve rifarsi al criterio di prevalenza, che esige un'approfondita indagine sulle concrete modalità di attuazione del rapporto, volta a cogliere la prevalenza degli elementi caratterizzanti l'uno o l'altro contratto, tenendo conto che il rapporto di associazione in partecipazione implica il diritto al rendiconto e l'assunzione di un rischio d'impresa in capo all'associato, mentre il rapporto di lavoro subordinato è fondamentalmente caratterizzato dalla soggezione del lavoratore al vincolo di subordinazione, il quale è più ampio del generico potere dell'associante di impartire direttive e istruzioni all'associato.

(Cass. n. 2693/01).

Si è visto, infatti, che all'imprenditore associante spetta la gestione dell'impresa a norma dell'art. 2552 e pertanto anche il rapporto di associazione in partecipazione è compatibile con l'emanazione di direttive ed indicazioni da parte dell'imprenditore sullo svolgimento del lavoro, specie se necessario a sopperire ad una minore esperienza o al coordinamento dell'attività lavorativa, senza che per ciò solamente possa ritenersi inequivocabilmente provata l'esistenza di rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato invece da un più pregnante assoggettamento al potere gerarchico, direttivo, e disciplinare del datore di lavoro.

(Cass. n. 19352/03).

Sopperiscono allora ulteriori indici di natura sussidiaria, di per sé non decisivi, ma che ad un apprezzamento complessivo possono svelare e distinguere il vincolo di subordinazione, rispetto alla meno ampia e penetrante gestione e direzione dell'impresa riconosciuta anche all'imprenditore associante, quali in particolare l'osservanza di un orario di lavoro e la misura fissa della retribuzione in relazione al lavoro svolto e l'assenza di rischio in capo al lavoratore.

(Cass. n. 1420/2002).

Quest'ultima, peraltro, secondo alcune massime sembrerebbe assumere addirittura un rilievo decisivo e non soltanto sussidiario. Si legge infatti che "la partecipazione dell'associato al rischio d'impresa è essenziale ... dovendo egli partecipare sia agli utili che alle perdite" oppure che, pur non essendo essenziale la partecipazione anche alle perdite, comunque il rischio non può essere limitato dalla "salvezza del diritto ad una retribuzione minima".

(Cass. n. 19475/03; Cass. n. 1188/00).

La motivazione integrale di tali sentenze, tuttavia, attenua l'apparente rigore della massima che ne è stata estratta. Nei casi sottoposti all'attenzione dei giudici, infatti, l'assenza di rischio è sempre affiancata dalla puntuale dimostrazione che di fatto le concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa erano quelle tipiche del lavoro subordinato, per la soggezione al potere gerarchico dell'imprenditore, le mansioni generiche e ripetitive e per la misura fissa della retribuzione percepita, senza alcun rischio d'impresa, solo in funzione dell'orario di lavoro svolto. Dunque una valutazione di prevalenza complessiva, alla luce di tutti i criteri individuati dalla giurisprudenza, nessuno ritenuto di per sé solo decisivo, ma tutti considerati sintomatici nel loro complesso della effettiva sussistenza, in concreto, di un rapporto di lavoro subordinato.

Del resto pretendere che il lavoratore associato partecipi necessariamente anche alle perdite, oltre che agli utili, ad avviso di chi scrive pare in contrasto con il citato art. 2553 c.c., a norma del quale l'associato partecipa alle perdite solo "salvo patto contrario" e comunque non oltre "il valore del suo apporto" e quindi non oltre la mancata remunerazione del lavoro apportato nell'impresa.

L'inciso "salvo patto contrario", inoltre, sembrerebbe lasciare spazio anche alla pattuizione di un compenso minimo garantito, ma sul punto è d'obbligo la massima prudenza e chiarezza. Se ne tratterà meglio in seguito.

In conclusione, diversi sono gli indici rivelatori adottati dalla giurisprudenza per discernere correttamente fra lavoro subordinato con partecipazione agli utili ed associazione in partecipazione con apporto di lavoro (autonomo), secondo un criterio di prevalenza:

  1. subordinazione al potere direttivo e disciplinare
  2. osservanza di un orario di lavoro
  3. misura fissa della retribuzione
  4. assenza di partecipazione al rischio d'impresa
  5. assenza di rendiconto.

Se si considera, però, che il primo di questi indici può facilmente confondersi con la meno ampia e penetrante gestione dell'impresa che spetta pure all'imprenditore associante e se si considera, inoltre, che gli altri indici hanno un valore solo sussidiario e non decisivo, dovendo essere soppesati di volta in volta secondo un criterio di prevalenza, si comprende bene come la distinzione fra lavoro subordinato ed associazione in partecipazione, in concreto, sia tutt'altro che facile e rimanga in gran parte affidata alle valutazioni del giudice di merito, peraltro non censurabili con ricorso per Cassazione, se adeguatamente motivate.

(Cass. n. 1420/02).

È intervenuto allora l'articolo 86, 2°comma, del decreto legislativo n. 276/2003, disponendo che: "Al fine di evitare fenomeni elusivi, in caso di rapporti di associazione in partecipazione resi senza una effettiva partecipazione e adeguate erogazioni a chi lavora, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato ... a meno che il datore di lavoro, o committente, o altrimenti utilizzatore non comprovi, con idonee attestazioni o documentazioni, che la prestazione rientra in una delle tipologie di lavoro disciplinate nel presente decreto ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare disciplina, o in un contratto nominato di lavoro autonomo, o in altro contratto espressamente previsto nell'ordinamento" .

Cosa significa? Innanzitutto conferma senza dubbio la legittimità della associazione in partecipazione con apporto di lavoro.

Allo stesso tempo però, secondo l'opinione più accreditata, introduce una presunzione legale di subordinazione, non assoluta, con inversione dell'onere della prova contraria in capo all'imprenditore associante, qualora nel rapporto di lavoro si verifichi la mancanza di "effettiva partecipazione" ed "adeguate erogazioni a chi lavora".

In tal caso, sarà quindi l'imprenditore associante a dover dare la dimostrazione che, secondo il consolidato criterio di prevalenza, il rapporto di lavoro aveva i caratteri del lavoro autonomo o parasubordinato, piuttosto che quelli tipici del lavoro subordinato.

La novità introdotta dalla riforma del mercato del lavoro, quindi, si gioca tutta sul piano processuale e su questi due nuovi elementi di prova della genuinità del contratto di associazione in partecipazione: "effettiva partecipazione" e "adeguate erogazioni".

4.                 Effettiva partecipazione

Si è visto come, al fine di evitare elusioni, il citato articolo 86 introduce una presunzione di subordinazione ogni qualvolta nel rapporto manchi una "effettiva partecipazione".

La partecipazione che deve essere riconosciuta al lavoratore associato, però, non può essere confusa con la partecipazione alle scelte imprenditoriali ed alla gestione dell'impresa, che come si è visto spetta soltanto all'imprenditore associante, a norma dell'art. 2552.

Necessariamente, quindi, tale partecipazione deve identificarsi con le prerogative tipiche che la legge riconosce all'associato in partecipazione e quindi innanzitutto con una reale partecipazione agli utili dell'impresa ed in secondo luogo con il diritto al rendiconto, nonché alle altre eventuali altre forme di controllo previste dal contratto, nonché il diritto di veto all'ingresso di altri associati.

Soltanto in questa limitata accezione, ad avviso di chi scrive, all'assenza di un'effettiva partecipazione può attribuirsi l'effetto determinante di una presunzione di subordinazione, con inversione dell'onere della prova contraria in capo all'imprenditore associante. Se infatti la partecipazione non è davvero effettiva, ma solo fittizia e simulata, è lecito presumere che il contratto di associazione in partecipazione sia lo schermo per nascondere un rapporto di lavoro subordinato.

Del resto da sempre la giurisprudenza esclude la genuinità del contratto di associazione in partecipazione in tutti i casi di palese simulazione, in cui la partecipazione agli utili formalmente promessa non si sia poi concretamente realizzata, come nell'ipotesi di lavoratori adibiti a lavorazioni elementari e ripetitive, sotto la direzione dell'imprenditore associante, senza ricevere alcun rendiconto, né un'effettiva partecipazione agli utili, ma soltanto una retribuzione in misura fissa per il lavoro svolto).

(Cass. n. 290/00; Cass. n. 2810/03).

A tal fine, l'accertamento del giudice si estende a tutto l'arco temporale necessario a svelare ogni eventuale simulazione, come nel caso in cui i lavoratori associati siano stati già dipendenti dello stesso imprenditore ed abbiano continuato a lavorare con le stesse modalità e mansioni, ovvero nel caso in cui i lavoratori associati sostituiscano altri lavoratori dipendenti, svolgendone le medesime mansioni con modalità identiche.

(Cass. n. 2810/03).

Così inteso, dunque, il presupposto della "effettiva partecipazione" del lavoratore associato, introdotto dal citato articolo 86, appare tutt'altro che nuovo, risultando invece assolutamente in linea con gli orientamenti già consolidati in giurisprudenza.

5.                 Adeguate erogazioni

Molto meno immediata appare l'interpretazione, rispetto ai principi consolidati in materia di associazione in partecipazione, del secondo presupposto introdotto dal citato articolo 86, laddove prevede la presunzione legale di subordinazione, con inversione dell'onere della prova contraria in capo all'imprenditore associante, anche in caso di associazione in partecipazione "senza adeguate erogazioni a chi lavora".

Le perplessità nascono dalla considerazione che se per "adeguate erogazioni" si intendesse la garanzia di una retribuzione minima comunque non inferiore a quella prevista dai contratti collettivi, in relazione alla quantità e qualità del lavoro svolto, la norma cosi interpretata verrebbe a scontrarsi con i principi generali  in materia di associazione in partecipazione desumibili dal codice civile e con il consolidato orientamento giurisprudenziale, che proprio nella misura fissa della retribuzione, in relazione al lavoro svolto, ravvisa un indice rivelatore della subordinazione.

Introdurre ora, per legge, una presunzione in senso opposto apparirebbe quindi una forzatura e richiederebbe semmai una chiara ed espressa deroga legislativa ai principi generali della materia, che non pare di cogliere ne citato articolo 86.

Del resto non è neppure possibile ignorare la norma o darne una interpretatio abrogans che finisca per ridurre il concetto di "adeguate erogazioni" ad un'espressione priva di significato o meramente ripetitiva della precedente "effettiva partecipazione".

Ad avviso di chi scrive, dunque, occorre ed è possibile dare alla norma un'interpretazione coerente con i principi consolidati in materia di associazione in partecipazione, tenendo presente che si tratta pur sempre soltanto di una semplice presunzione sul piano processuale e ferma restando la possibilità di fornire la prova contraria.

Prendendo le mosse dallo spirito dichiarato della norma, che è quello di "evitare elusioni", si comprende bene come non desti particolare preoccupazione l'ipotesi in cui il lavoratore percepisca comunque un compenso ben superiore a quello previsto dai contratti collettivi per il lavoro subordinato. Anzi, il fatto stesso di avere ottenuto condizioni di miglior favore, ne fa presumere la facoltà di trattare "alla pari" e senza soggezione con l'imprenditore associante. In simili ipotesi pare quindi ragionevole,  in caso di contestazione, lasciare al lavoratore l'onere di dimostrare l'effettiva sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, sulla base dell'ordinario criterio di prevalenza e degli indici individuati dalla giurisprudenza.

Al contrario, nel caso in cui il lavoratore percepisca di fatto una partecipazione agli utili ben più esigua della retribuzione che gli sarebbe spettata come dipendente, è comprensibile una maggiore preoccupazione per la possibile elusione delle norme a tutela del lavoratore subordinato. Anzi, per la sua stessa esiguità, è lecito presumere che tale partecipazione non possa ritenersi prevalente rispetto ai caratteri più propri del lavoro subordinato. Di conseguenza, in caso di contestazione, pare plausibile esonerare il lavoratore "sottopagato" dall'onere di dimostrare l'effettiva esistenza di un vincolo di subordinazione, salva comunque la possibilità per l'imprenditore associante di fornire la prova contraria.

È chiaro che tale presunzione di subordinazione sarà tanto più forte quanto più la quota di utili percepita dal lavoratore risulti esigua o addirittura talmente irrisoria da apparire senz'altro simulata ed utilizzata al solo scopo di eludere le norme inderogabili a tutela del lavoro subordinato. Salva comunque la prova contraria.

Così intesa, la verifica della prevalenza della quota di utili di fatto percepita dal lavoratore associato, rispetto alla retribuzione spettante ad un comune lavoratore dipendente, si inserisce con coerenza nell'ambito di quel criterio di prevalenza complessiva che da sempre la giurisprudenza segue, per distinguere se nel rapporto di lavoro siano prevalsi, in concreto, i caratteri dell'associazione in partecipazione o invece quelli più propri del lavoro subordinato.

Così inteso, inoltre, il presupposto delle "adeguate erogazioni" non si sovrappone a quello della "effettiva partecipazione", ma lo completa, affiancando all'ipotesi in cui il lavoratore non percepisca affatto gli utili promessi, quella in cui percepisca effettivamente la sua quota, però, pattuita  in misura talmente irrisoria e inadeguata, da lasciarne presumere la pretestuosità e l'uso distorto, al solo scopo di eludere le norme a tutela del lavoro subordinato.

Ad avviso di chi scrive, dunque, salvi i futuri chiarimenti ministeriali o giurisprudenziali, il presupposto delle "adeguate erogazioni a chi lavora", potrebbe utilmente interpretarsi come prevalenza della quota di partecipazione agli utili attribuita al lavoratore associato, rispetto alla retribuzione spettante ad un lavoratore subordinato, in mancanza della quale opererebbe la presunzione legale di prevalenza dei caratteri tipici del lavoro subordinato, salva la possibilità per l'imprenditore associante di fornire la prova contraria.

Non solo. Se è vero che il lavoratore associato non può essere subordinato ad un vincolante potere direttivo da parte dell'imprenditore associante, ma al contrario deve godere di un apprezzabile margine di autonomia, come fra i lavoratori dipendenti si può riscontrare solo ai livelli più alti, allora la retribuzione rispetto alla quale verificare la prevalenza della quota di utili attribuita al lavoratore dovrebbe essere quella prevista ai massimi livelli dei contratti collettivi.

Ad avviso di chi scrive, inoltre, occorre effettuare tale giudizio di prevalenza ex ante, vale a dire rifacendosi alla situazione esistente o comunque prevedibile all'epoca della stipulazione del contratto, sostanzialmente sulla base dei dati di bilancio allora conosciuti dalle parti, piuttosto che ex post, sulla base dei successivi risultati di gestione concretamente verificabili soltanto in seguito.

Al fine di evitare elusioni, infatti, appare necessario e sufficiente verificare se fin dall'inizio i contraenti fossero consapevoli della prevedibile esiguità della quota di partecipazione agli utili attribuita al lavoratore, tanto da farne presumere un uso pretestuoso e simulato.

Al contrario non pare né utile, né corretto, infierire su coloro che, pur avendo previsto in buona fede una adeguata partecipazione agli utili sulla base dei dati di bilancio allora conosciuti o conoscibili, magari in misura del 50%, in un'annata particolarmente negativa vedano poi drasticamente ridursi gli utili e quindi anche la quota attribuita al lavoratore. Come si è visto, infatti, tale eventualità rientra nel rischio tipico dell'associato in partecipazione e comporta allo stesso tempo anche la riduzione del margine di profitto dell'imprenditore associate.

In altre parole, alla dimostrazione che l'inadeguatezza degli utili è dovuta ad una reale crisi dei profitti aziendali, dati alla mano, potrebbe riconoscersi il valore di prova contraria  idonea e sufficiente a vincere la presunzione legale di subordinazione prevista dal citato articolo 86. Lasciando quindi al giudice l'eventuale valutazione della prevalenza dei caratteri dell'autonomia o della subordinazione secondo i criteri ordinari, senza rigide presunzioni.

Ad avviso di chi scrive, infine, le "adeguate erogazioni a chi lavora" devono derivare dalla partecipazione agli utili dell'impresa e non da altre forme di remunerazione garantita in misura fissa, che come si è visto, per giurisprudenza costante devono rimanere marginali o comunque non prevalenti rispetto alla partecipazione agli utili tipica dell'associazione in partecipazione.

6.                 La garanzia di un compenso minimo

Fra le clausole particolari più diffuse nei contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, figura sicuramente quella volta ad assicurare al lavoratore un compenso minimo garantito, indipendentemente dall'utile dell'impresa.

Si tratta di una clausola estranea al contenuto essenziale del contratto di associazione in partecipazione, che ne attenua il carattere aleatorio e, oltre certi limiti, potrebbe comportarne il disconoscimento da parte del giudice del lavoro.

Si è visto, infatti, come la misura fissa della remunerazione venga da sempre considerata un indice rivelatore del vincolo di subordinazione, che assieme agli altri indici di subordinazione individuati dalla giurisprudenza, può portare ad un giudizio di prevalenza dei caratteri tipici del lavoro subordinato su quelli propri dell'associazione in partecipazione.

(Cass. n. 19475/03; Cass. n. 1420/02; Cass. n. 1188/00).

Se poi, alla percezione del compenso minimo garantito, non segue davvero una partecipazione agli utili effettiva ed adeguata, nel senso già illustrato, potrebbe determinarsi la presunzione di subordinazione prevista dall'articolo 86 del D.Lgs. n. 276/2003, con inversione dell'onere della prova contraria in capo all'imprenditore associante.

D'altronde la stessa disciplina codicistica, all'articolo 2553, ammette il patto che escluda o riduca la partecipazione dell'associato alle perdite, che nel caso di apporto di lavoro si identificano con la mancata remunerazione del lavoro prestato. Di conseguenza, la periodica corresponsione di acconti in misura fissa sugli utili effettivamente spettanti non appare di per sé illegittima.

A condizione, però, in linea con i principi generali della materia e con il criterio di prevalenza seguito dalla giurisprudenza, che successivamente si verifichi davvero un'effettiva ed adeguata partecipazione agli utili, che sia prevalente rispetto al alla remunerazione "sicura" più propria del lavoro subordinato.

In caso contrario, ad avviso di chi scrive, si determinerà la presunzione di subordinazione prevista dal citato articolo 86, ma l'imprenditore associato potrà ugualmente fornire la prova contraria che, nel caso concreto, alla luce di una complessiva valutazione delle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, "la corresponsione di una somma fissa priva di ogni riscontro con gli utili effettivamente conseguiti non è incompatibile con la natura del contratto di associazione in partecipazione".

(Cass. n. 15175/00; Cass. n. 4235/1988).

Sul punto, comunque, in attesa del previsto codice ministeriale di buone pratiche e delle prime pronunce giurisprudenziali successive alla riforma, è consigliabile cautela.

7.                 L'avviamento di una nuova attività

Spesso, il contratto di associazione in partecipazione viene stipulato con un lavoratore a cui si intende affidare la responsabilità di un'impresa o di una sua unità locale, con ampi margini di autonomia gestionale ed organizzativa.

Quando si tratta di un'impresa o di un'unità locale di nuova costituzione, però, durante la prima fase di avviamento dell'attività è ben possibile che si verifichi un utile inferiore alle attese o addirittura un perdita.

Si tratta di un'eventualità che le parti non potevano non avere presente al momento della stipulazione del contratto e dalla quale potrebbero aver voluto lasciare indenne il lavoratore, considerata anche l'ammissibilità di un patto contrario alla partecipazione dell'associato alle perdite dell'impresa, a norma dell'art. 2553 c.c.

Durate questa fase, dunque, si ritiene che l'assenza di un'effettiva ed adeguata quota di utili debba essere valutata con minor rigore e non possa dar luogo all'automatico disconoscimento della genuinità del contratto di associazione in partecipazione, per effetto della presunzione di subordinazione prevista dal citato articolo 86, neppure nell'ipotesi in cui sia comunque assicurata al lavoratore la corresponsione di periodici acconti sugli utili futuri.

Vale a dire, in altri termini, che la dimostrazione dell'esistenza di una fase di avviamento commerciale può essere considerata già di per sé una prova contraria sufficiente a giustificare la temporanea assenza o inadeguatezza degli utili percepiti dal lavoratore associato e quindi a rimettere al libero apprezzamento del giudice, senza rigide presunzioni, la decisione sulla prevalenza in concreto dei caratteri dell'una o dell'altra tipologia di rapporto di lavoro alla luce dei criteri ordinari.

Purché naturalmente l'imprenditore associante possa davvero dimostrare, dati alla mano,  l'esistenza di una temporanea fase di avviamento, sulla base dei risultati di bilancio,  dell'andamento di attività analoghe e del riscontro di una progressiva crescita del volume d'affari fino a regime.

E purché, naturalmente, tale fase temporanea rimanga contenuta entro ragionevoli limiti di tempo e che successivamente, in linea con i principi generali della normativa in materia e con il criterio di prevalenza seguito dalla giurisprudenza, si verifichi davvero un'effettiva ed adeguata partecipazione agli utili, che sia prevalente rispetto al alla remunerazione "sicura" più propria del lavoro subordinato.

In ogni caso, anche su questo punto, in attesa dei primi orientamenti ministeriali e giurisprudenziali, la prudenza è d'obbligo.

8.                 La partecipazione ai ricavi anziché agli utili

Fra le clausole particolari più diffuse nei contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, si segnala anche l'attribuzione al lavoratore associato di una quota di partecipazione ai ricavi anziché agli utili.

La diffusione ne testimonia il favore incontrato sia da parte del lavoratore associato, per la maggiore facilità con cui può verificare i ricavi rispetto agli altri dati di bilancio, sia da parte dell'imprenditore associante, per la maggiore libertà di decidere investimenti o altre spese che possono erodere l'utile dell'impresa, senza pregiudizio per la quota spettante al lavoratore.

La giurisprudenza in materia, però, non è univoca.

In alcuni casi sottoposti all'attenzione dei giudici, infatti, si è ritenuto che, in linea di principio, "la pattuita partecipazione dell'associato ai ricavi dell'impresa, ancorché non perfettamente assimilabile alla partecipazione agli utili prevista dall'articolo 2549 c.c., non altera il tipo contrattuale, sicché è ravvisabile pur sempre un'associazione in partecipazione,atteso che la variabilità del fatturato comporta un rischio patrimoniale incompatibile con la subordinazione".

(Cass. n. 3936/97).

Viceversa, in altri casi si è ritenuto che "nel contratto di associazione in partecipazione è essenziale la pattuizione a favore dell'associato di una quota correlata agli utili e non ai ricavi, i quali ultimi rappresentano in se stessi un dato non significativo circa il risultato economico dell'attività d'impresa".

(Cass. n. 1420/02).

La stessa massima, però, prosegue ribadendo il consolidato criterio di prevalenza, secondo cui gli indici rivelatori "quali l'assenza del rischio ... assumono natura sussidiaria e non decisiva"  e disconoscendo poi la genuinità del contratto di associazione in partecipazione, non tanto per l'astratta attribuzione di una quota sui ricavi anziché sugli utili, quanto piuttosto per una complessiva valutazione delle concrete modalità di svolgimento dell'attività lavorativa, che risultavano quelle tipiche del lavoro subordinato, per la soggezione al potere gerarchico, l'osservanza di un preciso orario di lavoro e la misura fissa della retribuzione, mentre la quota di partecipazione ai ricavi, benché formalmente promessa, non veniva poi effettivamente corrisposta.

(Cass. n. 1420/02).

 Nella concreta applicazione giudiziaria, dunque, l'attribuzione di una quota di partecipazione sui ricavi, anziché sugli utili, non è stata considerata un elemento di per sé decisivo per escludere la genuinità della associazione in partecipazione.

Neppure pare possa integrare, di per sé sola, gli estremi della presunzione legale di subordinazione introdotta dal citato articolo 86, in casi di assenza di una "effettiva partecipazione ed adeguate erogazioni" , dal momento che l'entità dei ricavi di un impresa è comunque caratterizzata da una certa aleatorietà e che la quota di partecipazione spettante al lavoratore può risultare comunque adeguata e prevalente rispetto ad altre forme di remunerazione più proprie del lavoro subordinato.

Rimane, però, la constatazione che la clausola di partecipazione ai ricavi, anziché agli utili, da parte di alcuni giudici, è stata segnalata alle volte come un indizio di subordinazione, che assieme ad altri indici rivelatori gravi, precisi e concordanti, potrebbe decretare il disconoscimento del contratto di associazione in partecipazione fittizio.

9.                 Il lavoratore associante

L'associazione in partecipazione con apporto di lavoro evoca nella prassi l'immagine dell'imprenditore associante che attribuisce una partecipazione agli utili dell'impresa in cambio dell'apporto di lavoro da parte di un lavoratore associato.

Giustamente, però, è stata ritenuta legittima anche l'ipotesi inversa in cui sia il lavoratore associante ad attribuire una quota degli utili in cambio di un apporto patrimoniale da parte di un investitore associato. Anzi, a ben guardare, tale ipotesi corrisponde forse anche maggiormente al tipo normativo.

In tale ipotesi, però, la giurisprudenza richiede comunque che risulti la effettiva preminenza del lavoratore associante e la sua esclusiva responsabilità nella gestione dell'impresa e verso i terzi a norma degli articoli 2551 e 2552 c.c. ' compresi si ritiene gli adempimenti di carattere fiscale e previdenziale ' con conseguente piena acquisizione, da parte sua, dello status di lavoratore autonomo, libero professionista o imprenditore.

(Cass. n. 2888/60)

Come nel caso di un farmacista che attribuisca ad un investitore associato una quota di utili della sua farmacia, gestita dal professionista in piena autonomia, anche qualora il contratto preveda il suo diritto a trattenere una determinata somma di denaro quale compenso per il lavoro svolto.

(Cass. n. 7026/95)

10.             La certificazione del rapporto

Oggi la genuinità del contratto di associazione in partecipazione, potrà anche essere certificata davanti alle apposite commissioni di certificazione previste dall'articolo 75 e seguenti del D.Lgs. n. 276/2003 ed ora istituite con decreto del Ministero del lavoro, presso le Direzioni Provinciali del Lavoro, gli Assessorati al lavoro delle Province, gli Enti Bilaterali o le Università abilitate.

(D.M. 14.06.04 e D.M. 21.07.04).

Purché naturalmente ne ricorrano i presupposti, come dianzi illustrati e come potranno essere ulteriormente chiariti dai futuri orientamenti ministeriali e giurisprudenziali.

Com'è noto la procedura, che deve concludersi nel termine di trenta giorni, si caratterizza per la massima volontarietà e si apre con la presentazione di un'istanza comune, in bollo, da parte dei contraenti (in bollo da 11,00 euro ex L. n. 191/2004).

Prosegue quindi con la audizione personale delle parti, che solo per comprovate ragioni, valutate dal presidente della commissione, possono farsi rappresentare da un delegato, necessariamente assistito da un rappresentante sindacale o professionista abilitato.

Si conclude, infine, con la verbalizzazione delle dichiarazioni rese dalle parti nel provvedimento finale di certificazione, motivato e sottoscritto da tutti i componenti di diritto della commissione.

(Art. 3, 5, 6 D.M. 21.07.04)

L'istanza dev'essere necessariamente redatta sulla modulistica appositamente predisposta dal Ministero del Lavoro, che infatti dovrà adottare con proprio decreto appositi codici di buone pratiche, moduli e formulari, tenendo conto degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti in materia di qualificazione del rapporto di lavoro, come autonomo o subordinato, in relazione alle diverse tipologie di lavoro.

(Art. 78, 4° e 5° comma, D.Lgs. n. 276/2003).

Nel frattempo, in attesa dei codici di buone pratiche, le commissioni di certificazione opereranno sulla base del proprio regolamento interno, che però dovrà essere comunque sottoposto al vaglio del Ministero del Lavoro.

(Art. 2 D.M. 21.07.04).

Il provvedimento di certificazione, con il dichiarato scopo di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro, conferisce al contratto una particolare efficacia fra le parti e verso i terzi, che permane comunque, anche in caso di contestazione, fino al momento in cui sia stato accertato con sentenza di merito l'accoglimento dell'eventuale ricorso giurisdizionale, che gli interessati possono proporre al  giudice del lavoro per vizio del consenso, erronea qualificazione o difformità del rapporto rispetto a quanto certificato, ovvero al T.A.R. per violazione delle norme sul procedimento o eccesso di potere.

(Art. 79 e 80 D.Lgs. n. 276/2003).

In effetti, la certificazione consiste pur sempre nella acquisizione della volontà delle parti in ordine al programma negoziale astrattamente concordato, ex ante, che quindi potrebbe poi essere contraddetta da una successiva attuazione del rapporto di lavoro concretamente difforme da quanto originariamente concordato e certificato.

Anche in caso di diniego sarà esperibile il ricorso al T.A.R., ad esempio per difetto di motivazione, mentre ad avviso di chi scrive, l'impugnazione innanzi al giudice del lavoro, per errore di  qualificazione, appare francamente poco percorribile a fronte di una certificazione ancora inesistente, anche se sul punto occorre sicuramente attendere le prime indicazioni ministeriali e giurisprudenziali.

In effetti, il semplice diniego di per sé non certifica nulla, ma si limita a motivare le ragioni per cui non è possibile certificare con sicurezza la genuinità del contratto sottoposto alla commissione, come nel caso di commistione e non sicura prevalenza dei caratteri tipici dell'associazione in partecipazione, rispetto agli indici rivelatori invece del lavoro subordinato, ovvero nel caso in cui l'assenza di effettiva partecipazione ed adeguate erogazioni riveli la presunzione di subordinazione introdotta dal citato articolo 86.

In ogni caso, ad avviso di chi scrive, il contratto stipulato fra le parti rimane comunque valido ed efficace, benché privo di quella particolare efficacia privilegiata, anche verso i terzi, che solo la certificazione può conferire.

Il contratto non certificato potrà semmai essere contestato in seguito da parte di chiunque vi abbia interesse ed in caso di contestazioni opereranno come di regola i principi ordinari: la presunzione di subordinazione introdotta dal citato articolo 86 - se ricorrono i presupposti - ed il criterio di prevalenza ormai consolidato in giurisprudenza.

11.             Profili fiscali e previdenziali

Fino al 31 dicembre 2003, il trattamento fiscale delle partecipazioni agli utili percepite dal lavoratore associato era disciplinato dagli articoli 41 e 49 del D.P.R.  n. 917/1986 (T.U.I.R.). A decorrere dal 1 gennaio 2004, però, il D.L. n. 344/2003 ne ha disposto la rinumerazione e conseguentemente i vecchi articoli 41 e 49 sono stati trasfusi nei nuovi articoli 44 e 53 del T.U.I.R., ai quali occorre fare riferimento anche nei non pochi casi di rinvio da parte di altre norme ai vecchi articoli 41 e 49.

(art. 1, D.L. 344/2004).

Ciò premesso, il nuovo articolo 53 del T.U.I.R. qualifica come redditi da lavoro autonomo le partecipazioni agli utili percepite dal lavoratore associato nell'ambito dei contratti di associazione in partecipazione con esclusivo apporto di lavoro.

 (art. 53, 2°comma,  lett. c , D.P.R.  917/1986).

Qualora invece alla prestazione personale si aggiunga anche un ulteriore apporto patrimoniale, quale che sia, ma di natura comunque diversa dal lavoro, gli utili che ne derivano sono tassati come redditi da capitale.

(art. 44, 1°comma,  lett. f , D.P.R.  917/1986).

In ogni caso, dal 23 febbraio 2004, la partecipazione agli utili non è soggetta all'imposta sul valore aggiunto, neppure se si tratta di redditi da lavoro autonomo, ai sensi del citato art. 53, purché il lavoratore associato non sia un imprenditore, artista o professionista che svolga per professione abituale un'altra attività di lavoro autonomo soggetta ad I.V.A.

(art. 5, 2°comma, D.P.R. n. 633/1972, modificato ex art. 5, D.L. n. 282/2002).

L'imprenditore associante può dedurre dal proprio reddito le somme erogate al lavoratore associato a titolo di partecipazione agli utili, secondo i principi ordinari, a condizione che il contratto di associazione in partecipazione sia stipulato con atto pubblico o scrittura privata autenticata e venga debitamente registrato.

(Ag. Entrate circ. n. 50/E/2002).

Con esclusione, naturalmente, dei familiari dell'imprenditore associante, a norma degli articoli 59 e 15, 3°comma, del D.P.R. n. 597/2003.

 (Cass. n. 9417/2000).

Per quanto riguarda la tutela previdenziale, dal 1 gennaio 2004, l'assicurazione sociale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, gestita dall'INPS, è stata estesa anche ai lavoratori associati in partecipazione con esclusivo apporto di lavoro, i cui compensi sono qualificati come redditi di lavoro autonomo ai sensi del vecchio articolo 49, ora articolo 53, del T.U.I.R.

(art. 43, 1°comma, D.L. n. 269/2003, convertito in L. n. 326/2003).

Di conseguenza, sono invece esclusi dall'obbligo assicurativo i lavoratori associati, il cui apporto non è costituito esclusivamente dalla prestazione lavorativa ed i cui compensi sono quindi qualificati come redditi da capitale ai fini fiscali dal citato articolo 44 del T.U.I.R. Benché assoggettati all'imposizione fiscale, quindi, su tali redditi non è dovuta la contribuzione INPS, per quanto ciò possa destare qualche perplessità, specialmente nel caso di apporto di capitale di importo modestissimo.

Sono inoltre assolti dall'obbligo assicurativo, per espressa disposizione di legge, coloro che siano iscritti agli albi professionali e quindi già tutelati dalla rispettiva cassa previdenziale di appartenenza.

(art. 43, 1°comma, D.L. n. 269/2003, convertito in L. n. 326/2003).

Con la circolare INPS 29/03/2004 n. 57, l'Istituto ha provveduto a disciplinare le modalità operative di funzionamento dell'apposita gestione, in via provvisoria, in attesa del decreto ministeriale che dovrà definirne l'assetto organizzativo e funzionale.

(art. 43, 9°comma, D.L. n. 269/2003, convertito in L. n. 326/2003).

I soggetti obbligati sono tenuti a presentare domanda di iscrizione all'INPS, nella gestione appena istituita con il codice "AP", entro il 31 marzo 2004 per i contratti già stipulati in precedenza o, comunque, entro trenta giorni dall'inizio dell'attività lavorativa.

(INPS circ. 29/3/2004 n. 57).

L'importo dei contributi da versare è stabilito dalla legge nella stessa misura dovuta per i collaboratori iscritti nella gestione separata di cui all'articolo 2 della legge n. 335/1995 e grava sull'imprenditore associante in ragione del 55% e sul lavoratore associato per il restante 45%.

(art. 43, 2°comma, D.L. n. 269/2003, convertito in L. n. 326/2003).

Pertanto l'aliquota contributiva per il corrente anno 2004 è stabilita per il primo scaglione di reddito, fino a 37.883 euro, nella percentuale del 17,30 % e del 18,30 % oltre tale soglia.

Il versamento avverrà a cura dall'imprenditore associante anche per la quota dovuta dal lavoratore associato, come avviene per i collaboratori parasubordinati, entro il 16 del mese successivo a quello di corresponsione del compenso, indicando sul modello F24 la causale "ASS", ma soltanto a decorrere dalla data che sarà stabilita dal futuro decreto ministeriale. A tale data saranno versati in un'unica soluzione e senza interessi tutti i contributi dovuti a partire da gennaio 2004.  

(INPS circ. 29/3/2004 n. 57).

Ai fini pensionistici, così come per i collaboratori parasubordinati, il calcolo della pensione per i lavoratori associati in partecipazione avverrà esclusivamente con il sistema contributivo.

(art. 43, 7°comma, D.L. n. 269/2003, convertito in L. n. 326/2003).

Per quanto riguarda, infine, l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro indennizzati dall'INAIL, l'obbligo assicurativo per i lavoratori associati in partecipazione vige già dal 23 luglio 1992 della pronuncia di parziale illegittimità costituzionale, nella parte in cui non lo prevedeva, dell'art. 4 del D.P.R. n. 1124/1965.

Come di regola, l'assicurazione copre tutti i lavoratori che apportino nell'impresa la loro attività manuale o di sovrintendenza al lavoro altrui nelle attività protette dagli articoli 1 e 4 del D.P.R. 1124/1965, indipendentemente dall'eventuale ulteriore apporto di capitali e quindi indipendentemente dalla qualificazione dei loro compensi come redditi da lavoro autonomo o redditi da capitale (a differenza di quanto è previsto per l'assicurazione INPS).

L'onere contributivo grava interamente in capo all'imprenditore associante, che risulta l'unico soggetto obbligato, dal momento che, come si è visto, rimane comunque l'unico titolare dell'impresa.

 (INAIL circ. 7/5/1993 n. 28/74).

Ai fini assicurativi e previdenziali, infine, il lavoratore assicurato dovrà essere debitamente iscritto sui regolamentari libri matricola e paga.

(MLPS  7/7/2003 prot. 5/26941/70).

12.             Conclusioni

La certificazione del rapporto di lavoro  appare sicuramente uno strumento efficace al fine di ridurre l'incertezza ed il contenzioso in materia di qualificazione del rapporto di lavoro reso in associazione in partecipazione.

A condizione, però, che la giurisprudenza ed il codice ministeriale di buone pratiche chiariscano al più presto come valutare, anche in sede di certificazione, la prevalenza dei caratteri propri dell'associazione in partecipazione rispetto ai tipici indici rivelatori della subordinazione, nonché come interpretare la nuova presunzione legale di subordinazione introdotta dall'art. 86, 2°comma, del D.Lgs. n. 276/2003, in caso di assenza di "effettiva partecipazione" ed "adeguate erogazioni a chi lavora".

Nel frattempo, seppur provvisoriamente e con la dovuta cautela, sulla base dei principi consolidati e delle novità legislative, pare di poter così sintetizzare quali siano ancora oggi i caratteri distintivi dalla associazione in partecipazione con apporto di lavoro, rispetto al lavoro subordinato, da valutare complessivamente secondo un criterio di prevalenza.

Sono caratteri dell'associazione in partecipazione:

1)                 Partecipazione agli utili effettiva ed adeguata

2)                 Diritto al rendiconto della gestione

3)                 Consenso all'ingresso di nuovi associati

Sono invece indici di subordinazione:

4)                 Retribuzione in misura fissa

5)                 Orario di lavoro predeterminato

6)                 Subordinazione al datore di lavoro

Quest'ultimo è l'elemento decisivo per la giurisprudenza, l'essenza stessa del lavoro subordinato, ma non è facile da dimostrare e da distinguere dalla meno ampia gestione dell'impresa che spetta anche all'associante, se non ricorrendo agli altri indici sussidiari.

Il primo invece è l'elemento valorizzato dalla riforma, che, perlomeno ad avviso di chi scrive, ha voluto collegare una presunzione legale di subordinazione alla mancanza di una partecipazione agli utili effettiva ed adeguata, nel senso di prevalente rispetto alla retribuzione in misura fissa tipica del lavoro subordinato, addossando all'imprenditore associante l'onere della prova contraria.

Gli altri indici non appaiono di per sé decisivi ed inderogabili, ma ad un apprezzamento complessivo possono contribuire a condurre ad un giudizio di prevalenza dei caratteri dell'una o dell'altra tipologia.

Da ultimo, anche l'estensione della tutela previdenziale INPS di fatto può attenuare, seppur non eliminare, la convenienza del ricorso a forme dubbie di associazione in partecipazione, al solo scopo di eludere gli oneri contributivi previsti a favore dei lavoratori subordinati.

 

 

Autore: Dott. Alessandro Millo - Funzionario della Direzione Provinciale del Lavoro di Modena - Settembre 2004