Accordi di convivenza e famiglia di fatto
Negli ultimi tempi si discute vivacemente sull'opportunità di
regolamentare in modo più o meno dettagliato le cosiddette unioni di fatto, vale
a dire quelle convivenze stabili tra due soggetti non legati tra loro da vincolo
matrimoniale, possa trattarsi di matrimonio celebrato con rito civile o
concordatario.
Prescindendo da quelli che ad oggi rappresentano
esclusivamente dibattiti dottrinali o proposte normative, esaminiamo se e come
attualmente vengono disciplinati i rapporti personali e patrimoniali tra i
conviventi more uxorio.
Innanzitutto è doveroso, a scanso di equivoci,
rilevare che la mancata celebrazione del matrimonio non incide affatto sui
diritti spettanti ai figli nati dai genitori non coniugati i quali, per espressa
disposizione di legge, sono equiparati in tutto e per tutto ai figli nati da
coppie coniugate.
Di conseguenza oggi, a differenza di ciò che avveniva in
passato, la distinzione tra figli naturali e figli legittimi non ha più ragione
di esistere.
L'equiparazione dei diritti significa, d'altro canto,
equiparazione degli obblighi a carico dei genitori nei confronti della prole
rispetto agli obblighi dei genitori coniugati.
Ci riferiamo in particolar
modo all'obbligo di educare, istruire e mantenere i figli.
Così come nelle
cosiddette famiglie tradizionali, anche all'interno delle famiglie di fatto,
ciascuno dei genitori ha l'obbligo giuridico di mantenere i figli
proporzionalmente alle proprie sostanze ed al reddito.
Stesso obbligo permane
nel caso in cui la coppia decida di porre fine alla convivenza come d'altra
parte accade in caso di separazione o divorzio tra genitori coniugati.
Per
ciò che concerne i diritti ereditari possiamo addirittura affermare che i figli
sono maggiormente tutelati nel caso in cui i genitori non siano legati da
vincoli matrimoniali; infatti in assenza di coniuge l'intero patrimonio del
genitore deceduto, sarà attribuito al figlio o ai figli; mentre, ove il genitore
al momento del decesso dovesse risultare coniugato, parte del patrimonio
verrebbe assegnato al coniuge superstite.
Il problema va pertanto
focalizzato sul rapporto personale tra i soggetti che decidono di iniziare una
convivenza.
Ritengo personalmente che la questione della regolamentazione
delle unioni di fatto sia stata spesso enfatizzata ed esasperata sino ad
erigerla a vera e propria battaglia politica, il tutto incentrato sull'elemento
base del matrimonio e sul significato che la Costituzione Italiana attribuirebbe
al concetto di famiglia.
Ma a ben vedere molte delle problematiche e delle
questioni giuridiche che possono nascere all'interno di una coppia non sposata,
sono disciplinate e trovano la loro soluzione all'interno del nostro diritto
positivo e di norme che se pur non create ad hoc per disciplinare i rapporti tra
conviventi, ben si adattano ad essere applicate in molteplici casi soprattutto
in assenza di una disciplina specifica della materia.
Pertanto, attualmente,
il problema reale diventa quello dell'individuazione di tali norme e semmai
quello di una raccolta organica di tali disposizioni anche al fine di renderle
accessibili e conoscibili ai non addetti ai lavori.
Ritengo che ad oggi quasi
tutte le problematiche aventi risvolto giuridico relative ad un rapporto di
fatto possano essere regolamentate pattiziamente tra le parti attraverso veri e
propri contratti denominati "contratti di convivenza".
Il punto focale è
quello di identificare quali siano i limiti e quale sia l'estensione massima di
tali accordi.
Ma il problema in effetti non è poi tanto differente da quello
che gli operatori del diritto affrontano ogni giorno nell'ambito della propria
attività ermeneutica; si tratta cioè di capire fino a che punto si possa
spingere l'autonomia negoziale delle parti e quali siano i diritti indisponibili
sui quali non è ammesso incidere ad opera delle parti; ma si tratta anche di
comprendere se ed entro quali limiti le norme dettate dal legislatore in campo
contrattuale siano adattabili ed applicabili ad una materia che senza dubbio
presenta aspetti peculiari rispetto ad un rapporto contrattuale strettamente
inteso.
Nulla questio sulla possibilità per i conviventi di
acquistare beni immobili o mobili in situazione di comproprietà, eventualmente
anche concordando sui beni stessi l'attribuzione di quote di proprietà
differenti.
Per quanto concerne i diritti successori, non essendovi
attualmente alcuna norma che attribuisce diritti in tal senso al convivente
superstite, i soggetti hanno la piena libertà di nominare erede l'altro coniuge
mediante la redazione di un testamento all'interno del quale venga disposto che
una quota di eredità (o anche tutta, ove non siano lesi i diritti di soggetti
legittimari), sia destinata al convivente superstite. Tali disposizioni non
potranno comunque essere inserire nel contratto di convivenza ma dovranno essere
oggetto di uno specifico testamento redatto nelle forme prescritte dal codice
civile; altrimenti si incorrerebbe nel divieto di patti successori, determinando
la nullità della clausola. Le parti possono altresì statuire sulle modalità di
esercizio dei diritti sui beni acquistati in comune e sulla sorte di tali beni
al momento del venir meno della convivenza. Sarà sufficiente inserire tali
disposizioni all'interno del contratto di convivenza, il quale come tutti i
contratti ha forza di legge ra le parti. E' assai frequente che i conviventi
indichino nel contratto anche la misura della partecipazione di ciascuno alle
spese ordinarie e straordinarie, in base alla proprie capacità di reddito e
sostanze e che venga anche valutato ai fini della distribuzione degli "sforzi"
familiari l'apporto di lavoro domestico prestato dal coniuge non lavoratore.
Anche l'educazione dei figli è un elemento spesso regolamentato all'interno
dei contratti di convivenza.
La coppia, può concordare un determinato
indirizzo educativo relativo alla prole, purché ovviamente tali disposizioni non
violino norme di legge inderogabili e non siano contrarie all'interesse della
prole.
Ulteriori previsioni potranno concernere i più svariati settori,
citando a titolo esemplificativo e non esaustivo, gli accordi sulla scelta delle
vacanze, sui viaggi, sull'impiego di risorse comuni, ecc.
Una questione di
particolare importanza è rappresentata dalla sanzionabilità o meno di eventuali
azioni compiute dal convivente in violazione alla disposizioni contenute
nell'accordo di convivenza.
A parere di chi scrive, le parti possono
tranquillamente inserire nel contratto eventuali penali in caso di mancato
rispetto delle statuizioni contrattuali suscettibili di valutazione economica,
purché la singola obbligazione non sia in contrasto con norme inderogabili di
legge o non incida su diritti di natura indisponibile. Ad esempio una clausola
contenente l'obbligo per il coniuge di concedersi sessualmente all'altro oltre
ad essere nulla per contrarietà al buon costume, comporterebbe inevitabilmente
la non sanzionabilità di un comportamento posto in essere in violazione della
stessa, e ciò in quanto si tratta di diritto che non è suscettibile di divenire
oggetto di pattuizione contrattuale. Lo stesso dicasi per un eventuale obbligo
stabilito a carico delle parti di non trasferire la propria residenza in un
determinato luogo; infatti una disposizione di tale natura striderebbe con il
diritto alla libera circolazione garantito dalla Costituzione.
Il parametro
di riferimento ed il limite invalicabile è pertanto rappresentato dall'esistenza
di diritti e di libertà che non possono essere oggetto di limitazione neppure
con il consenso degli stessi interessati. Una disposizione che preveda una
penale a carico del convivente che pone fine alla relazione prima di una
determinata data sarebbe nulla in quanto determinerebbe in primis una grave
menomazione delle libertà della persona ed in secundis mancherebbe il requisito
della patrimonialità necessario affinché un'obbligazione possa essere dedotta in
un contratto.
Ritengo inoltre che, anche in riferimento ad un
eventuale obbligo di fedeltà, sia molto difficile ipotizzare l'ammissibilità di
una sanzione pecuniaria derivante dalla sua inosservanza, proprio in virtù della
non disponibilità del diritto alla libertà sessuale e della natura non
patrimoniale del diritto. Diversamente il convivente tradito potrebbe agire in
giudizio, qualora il comportamento infedele dell'altro abbia determinato un
danno di natura non strettamente patrimoniale, quale potrebbe essere un danno
alla vita di relazione. La clausola sull'obbligo di fedeltà, pur non avendo una
vera e propria valenza giuridica, e ciò non solo per l'indisponibilità del
diritto ma anche per la non patrimonialità dello stesso, può essere comunque
inserita nel contratto (senza che ciò infici in alcun modo la validità dello
stesso), come dovere di natura morale, ovviamente non sanzionabile
giuridicamente.
Ma l'aspetto che più di frequente spinge le parti a
decidere di stipulare un contratto di convivenza, è la regolamentazione dei
rapporti patrimoniali in previsione di una futura ed ipotetica rottura del
rapporto. Queste disposizioni sono spesso orientate nell'assicurare al
convivente più debole una forma di assistenza anche successivamente al venir
meno della convivenza. Si tratta di una forma assistenziale e di soccorso
ritenuta certamente meritevole di tutela dal nostro ordinamento, anche in virtù
del vincolo di solidarietà che ha unito due soggetti per un lungo periodo di
tempo.
Ritengo che nell'inserimento delle disposizioni contrattuali sia
sempre molto importante valutare clausola per clausola l'aspetto sinallagmatico;
vale a dire, la prestazione oggetto dell'obbligazione dedotta in contratto deve
essere posta in corrispondenza biunivoca con un'altra prestazione, di natura
reale o obbligatoria, a carico dell'altro convivente. Il sinallagma contrattuale
e l'esistenza di prestazioni valutabili da un punto di vista patrimoniale,
consentono di conferire all'accordo di convivenza, piena valenza contrattuale.
Sulla forma dei contratti di convivenza, è lapalissiano che -in
considerazione della delicatezza degli argomenti affrontati- sia opportuno
redigerli per iscritto, anche se nessuna norma impone tale forma per la
redazione degli stessi. Qualora nel contratto siano inserite pattuizioni
relative a negozi che richiedono una forma ab substantiam, la stessa forma dovrà
essere adottata per la redazione del contratto di convivenza.
Si consiglia
comunque di redigere il contratto nella forma della scrittura privata,
eventualmente autenticata da un Pubblico Ufficiale.
La sottoscrizione del
Pubblico Ufficiale (ad esempio il Notaio), avrà come fine quello di autenticare
le sottoscrizioni delle parti e di attribuire data certa all'atto. La certezza
della data potrà comunque essere garantita anche in altro modo, come ad esempio
mediante notifica a mezzo di Ufficiale Giudiziario del contratto.
Sulla base
di quanto testé affermato possiamo tranquillamente concludere che pur in assenza
di una regolamentazione organica della materia, la convivenza tra due soggetti
può essere oggetto di specifico accordo tra le parti, mediante la stipula di un
contratto di convivenza, che in quanto non contenente clausole contra legem, è
pienamente valido ed ha efficacia di legge tra le parti. Il problema del
riconoscimento delle cosiddette coppie di fatto è pertanto più teorico che
pratico o forse oserei dire più politico / sociale che giuridico.
Gli
aspetti più importanti che nettamente differenziano ad oggi il trattamento
riservato alle coppie sposate rispetto a quelle di fatto, sono rappresentati
dall'automaticità di alcuni diritti spettanti ai soggetti sposati, che vengono
ad essi attribuiti per il solo fatto della celebrazione del matrimonio e che
permangono anche successivamente all'eventuale scioglimento dello stesso.
Ci
riferiamo:
1) ai diritti successori del coniuge, il quale rientrando tra i
legittimari non potrebbe in alcun modo essere escluso dalla successione del
coniuge deceduto ma al quale anzi è per legge riservata come quota legittima una
cospicua parte del patrimonio del coniuge deceduto;
2) alla pensione di
reversibilità che spetta al coniuge supersite o anche al coniuge separato che al
momento del decesso dell'altro beneficiava dell'assegno divorzile;
3) ad una
quota spettante la coniuge divorziato sul trattamento di fine rapporto
dell'altro coniuge.
Ad una attenta analisi rileviamo come tali diritti
possano essere attribuiti anche attraverso la sottoscrizione di un contratto di
convivenza tra soggetti non uniti in matrimonio, il quale preveda l'obbligo per
il soggetto di corrispondere all'altro convivente una parte del proprio TFR o
l'obbligo di stipulare un assicurazione la quale preveda che in caso di morte di
uno dei soggetti, sia riservata all'altro una somma di denaro una tantum o sotto
forma di vitalizio. Lo stesso discorso vale per i diritti successori; ben
possono i conviventi fare testamento istituendo come erede l'altro
convivente.
Il punto di divergenza sostanziale tra le due forme di unione è,
a parere di chi scrive, quello che -in caso di matrimonio- tali diritti sono
attribuiti ai coniugi automaticamente e senza che sia necessaria la volontà ed
il consenso dell'altro (che comunque viene prestato in occasione della
celebrazione del matrimonio), mentre -in caso di convivenza- tali diritti devono
essere espressamente previsti ed attribuiti mediante la sottoscrizione di un
contratto.
Si diventa pertanto titolari in caso di matrimonio di alcuni
diritti, per il solo fatto di essere sposati e tali diritti spesso permangono in
capo ai soggetti anche successivamente allo scioglimento del vincolo. In effetti
con il matrimonio le parti limitano in modo sostanziale la propria autonomia
negoziale, da un lato rinunziando a taluni diritti, dall'altro divenendo
titolari di altri.
Con il matrimonio, le parti sono maggiormente garantite da
un punto di vista patrimoniale, potendo contare sull'obbligo a carico dell'altro
coniuge di compiere una serie di prestazioni patrimoniali, anche successivamente
allo scioglimento del vincolo. Ma a ben vedere lo stesso risultato è ottenibile
mediante un semplice accordo di convivenza.
Ciò che cambia è la forma del
consenso: nel caso di matrimonio prestato dinnanzi ad un ministro di culto o ad
un ufficiale dello stato civile; nel caso di accordo di convivenza prestato
dinnanzi ad un notaio e semplicemente sottoscritto tra le parti.
Autore: Avv. Matteo Santini - tratto da: www.ergaomnes.net