La rilevanza dei rapporti familiari in campo commerciale
Sommario:
A) Premessa
B) Rapporti familiari e diritto societario
b.1) Impresa familiare e azienda coniugale
b.2) Impresa collettiva e società
C) Rapporti familiari e diritto fallimentare
c.1) Presunzione muciana e comunione legale
c.2) Presunzione muciana e regime di separazione
D) Rapporti familiari e diritto tributario
d.1) Regimi patrimoniali ed imposte dirette
d.2) Regimi patrimoniali ed imposte indirette
A) Premessa
Oggetto della presente disamina è il riflesso che i rapporti di tipo familiare (coniugio,
parentela e affinità) possono avere in un settore patrimoniale per stessa connaturazione.
Infatti si analizzeranno gli effetti dei rapporti familiare in campo commerciale. Si deve,
però, procedere con molta cautela, evidenziando preliminarmente che la ratio di
tutte le fattispecie "commerciali" è improntata ad una normativa specifica che
tutela innanzitutto la patrimonialità, e soltanto successivamente "l'interesse
superiore della famiglia". Occorre sottolineare quindi che i rapporti familiari
presuppongono il concetto giuridico di "centro di interessi" la rilevanza del
quale è stata oggetto di aspre dispute dottrinarie.
A noi sembra comunque di dover protendere per un riconoscimento di giuridicità per
ragioni di ordine dogmatico e pratico appresso enunciate. Nella presente disamina, quindi,
si analizzerà la rilevanza di detto interesse un campo commerciale, e cioè partitamente
nei campi societario, fallimentare e tributario, tenendo sempre da conto che ai rapporti
familiari non è estraneo un interesse di natura patrimoniale.
B) Rapporti familiari e diritto societario
Il concetto giuridico di "interesse familiare" è evidente in diritto societario
solo che si consideri la "doppia" posizione del socio-coniuge e del
socio-parente. Si considera in conflitto di interessi, per esempio, il socio di una
società di capitali il quale voti una delibera che abbia come oggetto il compenso del
coniuge amministratore unico della stesa società.
Oppure si è ravvisato una violazione dell'obbligo di "fedeltà" (art. 2105
c.c.) di un amministratore di società, il coniuge del quale aveva acquisito quote di una
società concorrente, legittimandone così il licenziamento.
L'esistenza di questo centro di interessi patrimoniali, costituito dai rapporti familiari,
è inoltre richiamata per istituire un collegamento tra società ai sensi dell'art. 2359
c.c., con tutte le conseguenze che da ciò può derivare. Un tale collegamento, per
esempio, è stato ravvisato nella materia dei pubblici appalti, dove la
"partecipazione alla gara solo di ditte la cui titolarità apparteneva agli stessi
soggetti o comunque a soggetti legati da rapporti di parentela" non assicurerebbe il
rispetto del principio fondamentale di concorrenza, posto a base della trasparenza ed
efficienza in questo campo.
Pertanto, il dato comune ai rapporti familiari in tema societario sembra essere che per la
legge, le parti -data la loro particolare posizione- sono nelle condizioni di tenere
comportamenti particolarmente lesivi del patrimonio sociale o dell'azienda del datore di
lavoro. E' per questo motivo che vengono previste conseguenze che vanno
dall'annullabilità di certi atti, alle sanzioni disciplinari nei confronti del
dipendente, fino al risarcimento dei danni. Quanto a quest'ultima sanzione occorre
sottolineare che un soggetto che è parte dei contratti sopracitati (società, lavoro,
ecc.) ed è soggetto di rapporti "familiari", non è ipso facto in
conflitto di interessi; ovverosia, la semplice circostanza che lo stesso soggetto abbia un
proprio interesse patrimoniale non genera conflittualità di interessi contrapposti.
Occorre, infatti, anche la dimostrazione del danno ingiusto -almeno potenziale- alla
società. Oppure, nel rapporto di lavoro, che il dipendente tratti affari, per conto
proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore.
b.1) Impresa familiare e azienda coniugale
Altra casistica si riscontra nel confronto tra normativa dei rapporti familiari e quella
relativa al contratto di società (art. 2247 c.c.) ed alla qualifica di imprenditore
commerciale. Infatti in tema di azienda coniugale (nelle diverse accezioni di cui agli
artt. 177, lett. d; 177, ultimo comma; 178 c.c.) e impresa familiare (art. 230-bis c.c.),
che vengono intese come forme di organizzazione della famiglia in senso lavorativo, si è
proposto di considerare i componenti l'impresa familiare come contitolari e cogestori e la
stessa impresa familiare come un organismo di tipo societario. Dello stesso tipo sono le
questioni poste per l'azienda coniugale. Per una buona parte della dottrina il riferimento
normativo alla gestione di entrambi i coniugi permetterebbe di considerare l'azienda
coniugale come un'impresa collettiva (non società) oppure una società, sempre che sia
possibile -così si dice- isolare l'affectio societatis sullo sfondo dell'affectio
coniugalis. Infatti, a ben vedere, i rapporti sociali si inquadrano nella normativa
dei rapporti familiari ed hanno una funzione riconducibile al "mantenimento".
Impresa familiare ed azienda coniugale, inoltre, svolgono un'ulteriore funzione, al di
fuori della materia strettamente familiare. Infatti, nelle ipotesi nelle quali vi è la
collaborazione di un familiare nell'impresa di un altro, si vuole escludere che questa
collaborazione sia a titolo gratuito assicurando, nel caso nulla sia disposto, un minimo
retributivo e normativo. In ogni modo si tratta di regole che valgono tra familiari.
b.2) Impresa collettiva e società
Quanto alle società viene in rilievo l'applicazione di una normativa di altro tipo ma
comunque ordinata sugli stessi principi. Invero, con essa i soggetti sono parti di un vero
e proprio contratto, in virtù del quale conferiscono beni e servizi per lo svolgimento
dell'attività di impresa di cui all'art. 2082 c.c. Un contratto che deve avere i
requisiti di cui all'art. 1324 c.c., nonché seguire le regole di cui agli art. 2247 e ss.
c.c.
Quindi, la qualità di socio non si riduce ad un rapporto obbligatorio interno, istituito
per legge, ma attraverso lo strumento del contratto assume una rilevanza esterna. Nella
società, infatti, "all'azione esterna dell'impresa corrisponde l'efficacia esterna
della sua organizzazione" conseguentemente, la qualità di socio conferisce una
responsabilità (sia essa limitata o illimitata) nei confronti dei terzi, diritti di
informazione oltre che economici; e nelle società di persone -a certe condizioni- anche
un potere di rappresentanza. Ma la differenza con la disciplina di cui al precedente
paragrafo, è evidente soprattutto in tema di responsabilità. Infatti, proprio questo
aspetto distingue il socio dal coniuge dell'imprenditore nell'azienda coniugale e dal
collaboratore familiare nell'ipotesi di cui all'art. 230-bis c.c.. Questi ultimi, infatti,
non hanno alcun tipo di responsabilità nei confronti dei terzi. Chi risponde è sempre e
comunque l'imprenditore. Quanto poi al rapporto di coniugio, tra i coniugi -per esempio-
potrebbe anche instaurarsi una società di persone o di capitali, il che avrà certe
conseguenze nei rapporti della società e dei soci con i terzi. Ora, se i soci sono in
regime di comunione legale, la relativa normativa potrà ancora applicarsi, in modo da
perseguire le sue finalità proprie. Questo accadrà solo nel caso di scioglimento della
comunione. In questo caso, se è configurabile un'azienda coniugale ai sensi, per esempio,
dell'art. 177, lett. d) c.c., il valore netto dell'azienda concorrerà con gli altri
elementi passivi e attivi a determinare la quota spettante ai due coniugi. In definitiva,
quindi, non è sempre facile stabilire con chiarezza quando e se ricorra un contratto
sociale. E ciò sembra non il risultato di una sovrapposizione tra normativa contrattuale
e familiare ma forse semplicemente una preminenza di quest'ultima.
C) Rapporti familiari e diritto fallimentare
Lo stesso problema di concorso di normative si ravvisa in campo fallimentare.
Tra i problemi posti dal confronto tra diritto fallimentare e rapporti familiari, il più
dibattuto è quella della sopravvivenza della presunzione muciana, dopo l'entrata in
vigore della L. 151 del 1975. E' della fine degli anni ottanta la "scoperta", ad
opera soprattutto della giurisprudenza, che la cosiddetta presunzione muciana, prescritta
dall'art. 70 L.F. sarebbe stata abrogata proprio dalla L. 151 del 1975 .
Una tale scoperta è avvenuta in due tempi. In un primo momento si è ritenuta la
presunzione muciana "incompatibile" con il regime della comunione legale.
Successivamente, l'art. 70 L.F. è stato considerato abrogato con riferimento anche ai
coniugi in regime di separazione dei beni. Sulla ricostruzione del problema pesa molto la
teoria che si adotta riguardo ai cosiddetti regimi patrimoniali tra coniugi.
Diversamente dalla concezione più diffusa, per la presente disamina i rapporti
patrimoniali sono funzionali all'obbligo di mantenimento e partendo da queste premesse, il
problema della presunzione muciana si presenta in altri termini.
La disciplina della comunione legale non si trova in una situazione di incompatibilità
con l'art. 70. Ciò sotto il profilo dei soggetti, dell'oggetto, e soprattutto funzionale.
Dal punto di vista soggettivo la comunione legale non distingue se uno dei coniugi sia
imprenditore o meno. Tra la normativa della comunione legale e quella dell'art. 70 l.
fall. Potrebbe esserci un rapporto tra genere e specie, che per un parte della
giurisprudenza escludeva l'abrogazione implicita della presunzione muciana. Oltre a questo
rilievo si può far notare che le due normative sono diverse sotto il profilo oggettivo.
Infatti, l'art. 70 l. fall. prende in considerazione singoli beni, mentre la comunione fa
riferimento ad una quota. Detta quota è determinata con riferimento a alcuni beni
soltanto, con l'esclusione dei beni personali e considerando i redditi de residuo,
sottratti alcuni debiti, come quelli indicati nell'art. 189 c.c. Ma la differenza più
importante tra le due normative è di tipo funzionale. Invero, il principio sul quale
ruota la normativa della comunione è l'interesse al mantenimento, il che spiega la
previsione di un diritto di credito (alla quota della comunione) riconosciuto soprattutto
a vantaggio del coniuge che non è titolare di beni. Infatti, con la normativa della
comunione i coniugi diventano garanti l'uno dell'altro nei confronti dei terzi. In effetti
i beni di cui ciascun coniuge è separatamente titolare possono essere aggrediti dai
creditori dell'altro coniuge, nell'ipotesi di incapienza del patrimonio del debitore. Ma a
ben vedere questa misura è soprattutto funzionale alla tutela dell'interesse al
mantenimento. Difatti la legge, individuando un bene come appartenente alla comunione,
anche se di proprietà del coniuge debitore, attraverso il limite stabilito nell'art. 189
c.c. impedisce che l'altro sia completamente privato del suo credito al mantenimento.
Questa normativa non sembra agire sullo stesso piano di quella della presunzione muciana,
che ha la ben diversa funzione di tutelare le ragioni dei creditori. Le diversità tra le
due normative (sotto il profilo oggettivo, soggettivo e funzionale) non può essere
considerata incompatibilità. Esse convivono perfettamente ognuna nel suo ambito
specifico. Quando si verifica il fallimento di uno dei coniugi in comunione legale,
l'operatività della presunzione di cui all'art. 70 L.F. non impedisce certo che l'altro
coniuge possa far valere il credito della quota della comunione legale. La comunione in
virtù del fallimento si scioglie e ciò comporta la individuazione di detta quota. Ciò
detto, sembrano potersi superare anche i problemi di incompatibilità tra presunzione
muciana e regime di separazione. Quindi, non si comprende bene per quale motivo l'art. 193
c.c. non avrebbe alcuna funzione se la presunzione muciana non fosse stata implicitamente
abrogata anche con riferimento al regime di separazione dimenticando che la separazione
giudiziale dei beni emergerebbe il credito per la quota di comunione, che potrebbe sempre
farsi valere nel passivo del fallimento.
c.1) Presunzione muciana e comunione legale
Secondo la giurisprudenza di legittimità di questi ultimi anni l'art. 70 L.F. sarebbe
stato tacitamente abrogato per incompatibilità con la normativa della comunione legale.
Questa tesi sarebbe confortata anche dal confronto con i principi costituzionali. A parere
della Corte di Cassazione l'art. 70 presupponeva che il regime patrimoniale operante fra i
coniugi fosse quello della separazione. La presunzione muciana, afferma la Cassazione, si
inseriva in un sistema che prevedeva come regime legale, appunto, il regime della
separazione, che comportava la rispettiva indipendenza del patrimonio dei due coniugi e la
libertà patrimoniale di ciascuno di essi nei confronti dell'altro. Il regime della
comunione, divenuto il regime legale a seguito della riforma del diritto di famiglia,
comporterebbe che ogni bene acquistato anche separatamente dall'uno o dall'altro coniuge
(art. 177, comma 1, lett. a, c.c.) e a chiunque dei due appartenga il denaro occorrente,
diventi di proprietà comune (art. 177, comma 1, lett. a, c.c.), salvo che non si tratti
di bene personale (art. 179 c.c.) o di bene destinato all'esercizio dell'impresa
appartenente già ad uno dei coniugi soltanto (art. 178 c.c.).
Il nuovo assetto patrimoniale dei rapporti tra i coniugi non avrebbe pertanto una sola
rilevanza interna, ma avrebbe una importante conseguenza nel rapporto tra i coniugi ed i
terzi creditori. Il che si evincerebbe dal fatto che il codice regola il conflitto fra
creditori personali di ciascun coniuge e i creditori della comunione (artt. 189 e 190) e
limita il diritto dei creditori di ciascun coniuge -compreso quello che viene dichiarato
fallito- di aggredire i beni della comunione soltanto fino al valore corrispondente alla
quota del coniuge obbligato (art. 189). Inoltre, tra le cause di scioglimento della
comunione è incluso il fallimento di uno dei coniugi (art. 191, comma 1), il che dimostra
proprio che i creditori, anche nell'esecuzione coatta concorsuale, possano soddisfarsi sui
beni della comunione nei limiti della parte di competenza del fallito.
c.2) Presunzione muciana e regime di separazione
Dopo che la Cassazione ha sancito la "fine dimezzata" della presunzione muciana,
sembrava che questa avesse potuto continuare ad applicarsi ai coniugi in regime di
separazione dei beni. E' passato però ancora qualche anno e si è arrivati a considerare
l'art. 70 L.F. definitivamente abrogato. L'argomento principale a sostegno
dell'abrogazione dell'art. 70 ruota intorno all'art. 193 c.c., il quale considera il
fallimento ed il dissesto degli affari come presupposto della separazione giudiziale dei
beni. Secondo l'orientamento attuale la disposizione sarebbe la principale di un gruppo di
norme (insieme agli artt. 181, 182, 183, 184 e 191 c.c.) con le quali si salvaguardia la
posizione del coniuge in comunione dell'imprenditore.
Si ritiene che, se la presunzione muciana non fosse stata abolita anche per il regime di
separazione, l'art. 193 c.c. sarebbe completamente svuotato della sua funzione. Infatti,
in questo caso, il coniuge che chiedesse la separazione giudiziale peggiorerebbe la sua
condizione, visto che tutti i beni sarebbe attratti al fallimento, senza neppure la
limitazione possibile nel regime di comunione.
D) Rapporti familiari e diritto tributario
I concetti giuridici di "rapporti familiari" e di "interesse della
famiglia" hanno riflesso anche in campo tributario. L'aspetto che piu di altri rileva
è quello del trattamento dell'assegno di mantenimento.
Nella casistica giurisprudenziale, spesso si incontra il problema di qualificazione
dell'assegno di mantenimento, previsto dalla disciplina della separazione, del divorzio o
di annullamento del matrimonio e corrisposto al coniuge od all'ex-coniuge. Questo assegno
da un lato è considerato onere deducibile a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U.
Imposte sui Redditi, da parte dell'obbligato; dall'altro è qualificato come reddito
assimilato a quello di lavoro dipendente, ai sensi dell'art. 47 dello stesso T.U. Nel caso
in cui detto assegno è determinato in unica soluzione, pur rimanendo un onere deducibile,
non costituirebbe reddito per il beneficiario. Esso sarebbe attribuito, infatti, a titolo
di risarcimento o di rimborso per l'apporto alla vita coniugale fornito dal percipiente.
Sotto il profilo civilistico questa impostazione è probabilmente non corretta. Infatti
l'assegno di mantenimento, seppure attribuito in unica soluzione, non è riconducibile
alla responsabilità civile od all'ingiustificato arricchimento. L'unico dato
problematico, sotto il profilo tributario, è se la somma così determinata vada a far
parte interamente della base imponibile dell'I.R.P.E.F. nell'anno in cui essa viene
percepita. Sembra preferibile considerare questa somma soggetta a tassazione separata, in
analogia a quanto accade per le somme percepite in dipendenza della cessazione dei
rapporti di lavoro, anche se non costituiscono una retribuzione differita (in particolare
v. art. 16, comma 1, lett. a), che tratta di somme percepite a seguito di accordi
transattivi fra datore di lavoro e dipendente).
d.1) Regimi patrimoniali ed imposte dirette
La comunione legale, quella convenzionale, il fondo patrimoniale e l'usufrutto
legale hanno innanzitutto una rilevanza per quanto riguarda le imposte sui redditi.
Infatti, l'art. 4 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi prescrive che:
-"i redditi dei beni che formano oggetto della comunione, sono imputati per metà del
loro ammontare netto a ciascuno dei coniugi; nel caso di comunione convenzionale la quota
di imputazione dipende dall'atto di cui all'art. 161 c.c.";
-"sono imputati con lo stesso criterio previsto per la comunione i redditi dei beni
del fondo patrimoniale"; inoltre,
-"sono attribuiti ai genitori i redditi derivanti dai beni oggetto dell'usufrutto
legale".
L'applicazione di queste disposizioni non ha riservato molti problemi, se non quelli
legati alla individuazione dei beni facenti parte, soprattutto, della comunione legale e
dell'usufrutto legale. Tra questi qualche difficoltà è stata posta dalle aziende
coniugali, per le quali si riflettono i problemi nella tradizionale interpretazione
civilistica. In qualche occasione, infatti, è parso che le aziende in comunione
costituissero presuntivamente una società di fatto. Generalmente, tuttavia, si riconosce
che i redditi netti da esse prodotti siano reddito di imprese, in capo al coniuge
imprenditore, e un reddito di partecipazione per il coniuge cogestore. Questa
precisazione, però, ha perso gran parte della sua importanza, dopo che è entrata in
vigore la vigente disciplina dell'imposta locale sui redditi.
d.2) Regimi patrimoniali ed imposte indirette
Altre questioni riguardano le imposte indirette, specialmente l'I.V.A., l'Imposta di
Registro, l'Imposta di Donazione (e successione) le Imposte Ipotecaria e Catastale ed, in
quanto ancora applicabile, l'INVIM.
Sotto l'influenza della corrente concezione civilistica dei rapporti patrimoniali, si
ritiene che questi ultimi siano rilevanti per l'applicazione delle imposte che colpiscono
i trasferimenti, quindi, l'attribuzione di un bene ad un regime patrimoniale, la
successiva alienazione di questo bene, realizzerebbe il presupposto dell'imposta di
registro (e delle imposte che ad essa si richiamano. Imposta di successione e donazione,
Imposte Ipotecaria e Catastale e INVIM) determinata in modo proporzionale, potendosi far
rientrare negli "Atti traslativi della proprietà di beni immobili in genere e atti
traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento" (art. 1, allegato
A - Tariffa, parte I, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131), oppure nella stessa tipologia di
atti che riguardano i beni mobili (v. art. 2 della stessa Tariffa). Per gli autoveicoli
varrebbe lo stesso principio, al fine dell'applicazione della Imposta Erariale di
Trascrizione (I.E.T.) e la relativa Addizionale (A.P.I.E.T.), in quanto, come sostiene una
circolare del P.R.A. (Direzione centrale sistemi informativi) "la costituzione del
fondo patrimoniale, come specifica l'art. 168 c.c., comporta l'acquisto della proprietà
in capo ad uno dei due coniugi od al terzo costitutore".
Gli stessi realizzerebbero il presupposto oggettivo dell'imposta sul valore aggiunto,
descritto all'art. 2 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 che così recita:
"Costituiscono cessioni di beni gli atti che importano trasferimento della proprietà
ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni
genere". Nutrita è la casistica giurisprudenziale.
Si discute -per esempio- quale sia la tassazione della destinazione di un bene al fondo
patrimoniale. Secondo una prima tesi, con la destinazione di un bene al fondo si
realizzerebbe per una metà un atto di liberalità tra coniugi e come tale colpito dalla
Imposta di Successione e Donazione (e dalle altre imposte che utilizzano lo stesso
presupposto). Per l'altra metà si tratterebbe di un atto "dichiarativo" a
contenuto patrimoniale, tassato con l'imposta proporzionale di registro, con l'aliquota
(attuale) dell'1%. Per un'altra tesi, la destinazione al fondo patrimoniale non realizza
un trasferimento di un diritto reale, almeno nella ipotesi in cui nulla sia espresso
nell'atto. Generalmente, pertanto, la destinazione al fondo patrimoniale sconterebbe
l'imposta fissa per gli atti pubblici che non hanno contenuto patrimoniale, ai sensi
dell'art. 11 della Tariffa citata.
Un'altra questione interessante è quella posta dall'uso da parte del coniuge di un bene,
che ricade nella comunione legale, per l'esercizio della sua attività di impresa. Si
ritiene che in questo caso, indipendentemente dalla titolarità del medesimo bene, la
successiva alienazione sia tassata per una metà, quella riferibile al coniuge
imprenditore, con l'imposta sul valore aggiunto; per l'altra metà, quella del coniuge non
imprenditore, con l'imposta di registro proporzionale. Per un altro orientamento
giurisprudenziale il bene di proprietà del coniuge non imprenditore, essendo stato
destinato alla attività di impresa dell'altro coniuge, deve essere interamente
assoggettato all'imposta sul valore aggiunto.
di Giovanni Profazio