La nuova disciplina del rapporto di lavoro a termine

Sommario

1. Nozione ed evoluzione normativa del contratto di lavoro a termine: verso la flessibilità.

2. Ambito di applicabilità della disciplina e forma del contratto di lavoro a termine.

3. Le vicende del rapporto di lavoro

4. Oltre il primo contratto a termine

5. Considerazioni conclusive

BIBLIOGRAFIA

NOTE

1. Nozione ed evoluzione normativa del contratto di lavoro a termine: verso la flessibilità

Prima di affrontare la disciplina del rapporto di lavoro a termine è opportuno fare un accenno preliminare al rapporto di lavoro subordinato, in quanto il primo non è altro che uno specifico istituto del secondo, caratterizzato dalla sua durata temporale.

Il rapporto di lavoro subordinato, la cui definizione può dedursi dall’art. 2094 cod.civ.: “prestatore di lavoro subordinato è colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’ imprenditore”, consiste in una relazione tra due soggetti di diritto che si obbligano reciprocamente: l’uno, il lavoratore, ad espletare la propria prestazione lavorativa; l’altro, il datore, a dare una retribuzione come corrispettivo.

Tale rapporto di lavoro, come si evince dallo stesso termine “subordinato”, e dalla stessa lettera dell’ art. 2094, è caratterizzato da una posizione impari tra le due parti.

Infatti il datore di lavoro, avendo maggior potere contrattuale, potendo decidere chi, come e quando assumere, relega in una posizione subalterna e di dipendenza il lavoratore.

E' proprio l’interesse per la tutela del lavoratore nei confronti della controparte datoriale, che è stato a fondamento di tutto l’ordinamento del diritto del lavoro.

Di conseguenza l’interesse del lavoratore alla stabilità del proprio posto di lavoro, ha indirizzato il favor legislativo alla tipizzazione del lavoro subordinato come rapporto a tempo indeterminato.

Mi rivolgo con i verbi al passato per voler esprimere un cambiamento di tendenza nella politica del lavoro che ha determinato, fino agli anni ’70, un regime di rigidità e di massima garanzia per il lavoratore.

Le successive evoluzioni di mercato, hanno poi portato ad una progressiva flessibilità e deregolamentazione del rapporto di lavoro, processo questo ancora oggi attuale e in divenire.

E’ quindi in base alla tendenza alla liberalizzazione, che prenderemo in esame le varie normative riguardanti il contratto a termine.

Prima di dare una rappresentazione dinamico-evolutiva del lavoro a tempo determinato, è meglio fornirne una definizione che lo configura come un rapporto subordinato in cui è previsto un termine, a data certa o per relationem, di estinzione.

Detta definizione si basa su quanto previsto dalla clausola n.3 dell’ Accordo Quadro attuato nella DIR CE/99/70, posto a fondamento dell'emanazione del D.lgs. 368/01, laddove prevede che “il lavoratore a tempo determinato indica una persona con un contratto o rapporto di lavoro definiti direttamente tra il datore di lavoro e il lavoratore, in cui il termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico”.

Da ciò si deduce che il termine non implica la configurazione di un contratto tipico diverso, nel senso che non riesce ad incidere sulla fisionomia della causa del contratto, consistente pur sempre nello scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione.

Infatti, il termine, se apposto, postula unicamente l’applicazione di una disciplina specifica, di conseguenza la particolarità del lavoro a termine si traduce e si esaurisce nella specialità della sua normativa [1].

Questa tesi appare fondata anche se nell’odierna stagione di deregolamentazione del rapporto di lavoro, quello a termine comincia ad assumere valenza autonoma.

Procedendo ora ad una analisi diacronica-evolutiva del contratto a termine, è necessario, analizzarne l'evoluzione sin dal vigente codice civile del ’42, dove era disciplinato dall’abrogato art. 2097 sotto la rubrica “durata del contratto”, laddove prevedeva che “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto. In questo caso l’apposizione del termine è priva di effetto se è fatta per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato”.

L’art. 2097 poneva in evidenza il favore legislativo per l’interesse del lavoratore alla continuità dell’occupazione, in un momento storico, caratterizzato da un mercato fondato sulle molteplici economie locali, ove le attuali esigenze di flessibilità del lavoro non erano ancora avvertite e, di conseguenza, non se ne teneva conto de iure condito.

Infatti la norma in esame, a seguito delle successive evoluzioni, è stata ritenuta dalla dottrina successiva perfino inadeguata, rispetto alle esigenze del lavoratore, in quanto quest'ultimo avrebbe ricevuto una “protezione” più formale che sostanziale [2], essendosi di fatto diffuse pratiche elusive, fondate per altro su di un onere probatorio posto a suo carico in merito all'intenzione del datore.

Ciò ha indotto il Legislatore del ’62, in un’epoca caratterizzata da un forte fermento sindacale, all’emanazione di una disciplina severa e rigida, dettata dal precipuo intento di reagire alla fraus legis.

Di conseguenza è stata emanata la Legge 230/62, che all’art. 9 abroga espressamente l’art. 2097 del codice civile.

Tale legge afferma chiaramente all'art. 1 che “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato salvo le eccezioni…”; relegando quindi in posizione di eccezionalità il contratto a termine, ove ne prevede l'ammissibilità solo in casi tassativamente previsti.

Inoltre la Legge 230/62, a differenza della precedente disposizione codicistica, prevede varie innovazioni, tra cui:

1. l’adozione della forma scritta ad substantiam, da cui deve risultare l’apposizione del termine;

2. la previsione dell'onere probatorio a carico del datore di lavoro, circa l’esistenza delle ragioni legittimanti il contratto a termine o la sua proroga;

3. la disciplina specifica per i casi di proroga, continuazione e successione del rapporto di lavoro;

4. la parità di trattamento tra lavoratore a termine e quello a tempo indeterminato;

5. la dettagliata regolamentazione dell'illegittima proroga, di continuazione oltre i termini e di tempestiva riassunzione, con conseguente applicazione della grave sanzione della conversione del rapporto a tempo indeterminato.

Tale legge, insieme alla L 300/70, che, avendo raggiunto la massima espressione di rigidità, segna il passaggio cronologico verso la tendenza alla deregolamentazione del mercato del lavoro, e in particolare verso il declino del modello tayloristico-fordista.

Da questo momento in poi si assiste ad una generale emersione di nuove forme di lavoro atipico, come il lavoro interinale, a prestazioni coordinate e continuative tra cui nasce la figura del professionista free-lance etc.

Per quanto riguarda il contratto a termine, dopo un progressivo ampliamento del suo ambito di applicabilità previsto dalle L. 18/78, 79/83, 56/87, 223/91, si perviene, a seguito dell'emanazione del D. Leg. 368/01, alla sua “liberalizzazione controllata” (in quanto di vera liberalizzazione non si tratta).

Procederemo ora ad un'analisi, in ordine cronologico, dei più importanti interventi normativi in materia.

In attuazione dell’art. 1 comma 3 L. 230/62 ed a specificazione del primo caso di ammissibilità del contratto a termine in essa previsto, è stato emanato il D.P.R. 1963 n°1525, contenente un’elencazione delle attività stagionali.

Su tale intervento normativo occorrono due osservazioni.

La prima osservazione si fonda sulla considerazione che l'elencazione fornita indica una presunzione relativa di attività stagionale.

Infatti una sentenza della pretura di Milano 30 Aprile 1999, ribadisce che “la semplice previsione di una determinata attività non può da sola conferire alla stessa il carattere della stagionalità, affinché sia tale deve svolgersi effettivamente in una determinata stagione dell’anno [3]” .

Dello stesso orientamento è la Corte di Cassazione, che nella sentenza n°12120 del ’99 ribadisce che “è illegittimo il termine apposto al contratto di lavoro relativo ad un’attività che , pur potendo formalmente ascriversi all’elenco delle attività stagionali, risulti di fatto prestata con carattere di continuità o comunque per periodi molto lunghi [4].

La seconda osservazione è che il D.P.R. 1963 n°1525, a seguito del D. Lgs. 368/01, seppur rimanendo in vigore, andrà ad assolvere un’altra funzione che non è più quella di individuare le ipotesi di legittima applicabilità del termine, ma quella, ex art.10 comma 7 dello stesso decreto, di determinare i contratti a termine che potranno essere utilizzati senza limiti quantitativi.

Pertanto anche la ratio legis di tale D.P.R. muta per adeguarsi alla tendenza di flessibilità del mercato del lavoro.

Prima di analizzare la successiva evoluzione normativa in materia, è bene sottolineare che la L. 230 /1962 è stata una disciplina generale e quindi di riferimento, che, di conseguenza, ha esteso la sua applicabilità anche alle nuove ipotesi di contratto a termine, successivamente entrate a far parte del nostro ordinamento.

Un vero e proprio temperamento della rigidità della disciplina del lavoro a tempo determinato si deve alla normativa relativa alle c.d. ‘punte stagionali’, che da un lato aumenta l’ambito di ammissibilità del contratto a termine in linea con la flessibilità e, dall’altro, ne prevede, quasi a voler bilanciare, un controllo amministrativo legittimante.

Inizialmente la legge 3 Febbraio 1978 n°18 prevedeva la possibilità, seppur ad efficacia temporanea, di stipulare contratti a termine per far fronte alle punte stagionali negli specifici settori del commercio e del turismo stabilendo che “è consentita l’apposizione del termine quando si verifichi, in determinati periodi dell’anno, una necessità di intensificazione dell'attività lavorativa, cui non sia possibile sopperire con il normale organico”.

Successivamente l’efficacia della legge del ’78, a seguito della Legge 79/83, è stata prorogata ed estesa definitivamente a tutti i settori economici, riconoscendo anche ai lavoratori così assunti ed a quelli stagionali, il diritto di precedenza nella riassunzione, presso la stessa azienda [5].

Detto diritto è stato ora delegificato e delegato alla contrattazione collettiva dalla L. 368/01, che inoltre abroga esplicitamente la previsione della specifica fattispecie relativa alle punte stagionali.

La fattispecie per punte stagionali si pone come ipotesi ulteriore e diversa rispetto a quelle previste dalla L 230/62 art. 1 lettere a) e c), differendo dalla mera attività stagionale di per se periodica, in quanto è giustificata da una intensificazione di una attività di natura “continua”.

L'ipotesi della lettera c), prevedendo la ricorrenza di eventi eccezionali e irripetibili, si discosta dalle "punte stagionali costituite", fondate invece su da situazioni prevedibili e ricorrenti in determinati periodi dell’anno [6].

Si tratta dunque, come osservato dalla stessa Corte di Cassazione (sentenze numeri: 4395/88, 1010/89, 3214/90 e 924/93) e dalla dottrina, di una disciplina non interpretativa e neppure modificativa della 230/62, ma di natura innovativa.

Detta fattispecie e peraltro non solo nuova, ma anche a struttura complessa, avendo il legislatore prescritto, per l’accertamento dell’esistenza dei requisiti previsti dalla legge come presupposto legittimante del termine, il necessario ricorso ad una procedura di controllo amministrativo con valenza autorizzatoria rispetto alla successiva stipulazione dei contratti [7].

Il provvedimento dell’Ispettorato del lavoro costituisce pertanto un fatto di legittimazione e una condicio iuris, rispetto ai singoli contratti di lavoro a tempo determinato e alla loro eventuale proroga.

Una radicale innovazione è stata introdotta dall’ art. 23 L. 56/87, che attribuisce alla contrattazione collettiva un vero e proprio potere normativo nell’individuazione di nuove ipotesi di lavoro a termine e nel prevedere un limite percentuale di lavoratori a termine rispetto a quelli impegnati a tempo indeterminato.

Detta Legge all'art. 23 prevede infatti che “è consentita l’apposizione del termine di durata al contratto di lavoro nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale…. I contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con Contratto a Tempo Determinato, rispetto a quelli impegnati a tempo indeterminato ”.

Si tratta di una svolta importante verso la flessibilità, che tocca profondamente anche la tecnica normativa con la quale si intende controllare il ricorso all’istituto in esame.

Si assiste così ad un'evoluzione che passa dall'elencazione tassativa dei fatti legittimanti ad una sostanziale delegificazione [8], ovviando ad un iter procedimentale rigido, quale quello legislativo, non più adatto ai repentini cambiamenti del mercato.

Da ciò si evidenzia un maggiore favore del legislatore verso il rapporto a termine, non più teso alla tutela dell’interesse del lavoratore, appannaggio della politica del lavoro, ma contemperato all’esigenze della ‘produzione’.

L’art. 23 in esame non pone limiti contenutistici riguardo all’ oggetto della futura normazione contrattuale; si parla infatti di delega in bianco.

Invero, la giurisprudenza e la dottrina prevalente sottolineano che “non basta un accordo collettivo affinché diventi legittimo stipulare contratti a termine in qualsiasi eventualità, senza il minimo riferimento al quadro legislativo e di sistema [9]”.

Pertanto, le nuove fattispecie della contrattazione collettiva dovrebbero comunque tener conto della loro rispondenza, in linea con la legge 230/62, ad esigenze di carattere temporaneo non affrontabili con il normale organico d’impresa.

Anche l’art. 23 è oggi abrogato dalla 368/01, con il seguente venir meno della produzione collettiva.

Detta abrogazione risulta essere però, al contrario di quanto possa sembrare, fondata sulla tendenza alla flessibilità del rapporto lavorativo.

Infatti le ipotesi contrattuali abrogate non solo rientrano comunque nella clausola generale prevista dall’art. 1 Dlgs. 368/01, ma questa, data appunto la sua genericità, potrà essere estesa ad ipotesi non ancora previste.

L'ultimo intervento legislativo prima della legge 368 è quello della L. 223/91, che ex art. 8 comma 2, introduce la possibilità di assumere lavoratori in mobilità, con contratto di lavoro a termine di durata non superiore a dodici mesi.

Inoltre tale legge, per la particolare situazione in cui questi ultimi versano, prevede una riduzione degli oneri contributivi a carico dei datori di lavoro la cui quota dovuta è uguale a quella prevista per gli apprendisti.

Sia in primis il Ministero del lavoro con circolare n°55 1992, che la dottrina e infine la giurisprudenza (Cassazione sez. lav. 9174 / 2000 e 15820 / 2001) sono concordi nel ritenere che l’art. 8 comma 2 L. 223/91 ha introdotto una fattispecie di assunzione a termine ulteriore, rispetto alle ipotesi contemplate dal legislatore del ’62, laddove prevede che “la legittimità dell’apposizione del termine deriva solo ed esclusivamente da una situazione soggettiva del lavoratore e cioè dall’iscrizione alle liste di mobilità, mentre prescinde totalmente dalla configurazione di ipotesi collegate ad esigenze oggettive dell’azienda. Ciò implica che, nei confronti dei lavoratori in mobilità, in linea con la tendenza alla flessibilità, si è realizzata un’assoluta liberalizzazione del lavoro a termine che incontra un unico limite temporale nei dodici mesi [10]”.

Tale fattispecie peraltro, a differenza delle precedenti, non solo non viene abrogata dalla L 368/2001, ma, per ovviare a contrasti interpretativi, ne viene sancita espressamente la permanenza nel nostro ordinamento.

Per di più, essa viene considerata ammissibile, ex art.3 comma 1, nelle attività produttive ove si sia proceduto, nei sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ex art. 4/24 L. 223/91.

Rimangono inoltre in vigore la L. 53/00 che all' art. 10 “permette l’assunzione a termine per la sostituzione di lavoratori, anche con contratto di lavoro autonomo, in periodo si astensione di lavoro per maternità” e la L. 388/00 art. 75 che “agevola mediante sgravi contributivi l’assunzione a termine di lavoratori che abbiano maturato determinati requisiti pensionistici”.

Si propende quindi per il mantenimento di ipotesi “soggettive” del contratto a termine, che si vanno ad aggiungere a quelle determinate da ragioni oggettive, introdotte con clausola generale.

Un cenno va fatto alla 196/97 che all’art. 12 ha previsto 2 tipi si sanzioni, quali maggiorazione retributiva e conversione del rapporto a tempo indeterminato, in caso di continuazione del rapporto di lavoro oltre il termine.

Passiamo ora alla trattazione dell’elemento centrale della presente tesi, il Decreto Legislativo 368/2001, che espressamente abroga e si sostituisce alla legge generale in materia ossia la L. 230/62.

Il cuore di tale decreto è basato sull'art.1 ove stabilisce che “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”.

Tale articolo ha innovato l’omonimo della L. 230/62 in due aspetti fondamentali che sono la mancata enunciazione dell’eccezionalità del contratto a termine e la sostituzione dell’ elencazione tassativa, con una clausola generale delle ipotesi legittimanti il termine.

Da una prima interpretazione letterale, mentre risulta indubbio un ampliamento dell’ ambito di legittimità di rapporto di lavoro a tempo determinato [11], sottolinea che quest'ultimo non può essere considerato meramente alternativo a quello a tempo indeterminato.

Ciò è confermato del resto dalla previsione di un’apposita disciplina ad hoc, dalla sussistenza di determinate ragioni giustificative ex art. 1 ed infine dalla necessaria specificazione di tali ragioni per iscritto ex art. 1 comma 2 (come a voler lasciar intendere che sia finalizzata ad un controllo e quindi ad un uso limitato del contratto a termine).

Detto orientamento è stato inoltre ribadito nello stesso Libro Bianco dell’ Ottobre 2001 il quale a pagina 71 enuncia che “in ogni singolo contratto a termine devono essere indicate le ragioni che consentono l’apposizione del termine proprio ai fini di un sistema controllabile non meno efficace di quello preesistente visto che incomberà pur sempre sul datore di lavoro l’onere della prova della giustificatezza dell’assunzione a termine”.

Si ha quindi una ulteriore ‘destabilizzaione’ del rapporto di lavoro a termine, in conformità con la linea evolutiva delle precedenti normative (56/87, 223/91), ma non una completa liberalizzazione.

Rimandando la trattazione sostanziale di tale decreto ai prossimi capitoli, proseguiamo qui ad occuparci del suo procedimento genetico.

Alla luce di esso sarà infatti possibile prendere una posizione riguardo alle dispute dottrinali riguardo all'illegittimità costituzionale e violazione del diritto comunitario, da alcuni prospettata.

Il Decreto in esame è stato emanato dal Governo in base alla legge delega conferitagli dal Parlamento (L. 422/2000 legge comunitaria), per dare attuazione alle direttive comunitarie allegate, tra cui la Direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 28 Giugno 1999 n° 70 relativa all’accordo quadro CES (Unione delle Confederazioni delle industrie della Comunità Europea) CEEP (Centro europeo dell’ impresa a partecipazione pubblica) e CES ( Confederazione europea dei sindacati).

Sia la direttiva comunitaria che il decreto in esame si basano sul ‘metodo’ del dialogo sociale, avendo infatti l’una recepito integralmente il suddetto accordo sociale, intercorso tra le organizzazioni intercategoriali comunitarie sopra citate ed essendo l’altro frutto frutto dell’intesa 4 Maggio 2001 avvenuta tra le organizzazioni sindacali e datoriali a livello nazionale (ciò in applicazione dell’art 137 Trattato CE secondo cui : “ciascuno Stato membro può affidare alle parti sociali , a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le direttive in materia di condizioni di lavoro [12]”).

E’ proprio sulla base di tale genesi che il decreto in esame è contestato da parte della dottrina nazionale.

Ad esso sono state infatti sollevate due critiche basate sia sulla sua ‘superfluità’ e conseguente illegittimità costituzionale per violazione dell’art.76 Cost., che sulla violazione della normativa comunitaria e in particolare della clausola n°8 dell’accordo c.d. clausola di ‘ non regresso’.

Quanto alla prima critica, la dottrina ritiene che i due obiettivi principali della direttiva, previsti dalla clausola 1, quali la garanzia del rispetto del principio di non discriminazione e la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di rapporti a termine, essendo già attuati dal nostro ordinamento rispettivamente agli articoli 5 e 2 della L 230/62, non avrebbero necessitato di ulteriore recepimento.

La direttiva CE viene perciò indicata come il padre putativo e non effettivo del decreto in esame, in virtù dell'assenza tra i due atti normativi di un rapporto di necessaria consequenzialità [13].

La stessa dottrina sostiene un orientamento, peraltro avallato dalla stessa Corte Costituzionale, con sentenza 41/2000, che ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo della 230/62, precisando “che l’ordinamento italiano risulta già anticipatamente conformato agli obblighi dalla direttiva derivati”.

Sulla base di tale sentenza, anche se si può dedurre la mancata necessarietà del decreto in esame, risulta però a mio avviso arduo giungere a sostenere che la legge delega fosse riferita solo agli aspetti marginali e non ad una riforma tout court della materia.

Di conseguenza non appare fondato supporre l’illegittimità di tale decreto per violazione dell’art. 76 Cost. (eccesso di delega), muovendo unicamente dalla considerazione che i circoscritti temi trattati dalla direttiva, ed oggetto della legge delega, non avrebbero consentito una riforma generale [14].

La Corte Costituzionale infatti, nella stessa sentenza 41/2000, riconosce che "il legislatore nazionale mantiene una considerevole discrezionalità nell’attuazione della direttiva….. potendo modificare le garanzie esistenti”.

Sotto tale aspetto la nuova disciplina del contratto a termine sembra legittima.

La seconda critica è mossa da parte della dottrina che sostiene la violazione da parte del decreto della clausola 8 dell’accordo quadro e in conseguenza dell’art. 11 cost., che sancisce l’obbligo del nostro ordinamento di rispettare gli accordi internazionali e quindi a maggior ragione quelli derivanti dalla sua appartenenza alla Comunità Europea.

I sostenitori i tale tesi riscontrano nel testo in esame minori garanzie per i lavoratori a tempo determinato e lo ritengono in aperto contrasto con l’accordo quadro, che nel preambolo, tra l’altro, considera i contratti a tempo indeterminato la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori e i lavoratori.

Ciò che si reputa violato è il punto tre della clausola 8 il quale stabilisce che “l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso”.

In tale ottica la maggior parte degli articoli previsti dal D.Lgs. 368/01 sarebbero considerati illegittimi in quanto configurano un'ipotesi di reformatio in peius della disciplina nazionale previgente (ad esempio si ritiene che l’art. 1, cancellando la regola secondo cui il contratto di lavoro si reputa a tempo determinato salvo eccezioni…, implicherebbe, sempre secondo tale dottrina, una perfetta parificazione del lavoro a termine con quello a tempo indeterminato [15].

Tale tesi dottrinaria a me non sembra fondata su validi presupposti logico giuridici.

Anche a voler ammettere che una singola disposizione della nuova legge sia peggiorativa di quella del 62', ciò risulterebbe giuridicamente irrilevante.

Infatti, una corretta interpretazione della clausola di non regresso infatti porta ad escludere l’attendibilità di paragoni basati su singoli elementi di disciplina, laddove si consideri che la disposizione comunitaria mira a “non ridurre il preesistente livello generale di tutela” formula che sottintende un confronto complessivo e un giudizio di sintesi [16].

In altre parole, la singola riforma in peius di singole disposizioni, non implica di per se un abbassamento del livello generale di tutela.

Inoltre, anche a voler ritenere che un paragone tra singole disposizioni sia ipotizzabile, esso dovrebbe farsi non con la L. 230/62, ma con le stesse disposizioni previste dall’ accordo quadro.

La clausola 8 interpreta infatti come livello generale di tutela quello “nell’ambito coperto dall’accordo quadro stesso” e non quello previsto dalle normative nazionali preesistenti.

Di conseguenza seguendo la locuzione delle parole la definizione “ambito coperto dall’accordo” non può che riferirsi alla materia disciplinata dalle parti sociali [17].

Procedendo al confronto fondato su tale interpretazione, il termine di paragone non può che essere la clausola 1 dell’accordo che, come sappiamo, garantisce l’attuazione di due obbiettivi, che sono il principio di non discriminazione (di cui al capitolo 3) e la prevenzione degli abusi di contratti a termine successivi.

Ora, apparendo questi due obiettivi recepiti dal decreto in esame, rispettivamente agli articoli 6 e 5, non si può che arrivare ad una conclusione che rilevi la conformità del D.Lgs 368/01 con la normativa comunitaria (nello specifico clausola 8), nonché la sua legittimità costituzionale.

Concludendo il primo capitolo, possiamo dire che il lavoratore di oggi, più che titolare di un rapporto di lavoro, è un operatore che opera all’interno di un “ciclo”, sia che si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase dell’ attività produttiva o della sua vita.

Il percorso lavorativo è segnato da cicli in cui si possono alternare fasi di lavoro dipendente ed autonomo intervallati da periodi di formazione o riqualificazione professionale (Libro Bianco Ottobre 2001).

La flessibilità del rapporto di lavoro, così attuata, non aveva quindi alternative di fronte alle esigenze di produttività e competitività delle imprese in un mercato economico globalizzato, data la concorrenza degli stessi diritti del lavoro, che possono indirizzare gli investimenti economici e garantire in alcuni casi l’esistenza in vita delle imprese stesse.

2. Ambito di applicabilità della disciplina e forma del contratto di lavoro a termine

2.1 Casi di ammissibilità prima e dopo il D. Leg. 368/01: radicale innovazione?

Come già accennato nel primo capitolo, il Decreto legislativo 368/01 abroga espressamente la L. 230/62, la L. 56/87 e la L. 279/73.

Di conseguenza la nuova clausola generale di cui all’art. 1 ove si stabilisce che “E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, rimpiazza l’elencazione tassativa delle fattispecie previste dal legislatore del ’62 e dalla contrattazione collettiva dopo l’87.

Detta previsione è definita appunto una clausola generica in quanto pone a fondamento del lavoro a termine esclusivamente la ricorrenza di condizioni oggettive, in quanto inerenti all’attività d’impresa e mai allo status soggettivo del lavoratore a termine e, allo stesso tempo, temporanee, nel senso che sono legate ad un’occasione di lavoro destinata ad esaurirsi e non sopperibile con il normale organico.

Secondo la clausola tre dell’accordo quadro, sono condizioni oggettive previste per il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico, o il raggiungimento di un evento specifico.

Pertanto tali ragioni sussisteranno in presenza di una situazione la quale consenta di ritenere che per quelle determinate mansioni non vi sarà, al termine del periodo previsto, un'ulteriore possibilità di utilizzo [18].

Non si può parlare quindi di liberalizzazione del rapporto di lavoro a termine, in quanto il datore di lavoro, anche se ha un maggiore ambito di discrezionalità, non può comunque assumere a termine a proprio piacimento.

Quest’ ultimo è tenuto a mettere per iscritto sia il termine che la ragione giustificativa di cui all’art.1 (salvo per i rapporti di lavoro occasionali di durata non superiore a 12 giorni).

Tale forma scritta assolve alla duplice funzione di rendere conoscibile al lavoratore, mediante consegna di una copia, i ‘motivi aziendali’ per cui è stato assunto e di postulare un controllo giudiziario sulla legittimità (e non sul merito) degli motivi stessi.

Il datore di lavoro infatti ha l’onere di provare l’esistenza delle ragioni oggettive, se vuole ovviare alla conversione del lavoro a termine in lavoro a tempo indeterminato (conversione peraltro ex tunc).

Mentre dei requisiti formali parleremo più avanti, è bene qui approfondire due concetti appena espressi prima di passare ad un'analisi sostanziale della clausola generale ex art1.

Per quanto riguarda il sindacato giurisdizionale, la dottrina prevalente è concorde nel limitarlo alla sola legittimità, ossia alla verifica dell’esistenza di ragioni aziendali ed alla loro congruità rispetto al termine [19], affermando che "non può estendersi fino al punto di valutare nel merito l’opportunità del provvedimento, la sua idoneità o inevitabilità, o la scelta fra più soluzioni organizzative ugualmente ragionevoli” [20].

Questo orientamento è stato peraltro seguito anche dalla Corte di Cassazione con sentenza 11634/98 relativa all’art. 13 L. 300/79 (che in tema di trasferimento del lavoratore prevede anch’esso una clausola generale).

In riferimento all'onere probatorio posto a carico del datore di lavoro, circa la sussistenza delle causali oggettive, anche se non espressamente previsto dal decreto (viene meno infatti il riferimento testuale ex art.3 L. 230/62), esso si deduce sia in base alla regola generale posta dall’art. 2697 c.c. [21], che dalla sua menzione nel Libro Bianco da parte dello stesso Governo che ha approvato il decreto.

Sono smentiti quindi gli orientamenti più allarmati, che ritenevano venuta meno anche tale incombenza a carico del datore di lavoro.

Parte della dottrina ritiene invece che sussisterebbe, a carico del lavoratore, l’onere probatorio circa l’intenzione fraudolenta del datore, che costituirebbe il presupposto per acconsentire un controllo non solo di legittimità, ma anche di merito circa la ragionevolezza della scelta datoriale [22].

Ritornando al contenuto della clausola, è indubbio che, anche se non implica un’utilizzazione senza limiti del contratto a termine, ne estende comunque l’ambito di applicabilità.

Infatti il datore di lavoro potrà stipulare contratti a termine sulla base di esigenze oggettive e temporanee, non più necessariamente speciali, straordinarie e imprevedibili, come richiedevano rispettivamente le ipotesi lettera a) c) art.1 comma 2 L. 230/62.

Nell’alveo di tale clausola ora saranno riconducibili, oltre alle ipotesi prima previste dalle leggi abrogate, anche quelle rientranti nell’ambito dell’ordinarietà e prevedibilità.

Dette previsioni fanno tutte riferimento comunque a causali oggettive

In relazione invece alle causali soggettive, sarà necessaria un’ esplicita previsione legislativa per introdurne delle ulteriori oltre a quelle già previste dalle leggi richiamate dall’art. 10 comma 6 [23].

E’ interessante inoltre notare che le ipotesi di legittimazione del rapporto a termine previste in precedenza dall’art.1 L. 230/62 sono ora richiamate dall’art.10 comma 7, che ne dispone, per i contratti così conclusi, un’utilizzazione senza limiti quantitativi, ponendo in essere unicamente un ampliamento sostanziale, ma anche quantitativo del lavoro a termine o meglio dei lavoratori a termine che possono essere assunti rispetto a quelli a tempo indeterminato.

Tornando allo studio dell’art.1 ed in particolare al suo confronto con le fattispecie previste dalla legge 230/62, ciò che risalta maggiormente è la sua genericità e indeterminatezza, trattandosi di uno scheletro da riempire per mezzo di pronunzie giurisprudenziali [24], tese a fare chiarezza, per meglio delineare la sua portata.

Per quanto riguarda le ragioni di carattere tecnico, dovrebbero intendersi quelle consistenti nella necessità transitoria, da parte dell’impresa, di disporre di personale con qualifiche e specializzazioni diverse da quelle possedute normalmente dall’organico aziendale.

In tale ragione può rientrare l’abrogata ipotesi di cui all’art. 1 comma 2 lettera d) della L. 230/62 “per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse per specializzazione da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari e integrative per le quali non vi sia continuità di impiego nell’ambito dell’azienda”, continuando a richiedere la transitorietà dell’attività aziendale avente ad oggetto mansioni specializzate.

Ragioni produttive e organizzative sono quelle per le quali l’imprenditore sia disposto a rischiare, per transitoria carenza di organico, di perdere la propria competitività, quali, ad esempio, la necessità di far fronte a situazioni o richieste di mercato (commesse, lavorazioni), al di sopra della media e difficilmente ripetibili.

In tali ragioni si possono ricondurre sia l’ipotesi lettera c) della L. 230/62, secondo cui “può essere apposto il termine quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti o predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario ed occasionale”, che quella delle ‘punte stagionali’.

Risulta evidente in tal caso la maggiore estensione della nuova ragione produttiva, rispetto alle ipotesi abrogate con cui è paragonata.

Infatti, mentre l’una può rientrare nell’ ambito della ordinarietà e prevedibilità, le altre richiedevano invece l’eccezionalità o improgrammabilità delle esigenze aziendali [25].

La ragione sostitutiva si configura in caso di assenza, per qualsiasi motivo, di lavoratori (con diritto alla conservazione del posto) [26], con contestuale esigenza dell’imprenditore di disporre dell’intero organico aziendale.

Quest'ultima riprende la lettera b) della L. 230/62, che inoltre prevedeva che venissero messe per iscritto sia l’indicazione del nome del lavoratore sostituito, che la causa della sostituzione.

Di tali ultimi requisiti, anche se non sono più espressamente previsti, è meglio ritenere la sussistenza, per lo meno per ragioni di opportunità.

Infatti il datore continua ad essere tenuto a provare l’assenza del lavoratore ed il motivo di sostituzione.

Prima di continuare il confronto del Decreto 368/01, è necessaria una breve digressione sul termine del lavoro, inteso in tale ipotesi specifica, che può essere previsto a data certa, secondo un giudizio probabilistico compiuto ex ante sulla durata dell’assenza, o per relationem, quando è individuato con l’effettivo rientro del lavoratore sostituito.

Detto ciò, e premesso che il datore di lavoro in caso di assenza di personale (secondo la Cassazione può assumere sentenza n° 2729/86 ha la facoltà, non l’obbligo, di assumerne altro per motivi sostitutivi, si deduce che la durata effettiva della ‘sostituzione’ non debba coincidere necessariamente con il periodo di assenza del lavoratore sostituito.

In tal senso è legittimo il termine a data certa che sia più breve rispetto alla durata dell’assenza, così come una breve continuazione del lavoro oltre il termine fissato per relationem, anche se sia venuta meno la causa dell’assenza (es.: morte o rientro del lavoratore in malattia).

Infatti al datore di lavoro è concesso il tempo necessario per rendersi conto dell’accaduto e decidere sul da farsi (c.d. spatium deliberandi).

Tornando a trattare dell’evoluzione di tale fattispecie si può affermare che, anche se risulta indubbia, in ambo i casi, la presupposizione di un’esigenza sostitutiva transitoria, vi è una tendenza espansiva dei casi riconducibili alla neo ratio sostitutiva, per cui l’assenza del lavoratore su cui si fonda non dipende più solo da eventi imprevedibili nel ‘quando’ quali malattia , congedo parentale, gravidanza [27] ecc., ma anche ordinari quali ferie sostituzione di lavoratore trasferito.

Rimane comunque fermamente vietata la sostituzione di lavoratori in sciopero come vedremo nei prossimi capitoli.

Concludendo tale primo paragrafo, rispondo alla domanda "radicale innovazione?".

Innovazione senz’altro per l'incontestato ampliamento dell’ambito di legittimità del contratto a termine.

Per quanto riguarda invece l’aggettivo radicale propendo per una risposta negativa, in quanto l’art.1 del Decreto 368/01 si pone in una posizione non di frattura, ma di continuità con la normativa precedente degli anni ’70 e ’80, soprattutto con quella di fonte contrattuale che, ex art 23 L. 56/87, aveva già arricchito il nostro ordinamento di una miriade di ipotesi legittimanti tale rapporto di lavoro.

Di continuità parla peraltro anche il Consiglio della C.E. che invita l’Italia de iure condendo appunto a “continuare a rendere più flessibile il mercato del lavoro, bilanciando tra sicurezza e adattabilità, in modo da agevolare l’accesso all’occupazione” [28].

2.2 Disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo e i servizi aeroportuali.

Tale disciplina è prevista dall’art.2 del Decreto 368/01, che ripropone pedissequamente il testo della legge 84/86, previsione normativa integralmente inserita all’art.1 lettera f) della ora abrogata legge 230/62.

L’art.2 legittima il rapporto di lavoro a termine “quando l’assunzione sia effettuata da aziende di trasporto aereo o esercenti servizi aeroportuali, abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo e di assistenza a bordo di passeggeri e merci, e duri per un periodo complessivo di sei mesi tra aprile e ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per altri periodi. Inoltre il numero di tali assunzioni non deve superare il limite percentuale del 15% dell’organico aziendale adibito alle stesse attività”.

Detto articolo prevede inoltre che “negli aeroporti minori tale percentuale di contingentamento può essere aumentata, previa autorizzazione della direzione provinciale del lavoro, su istanza documentata delle aziende stesse. In ogni caso le organizzazioni sindacali e provinciali de categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente articolo”.

A ben vedere sono presenti, ai fini dell’ammissibilità del termine, due presupposti e due limiti, i primi attinenti alla qualifica del datore di lavoro e alla natura dell’attività lavorativa da espletare, i secondi di carattere temporale e quantitativo.

Detto ciò, possiamo affermare che le aziende così denominate possono assumere a termine, per l’espletamento di precipui servizi e nei limiti individuati, a prescindere dalla sussistenza o meno di una ragione giustificativa di cui all’art.1 del presente Decreto.

Siamo di fronte alla una presunzione legale, in quanto la sussistenza delle suddette ragioni è presunta sulla base delle caratteristiche peculiari del settore [29].

Tale tesi è inoltre supportata proprio dalla previsione di una disciplina ad hoc, altrimenti superflua, e dallo steso titolo dell’art.2, secondo cui trattasi di ‘disciplina aggiuntiva’, come tale volta a legittimare il rapporto a termine anche fuori dei casi riconducibili nell’art.1.

Quanto alla ratio che è alla base di tale disciplina relativa al settore aeroportuale, possiamo dire inoltre che è più estesa rispetto a quella alla base dell’art.1.

Infatti i rapporti di lavoro a termine sono ammessi non solo in periodi di intensificazione dell’attività lavorativa (da aprile ad ottobre), ma anche in periodi diversi, in cui non vi è alcuna necessità aziendale; ciò sta a significare che possono anche prescindere da un’esigenza temporanea dell’impresa che è invece richiesta ai sensi dell’art1.

Pertanto può non esservi alcuna ratio oggettiva aziendale alla base.

Concludendo si può affermare, seppur entro i limiti temporali e di contingentamento suddetti, la piena liberalizzazione in tale settore del contratto a termine.

Oltre i limiti su indicati (esempio contratto di durata maggiore di 6 mesi) dovranno ricorrere le ragioni giustificative di cui all’art.1 e quindi vi dovrà essere un’esigenza temporanea alla base.

2.3 La forma del contratto a termine e conseguenze della sua illegittimità

I requisiti formali del Contratto a Tempo Determinato sono previsti dall'art. 1 commi 2, 3 e 4.

Il comma 2 cita testualmente: “l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto in cui sono specificate le ragioni di cui al comma 1” e il comma 4 prevede “la non necessità della scrittura quando la durata del lavoro, puramente occasionale, non sia superiore ai dodici giorni”.

Viene mantenuta, rispetto alla L. 230/62, la forma scritta richiesta ab substantiam a garanzia della trasparenza nell’utilizzazione dei contratti a termine, mirando ad ovviare ad un abuso degli stessi.

Dalla scrittura devono risultare, direttamente o indirettamente, l’apposizione del termine, a data certa o per relationem, attestante la temporaneità del rapporto di lavoro e la ragione giustificativa di cui all'art.1.

In conformità con l’orientamento giurisprudenziale precedente, l’apposizione del termine può essere desunta anche in via indiretta.

Ciò significa che non deve essere necessariamente oggetto di una previsione espressa, potendo anche dedursi dall’analisi complessiva del testo contrattuale di riferimento [30] (quando ad esempio l’attività oggetto dell’assunzione ha una durata di per se predeterminata come nel caso attività stagionali. es.: raccolta delle olive).

Si ritiene comunque che tale deduzione debba risultare dallo stesso contratto a termine e non da altri documenti, quali la richiesta all’Ispettorato del Lavoro di autorizzazione alla stipula di contratti a termine o il successivo avviamento del lavoratore dalla Direzione provinciale del lavoro (Cassazione n°15801/2001).

Tale tesi, seppur contrastata, si ricava anche da un’interpretazione letterale dell’art.1 comma 2 che esclude la possibilità di desumere il termine finale da un atto diverso da quello contenente le motivazioni dell’assunzione a tempo determinato.

La forma scritta, come già detto è prevista a pena di inefficacia e cioè ab substantiam: in altre parole la mancanza o l'incompletezza della scrittura implica la nullità parziale (limitata alla clausola che prevede il termine) e non totale del contratto di lavoro che pertanto verrà considerato a tempo indeterminato.

Stessa conseguenza si ha se la ragione giustificativa, in concreto apposta, non è riconducibile nell’alveo della clausola generale di cui all’art.1 o in altre ipotesi tassativamente previste.

La conversione del contratto a tempo indeterminato peraltro ha efficacia retroattiva, infatti la sentenza ne dispone la nullità non è costitutiva, ma dichiarativa, nel senso che accerta una posizione giuridica già esistente ab initio.

Il lavoratore quindi, a sua tutela, potrà esperire l’azione di nullità e non, come alcuni prima ritenevano, l’impugnativa di licenziamento con richiesta di applicazione di quanto previsto dall’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.

Detta azione potrà essere proposta senza limiti di tempo, in quanto non soggetta a decadenza, nonché imprescrittibile.

Perciò, nel caso in cui il lavoratore abbia interrotto la prestazione lavorativa per decorrenza del termine apposto illegittimamente, non dovrà essere reintegrato, ma riammesso ad espletare la sua prestazione, che sul piano giuridico si considera essere stata svolta senza soluzione di continuità.

Inoltre la forma scritta deve essere, come rilevato dalla Cassazione, anteriore o almeno contestuale rispetto all’effettivo inizio della prestazione lavorativa, in quanto una stipulazione del termine posticipata verrà considerata come non apposta.

Infine concludiamo tale paragrafo con il comma 3 ove si afferma che “copia dell’atto scritto deve essere consegnata dal datore al lavoratore entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione”.

Rispetto alla stessa previsione della L. 230/62, secondo cui la consegna doveva essere imminente, è stata prevista una posticipazione temporale di cinque giorni della consegna.

La Cassazione non ha considerato tale adempimento, seppur rilevante ai fini della conoscibilità da parte del lavoratore delle esigenze aziendali, come previsto a pena di inefficacia del rapporto a termine, in quanto elemento esterno rispetto ai requisiti essenziali del contratto [31].

Di contro parte della dottrina ritiene, come conseguenza della mancata consegna dell'atto scritto, la conversione del contratto a tempo indeterminato [32].

Prima di concludere tale paragrafo è opportuno riportare l’avviso di una dottrina minoritaria, tra cui Vallebona A., sulle possibili conseguenze della dichiarazione di nullità parziale del contratto a termine. Secondo tale dottrina, a differenza da quanto era previsto dalla legge 230/62 e quindi con l’introduzione del decreto in esame, vi sarebbe la possibilità che un contratto con termine nullo, oltre che a convertirsi a tempo indeterminato potrebbe considerarsi caducato definitivamente a seguito dell’estensione della nullità parziale, ex art 1419 cod. civ., all’intero contratto.

Ex art. 1419 infatti: “la nullità parziale di un contratto o quella di singole clausole comporta la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non l’avrebbero concluso senza quella parte che è colpita da nullità”.

Il datore di lavoro potrebbe quindi ben validamente provare di non aver inteso a suo tempo assumere a tempo indeterminato e conseguentemente ovviare ad un vincolo definitivo con il alvoratore.

Dal comma 2 dell’art 1419 si desume perché vi sia tale mutamento rispetto alla legge 230/62: “la nullità di clausole non importa la nullità dell’intero contratto quando sono sostituite di diritto da norme imperative”. E il legislatore del 2001 ha omesso di riportare appunto la norma imperativa contenuta nell’articolo 1 della legge 230/62 che imponeva, sia pure in forma presuntiva, di considerare il rapporto come a tempo indeterminato, qualora il termine fosse risultato ingiustificato [33].

2.4 Divieti di assunzione a termine.

Il nuovo Decreto legislativo all’art.3 prevede quattro ipotesi di divieto di apposizione del termine al contratto di lavoro, sancendo che “l’apposizione del termine ad un contratto di lavoro non è ammessa…..” e continuando con un'elencazione delle ipotesi di divieto.

Queste possiamo dire che si trovano in una posizione speculare e complementare rispetto a quelle di ammissibilità del termine.

L’interprete infatti, nel valutare la legittimità dell’apposizione del termine dovrà procedere ad una duplice verifica sia positiva, sussistente nella sussumibilità della fattispecie concreta in quelle legali, che negativa, circa l’assenza di ipotesi di divieto ex art. 3 [34].

Ora, qualora la fattispecie concreta configuri un’ipotesi legale di tale divieto, ciò implica che, il termine così apposto, è illegittimo e quindi consenta la sanzione della conversione del contratto a tempo indeterminato.

Di tali divieti non vi è traccia nella direttiva comunitaria e neppure le leggi precedenti sul lavoro a termine ne davano una menzione esplicita ed esaustiva.

Si deve quindi supporre che la loro previsione, da parte delle parti sociali nazionali, sia stata sorretta da una duplice ratio costituita dalla conformità alla disciplina del lavoro interinale, per ovviare ad un’illegittimità costituzionale per violazione dell’art.3, nonché dal recepimento con essi degli obiettivi comunitari di repressione degli abusi e di bilanciamento degli interessi tra flessibilità e sicurezza.

Tali obiettivi sono stati attuati dalle lettere a), b), c) e d) dall’art.3 del Decreto 368/01.

Passiamo quindi all’analisi delle ipotesi così delineate:

6. >> la lettera a) vieta l’apposizione del termine “per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero”.

Tale divieto è volto ad evitare al crumiraggio esterno da parte dell’imprenditore, peraltro già previsto dalla Cassazione che, con sentenza n° 8401/87, ha espressamente ritenuto illegittimo il ricorso dei lavoratori a termine con funzione antisciopero.

Secondo la Corte -infatti- tale condotta si pone in contrasto con l’art.28 L. 300/70, in quanto volta a depotenziare illegittimamente l’azione di pressione collettiva realizzata dai lavoratori in sciopero.

Inoltre non rientra nel diritto del datore di lavoro di reagire allo sciopero riorganizzando la produzione, risolvendosi infatti in una ‘misura estrinseca’ all’organizzazione aziendale e quindi inidonea a configurare le circostanze oggettive di cui all’art.1 [35].

L’ambito di tale divieto si ritiene inoltre circoscritto allo sciopero legittimo, data la sua ratio legis volta ad evitare il lavoro temporaneo in funzione antisindacale, infatti nel caso contrario, ossia di sciopero non autorizzato dai sindacati, non solo è escluso il contrasto con l’art.28 L300/70, ma anche la prevalenza dell’interesse all’integrità del patrimonio produttivo aziendale, su quello dei prestatori in sciopero.

E’ opportuno infine precisare che il divieto opera solo se la ragione del ricorso al lavoro a termine è sostitutiva.

>> la lettera b) vieta il lavoro a termine “nelle unità produttive nelle quali si sia proceduto , entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi (ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 223/91) che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni a cui si riferisce il contratto a tempo determinato….”.

E' opportuno analizzare prima la fattispecie del divieto e poi le quattro eccezioni in cui può essere derogata.

La norma in esame mira alla protezione dei livelli occupazionali, esistenti nell’impresa, nei quali il contratto a termine non può essere utilizzato per trasformare rapporti stabili in precari.

L’evidente scopo è di impedire che il datore si liberi, tramite procedure collettive, di più onerosi e stabili rapporti a tempo indeterminato per approfittare ‘abusivamente’ della possibilità offerta dal contratto a termine [36].

In altre parole il legislatore persegue qui il fine di prevenire i cd. fenomeni di deregolamentazione strisciante dei rapporti di lavoro.

Vengono individuate due ipotesi di licenziamenti collettivi la cui attuazione impedisce all’impresa di concludere contratti a termine:

1. ex art.4 L. 223/91 che individua le procedure di messa in mobilità, cui conseguono l’iscrizione nelle liste di mobilità dei lavoratori licenziati;

2. ex art.24 della stessa legge che concerne il licenziamento collettivo per riduzione di personale.

L’ambito del divieto è inoltre ridotto dall’esistenza di due condizioni, una di ordine oggettivo, consistente nell’identità di mansioni tra lavoratore licenziato nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed a termine, e l'altra di carattere temporale, che stabilisce che il divieto persiste per sei mesi decorrenti dalla data del provvedimento di licenziamento collettivo.

Esaminiamo ora le quattro eccezioni in cui la norma è suscettibile di deroga.

La prima si rinviene proprio nell’incipit: “salva diversa disposizione degli accordi sindacali”.

Si riconosce in tal senso un potere derogatorio all’autonomia collettiva che in tal modo può consentire al datore la facoltà di stipulare contratti a termine, nonostante i provvedimenti collettivi.

Tale facoltà derivata dagli accordi sindacali può essere limitata a specifici reparti, produzioni, o funzioni aziendali.

La legge nel riconoscere tale potere contrattuale non pone alcun limite di tipo contenutistico, si deve ritenere però che le disposizioni di detti accordi debbano essere coerenti e quindi rispettare i principi generali sottesi dalla legge in esame.

Il potere contrattuale non è quindi discrezionale, nel senso che la ratio delle deroghe previste deve comunque essere riconducibile alle ragioni di cui all’art.1 di tale decreto.

Ulteriori deroghe a tale divieto sono previste quando “il contratto a termine è concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti, con lavoratori in mobilità ai sensi dell’art.8 comma 2 L. 223/91 od abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi”.

Quanto alla prima e alla terza deroga è lo stesso legislatore a valutare che in tali casi non sussista alcun rischio di ‘destrutturazione’ del lavoro stabile. Trattasi in ambo i casi di una presunzione legale.

Dubbi interpretativi sussistono sulla parola ‘iniziale’, contenuta nella terza deroga, che lascerebbe intendere la legittimità di un’eventuale proroga.

E’ meglio condividere comunque la tesi negativa perché la ratio giustificativa della deroga stessa consta proprio nella sua brevità temporale.

La seconda deroga è peculiare, in quanto basata su un elemento soggettivo, consistente nell’iscrizione nelle liste di mobilità dei lavoratori da assumere a termine.

Tale deroga permette di assumere a termine gli stessi lavoratori licenziati ex art. 4 L. 223/91.

>> la lettera c) individua il terzo divieto che non ammette il Contratto a Tempo Determinato “presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti od un riduzione dell’orario di lavoro che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto a termine”.

In tal caso il ricorso al contratto a termine è vietato in quanto esigenze temporanee di personale, possono essere soddisfatte mediante la re-immissione in servizio dei sospesi [37].

Anche qui ai fini dell’operatività del divieto deve sussistere identità di mansioni tra lavoratori sospesi e quelli da assumere.

Si deve infine supporre inoltre che le eccezioni di cui alla lettera b) non trovino applicazione per tale fattispecie.

>> la lettera d) prevede la quarta e ultima fattispecie di divieto riferito alle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art.4 Decreto Legislativo 626/94 e successive modificazioni.

Tale norma persegue espressamente l’orientamento comunitario, contenuto nella prima clausola dell’accordo quadro, che sancisce il rispetto del principio di non discriminazione, il cui corollario è la sicurezza e la qualità del lavoro a termine, rispetto a quello a tempo indeterminato.

Tale divieto tende a tutelare il lavoro a termine proprio in quanto più esposto al rischio di infortuni sul lavoro.

Infatti il lavoratore assunto a termine rispetto a quello a tempo indeterminato ha evidentemente meno confidenza del posto di lavoro, venendo spesso addetto a mansioni pericolose, rifiutate dalla forza lavoro stabile.

Tale previsione, insieme all’obbligo di formazione ex art.7 comma 1, è quindi finalizzata alla prevenzione dei rischi sul lavoro.

2.5 Esclusioni

L’art.10 commi 1-5 individua tutta una serie di fattispecie in cui è prevista la disapplicazione, totale o parziale, della disciplina contenuta in Decreto 368/01.

Secondo comma 1 “sono esclusi dal campo di applicazione di tale decreto, in quanto già disciplinati da specifiche normative: a) i contratti di lavoro temporaneo, b) i contratti di formazione e lavoro, c) i rapporti di apprendistato, nonché le tipologie contrattuali legate a fenomeni di formazione attraverso il lavoro, che, pur caratterizzate dall’apposizione di un termine, non costituiscono rapporti di lavoro”.

La ratio dell’esclusione nell’ipotesi sub a) risiede proprio nella ‘lex specialis’ che, in quanto tale, deroga alla legge generale e quindi a tale decreto; quella a fondamento dei casi sub b) e c) è dovuta al fatto che in tali casi non sussiste proprio un rapporto di lavoro subordinato, in quanto il contratto ha una causa mista perché corrispettivo della prestazione lavorativa non costituisce solo la remunerazione, ma anche la formazione.

Il comma 2 esclude l’applicazione di tale disciplina ai rapporti tra i datori di lavoro dell’agricoltura e gli operai a tempo determinato, definiti ex art.12 Decreto Legislativo 375/93.

Il lavoro in agricoltura è stato da sempre infatti caratterizzato, in considerazione della sua specialità, dall’essere transitorio e, pertanto, il rapporto di lavoro a termine in tale settore è stato sempre la forma comune.

Tale norma parla di operai a tempo determinato, mentre la legge 230/62 si riferiva ai salariati fissi.

Ora, a seguito della sentenza della Corte di cassazione n°265/97, ed essendo scomparsa la distinzione tra salariati fissi e braccianti avventizi [38], si deve ritenere estesa la disapplicazione della disciplina in esame a qualsiasi lavoro agricolo a termine.

Il comma 3 individua un’ulteriore fattispecie di rapporto di lavoro a termine, relativa al settore turistico, costituita dal personale volante o extra, che può essere assunto per soddisfare esigenze d’impresa di carattere rigidamente temporaneo o momentaneo: “nei settori del turismo e dei pubblici servizi è ammessa l’assunzione diretta di manodopera per l’esecuzione di speciali servizi di durata non superiore ai tre giorni, determinata dai contratti collettivi stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

Dell’avvenuta assunzione deve essere data comunicazione al centro per l’impiego entro cinque giorni.

Tali rapporti sono esclusi dal campo di applicazione del presente Decreto Legislativo”.

Quanto alla individuazione di tali fattispecie, cui non viene applicato il decreto in esame, vi un presupposto oggettivo, relativo al settori del turismo e dei pubblici servizi, un limite temporale di tali rapporti di lavoro ed è prevista la comunicazione dell’assunzione al centro dell’ impiego.

La condizione legittimante più importante è però che i casi di assunzione di tal tipo devono essere previsti dalla contrattazione collettiva.

Quest'ultima inoltre, nell’esercizio del suo potere normativo, è vincolata da un limite sostanziale, consistente nella attinenza di tali rapporti ad esigenze temporanee dell’impresa e nella specialità dei servizi ad oggetto degli stessi.

Il quarto comma si riferisce alla figura dei dirigenti e afferma che “è consentita la stipulazione di contratti di lavoro a termine, purché di durata non superiore ai cinque anni, con i dirigenti, i quali possono comunque recedere da essi trascorso un triennio e osservata la disposizione di cui all’art.2118 del codice civile.

Tali rapporti sono esclusi dal campo di applicazione del presente Decreto, salvo per quanto concerne le previsioni di cui agli articoli 6 e 8”.

Il dirigente è un lavoratore che si pone ai vertici dell’impresa e viene considerato l’alter ego dell’imprenditore.

Non vi è una definizione legislativa di dirigente, ma la si può ricavare dalle massime giurisprudenziali, secondo la sentenza della Cassazione n°8752/99 “la qualifica di dirigente è connaturale all’attribuzione di un ampio potere decisionale, comportante la possibilità di scelte operative destinate ad incidere con carattere essenziale sulla vita dell’intera azienda o di una parte rilevante di essa”.

E’ stata eliminata peraltro la specificazione di dirigenti amministrativi e tecnici, non più attuale rispetto al mercato del lavoro di oggi.

Data la rilevanza di uno stretto rapporto fiduciario con l’imprenditore, quella del dirigente è una figura che vive di costanti deroghe allo statuto del lavoratore ordinario.

Anche al lavoro dirigenziale a termine, per la stessa ratio, viene esclusa, dall’art.10 comma 4, l’applicazione del presente decreto eccetto gli articoli 6 e 8.

Di conseguenza, non essendo applicata al lavoro dirigenziale la clausola generale di cui all’art.1 comma1, si ritiene, sia in dottrina che in giurisprudenza, la completa liberalizzazione del contratto dirigenziale a termine, seppur nel limite temporale del quinquennio.

Ai fini dell’ammissibilità del contratto a termine non è richiesta alcuna esigenza aziendale, ma è sufficiente l’incontro della volontà delle parti contraenti.

Il limite temporale quinquennale implica che il contratto, se ab initio ecceda tale durata, dispiega i suoi effetti fino al quinto anno, decorso il quale, è da ritenersi estinto, a seguito di sostituzione automatica della norma dispositiva di legge.

La proroga si fonda anch’essa sul consenso delle parti stipulanti.

Senza dubbio la durata complessiva del rapporto può superare i tre anni in deroga all’art.4.

C’è chi ritiene inoltre che a seguito di proroga o di più proroghe possa essere superato anche il limite quinquennale [39].

In caso di continuazione del rapporto di lavoro oltre il termine inizialmente fissato o prorogato, della stipulazione di successivi contratti a termine non sono applicabili le sanzioni prima previste dall’art.2 L230/62 e ora dall’art.5 Decreto Legislativo 368/01.

In attesa di un’interpretazione, da parte della Giurisprudenza, della nuova normativa, essendovi il silenzio del legislatore, è possibile

prevedere che il lavoro dirigenziale a termine non sarà ostacolato attraverso l’introduzione di sanzioni, ma anzi favorito e incentivato in linea con la ratio, tendente alla flessibilità, sottesa dal Decreto in esame.

Resta ferma in ogni caso l’applicazione del diritto comune e quindi del divieto generale di atti in frode alla legge.

Infatti il dirigente, assunto ripetutamente a termine, potrà eccepire la volontà del datore di usare in modo abusivo lo strumento contrattuale in questione.

Quanto alla continuazione oltre il termine, la dottrina è propensa ad invocare i principi generali del contratto, e quindi a valutare nel caso concreto l’effettiva volontà delle parti di costituire un rapporto a tempo indeterminato o meno [40].

La forma del contratto, in deroga all’art. 2 comma 1, non è richiesta ab substantiam e, in ogni caso, è da considerarsi opportuna sia per il dirigente che per il datore.

Il termine apposto per iscritto, che evidenzia la temporaneità del rapporto, funge infatti anche da clausola di stabilità (non è ammesso il recesso ad nutum prima del triennio).

Invero, anche il datore di lavoro può aver interesse al fatto che sia lo stesso dirigente ad operare nell’impresa per un lasso determinato di tempo.

Se il contratto fosse a tempo indeterminato, infatti, il dirigente avrebbe potuto recedere in qualsiasi momento previo preavviso o, in mancanza, con pagamento dell’indennità sostitutiva ex art. 2118 cod. civ. [41].

Tornando al lavoro a termine il recesso ante tempus, ossia prima del triennio, è ammesso solo per giusta causa.

Il recedente ante tempus avrà l’onere probatorio di dimostrare la giusta causa e in caso d'insussistenza della stessa sarà sottoposto a sanzioni di natura risarcitoria.

L'ammontare del risarcimento sarà (nel caso il recedente sia il datore) pari alle retribuzioni che il dirigente avrebbe percepito fino alla naturale scadenza del termine [42].

Non rimane che un cenno agli articoli 6 e 8 che saranno meglio trattati in seguito.

L’art.6 costituisce l’enunciazione del fondamentale principio di non discriminazione, secondo cui ai dirigenti assunti a termine spettano tutti i trattamenti previsti per quelli a tempo indeterminato, secondo il principio “pro rata temporis” e sempre che tali trattamenti non siano incompatibili con la natura del contratto a termine.

L’art.8 riguarda i criteri di computo dei lavoratori, al fine dell’applicazione di alcuni diritti sindacali ex art35 L300/70, dalla cui lettera si deduce che anche i dirigenti a termine sono computati nell’organico aziendale se il loro contratto di lavoro ha una durata maggiore di nove mesi.

L’ultima esclusione è prevista dal comma 5 ove si stabilisce che “sono esclusi i rapporti instaurati con le aziende che esercitano il commercio di esportazione, importazione ed all’ingresso di prodotti ortofrutticoli".

E’ difficile individuare la ratio di tale esclusione, visto che non si tratta di un’attività agricola, ma di un’attività commerciale dei prodotti agricoli.

3. Le vicende del rapporto di lavoro

Analizzando ora il rapporto di lavoro a termine dal punto di vista dinamico, possiamo individuare tre fasi:

1) la prima consistente nella posizione giuridica del lavoratore a termine potenziale relativa sia a colui che non è mai stato assunto a termine, che a colui il cui rapporto si è già estinto e quindi potenzialmente riassumibile. Posizione questa disciplinata dall’art. 10 commi 7, 8, 9 e 10 del Decreto in esame concernente rispettivamente la configurazione di limiti quantitativi e la previsione di un diritto di precedenza.

2) La seconda fase individua la posizione giuridica del lavoratore a termine, titolare di un rapporto di lavoro in corso di svolgimento. Gli istituti che la caratterizzano sono previsti dal Dec Leg. in esame: ex art.6 il principio di parità di trattamento, ex art.7 il diritto di formazione, ex art.8 il computo dei lavoratori a termine, e infine ex.art.9 le informazioni.

3) La terza ed ultima fase riguarda i casi di estinzione del contratto a termine.

3.1 Limiti quantitativi e diritto di precedenza.

Il legislatore delegato ha previsto, ex art. 10 comma7, in coerenza con l’interesse alla stabilità del rapporto di lavoro, dei limiti quantitativi di utilizzazione del lavoro a termine. Ha inteso pertanto subordinare l’ammissibilità del rapporto a termine ad un limite essenzialmente numerico, che va ad aggiungersi a quello qualitativo gia visto esaminando l’art. 1.

L’art. 10 comma7, secondo cui: “La individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell’istituto del CTD, affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi….”, non è però una disposizione innovativa nel nostro ordinamento.

Infatti già l’art. 27 legge 56/87 prevedeva una percentuale di contingentamento dei lavoratori a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato, relativamente alle sole ipotesi di fonte collettiva dallo stesso art. 23 delegate.

Rispetto alla previgente normativa possiamo notare due lievi differenze: in primis quella riguardante il criterio discretivo dei casi di contratto a termine sottoposti a limiti quantitativi: si passa infatti da un criterio particolare ristretto alle ipotesi di fonte contrattuale ad un criterio generale e quindi più estensivo (salvo ovviamente le esenzioni); la seconda consiste nel rinvio di tale materia alla contrattazione collettiva nazionale stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi: si esclude rispetto al passato la contrattazione collettiva locale come fonte di produzione in materia, ai fini di una più effettiva tutela del lavoratore a termine.

L’ unità del soggetto stipulante non implica però altrettanta uniformità normativa in tutto il territorio nazionale: è chiaro in tal senso l’inciso del comma 7 “in maniera non uniforme”, teso ad ammettere la possibilità di limiti percentuali diversi per categoria, per area territoriale, per azienda e in base alle differenti figure professionali.

Prima di passare ad analizzare le esenzioni di cui al comma 8 è bene soffermarci sulla portata o “forza” normativa di tali limiti quantitativi: secondo parte della dottrina la previsione di tali limiti è derogabile [43] [44]; secondo altra parte della dottrina costituisce un elemento essenziale al pari delle cause giustificative di cui all’art. 1 [45].

Il legislatore ha infine inteso esentare da limiti quantitativi alcune ipotesi di contratto a tempo determinato in virtù della ratio prevalente (nelle stesse ipotesi) della inevitabilità del contratto a termine per l’intrinseca temporaneità dell’occasione di lavoro.

L’art. 10 comma 7, secondo cui: “sono in ogni caso esenti da limitazioni quantitativi i contratti a termine così conclusi”, individua pertanto le seguenti ipotesi di esenzione:

a) nella fase di avvio di nuove attività per periodi che dovranno essere definiti dalla contrattazione collettiva in misura non uniforme, con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici. La ratio legis qui è ravvisabile nella tutela della nuova imprenditoria.

b) nei casi previsti dall’art. 1 L. 230/62 e cioè quando l’assunzione ha luogo per ragioni di carattere sostitutivo, per stagionalità, per punte stagionali, con personale artistico e tecnico elle fondazioni di produzione musicale, e per l’esecuzione di un’ opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario e occasionale. Casi questi in cui la temporaneità, come su esposto, è elemento inevitabile del rapporto, nel senso che il lavoro non può essere svolto da altro personale a tempo indeterminato senza incorrere in eccedenza di organico.

c) in casi infine basati su criteri meramente soggettivi, che come tali esulano da esigenze aziendali, a tutela dell’ occupazione di determinate fasce di lavoratori: contratti stipulati a conclusione di un periodo di tirocinio o di stage, allo scopo di facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ovvero stipulati con lavoratori di età superiore a 55 anni”.

Il comma 8 specifica infine un’ulteriore clausola generale di esenzione che opera per tutti i casi di contratto a tempo determinato rimanenti: “Sono esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato non rientranti nelle tipologie di cui al comma 7, di durata non superiore ai sette mesi, compresa la eventuale proroga, ovvero non superiore alla maggiore durata definita dalla contrattazione collettiva con riferimento a situazioni di difficoltà occupazionale per specifiche aree geografiche. Tale l’esenzione non si applica a singoli contratti stipulati per le durate suddette per lo svolgimento di prestazioni di lavoro che siano identiche a quelle che hanno formato oggetto di altro contratto a termine avente le medesime caratteristiche e scaduto da meno di sei mesi”.

Qualsiasi contratto a termine quindi non è sottoposto a limiti quantitativi se di durata non superiore a sette mesi o a quella eventualmente maggiore di fonte contrattuale. Da ciò si delinea il favor legislativo per i contratti a tempo determinato di breve durata, per altro la maggioranza, come rimedio alla disoccupazione in determinate aree.

Da rilevare l’ultimo disposto, eccezione nell’eccezione, che ripristina la previsione dei limiti quantitativi per tali contratti di durata breve se sono decorsi meno di sei mesi dalla scadenza di altri contatti a termine aventi ad oggetto le stesse mansioni. Disposto che si pone in linea con uno dei fondamentali principi della DIR CE 70/99: quello di proibire abusi derivanti dalla stipulazione di contratti successivi a termine, sottesi in realtà da un’esigenza permanente dell’ impresa.

Passiamo ora al diritto di precedenza.

Consiste appunto in un diritto riconosciuto a chi ha svolto mansioni a termine presso un’azienda, ad essere preferito ad altri prestatori in caso di nuove assunzioni con la medesima qualifica e da parte della stesa azienda. Ne sono titolari solo due specie di lavoratori a termine: quelli stagionali, e quelli assunti per ‘punte stagionali’. La ratio della disciplina è quella di assicurare se non la stabilità (infatti il prestatore può essere riassunto nuovamente a termine) quanto meno una certa continuità della presenza del prestatore nel mercato del lavoro.

Per i lavoratori stagionali rispetto agli altri lavoratori a termine vi è infatti una minore possibilità di poter ambire ad un contratto a tempo determinato; ciò è dovuto all’intrinseca temporaneità dell’attività lavorativa in alcuni settori come ad esempio quello turistico-alberghiero.

L’ istituto della precedenza è stato disciplinato in primis dall’art. 2 della L. 737/78 che lo prevedeva a favore dei prestatori stagionali a favore del turismo; successivamente dall’art. 8 bis della legge 79/83 lo ha esteso ai prestatori stagionali di tutti i settori economici; poi dall’art. 23 comma 2 L. 56/87 che lo ha previsto anche per i lavoratori assunti per intensificazione dell’attività produttiva. Ora è disciplinato dal decreto in esame che all’ art.10 comma 9 cita testualmente: “E’ affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, l’individuazione di un diritto di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, esclusivamente ai lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con contratto a termine per le ipotesi previste dall’art. 23 comma2 L 56/87. I lavoratori assunti in base a tale diritto di precedenza non concorrono a determinare la base di computo per il calcolo della percentuale di riserva di cui all’art. 25 comma 1 della legge 223/91.” Da tale norma si nota innanzitutto una generale conformità della materia alla disciplina precedente; l’elemento di maggiore novità è la configurazione del diritto in esame non più di origine legale ma nascente da una esplicita previsione dei contratti collettivi. La legge è chiara nel disporre la funzione dell’autonomia collettiva non più come integrativa ma fondante (seppur nei limiti legali) di tale diritto; in assenza di una previsione ad hoc da parte di questa postula infatti la sua inesistenza [46].

Il diritto è comunque limitato alle assunzioni presso la stessa azienda e per la medesima qualifica già attribuita al lavoratore.

L’instaurazione del rapporto di lavoro con i titolari del diritto di precedenza è incentivata dalla previsione per cui tali rapporti non si computano nella base del calcolo della percentuale di riserva di posti delle c.d. fasce deboli di lavoratori previste ex art. 25 L 223/91.

Infine dal comma 10 emerge che tale diritto è limitato nel tempo e ai fini della sua effettività implica un onere del prestatore: “In ogni caso il diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro ed il lavoratore può esercitarlo a condizione che manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro”.

3.2 I diritti del lavoratore assunto a termine

A tutela dal prestatore a termine vi è innanzitutto il principio di non discriminazione rispetto a quello a tempo indeterminato. In realtà la maggior parte della dottrina è concorde nel ritenere che si sostanzi nel principio di “parità di trattamento” volendo intendere che il prestatore a termine sia trattato allo stesso modo del lavoratore a tempo determinato, compatibilmente con la natura del contratto a termine e che quindi non subisca discriminazioni.

Tale principio ora previsto dall’art. 6 del decreto in esame era gia sancito dall’art. 5 della legge 230/62. La nostra legislazione quindi versava già in una posizione di anticipata conformazione rispetto alla normativa comunitaria che lo prevede alla clausola 4 comma 1 dell’ Accordo Quadro recepito dalla DIR C.E. 70/99: “per quanto riguarda le condizioni di impiego i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un rapporto di lavoro a termine….”.

L’art. 6 appunto dispone che: “al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie, e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine”. Si intende quindi perseguire l’uniformità di trattamento economico e normativo sancita anche dall’art.36 dalla Costituzione secondo cui “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato; ha diritto quindi sia ai trattamenti retributivi previsti in via generale dalla legge e dalla contrattazione collettiva e sia a quelli particolari in atto nell’impresa dove è assunto. Restano esclusi i trattamenti ad personam come ad esempio premi per la produttività

Per lavoratori “comparabili” si intendono quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva; la comparazione va fatta in primis con i lavoratori stabili assunti nella stessa azienda, poi in via secondaria con quelli assunti in altre imprese dello stesso settore e infine con quelli inquadrati allo stesso livello assunti in imprese di settori differenti. In tutti e tre i casi i lavoratori comparabili devono essere di pari qualifica: la clausola 3 dell’accordo quadro: “è tale il lavoratore appartenente allo stesso stabilimento e addetto ad una occupazione uguale o simile , tenendo conto delle qualifiche”.

Corollario del principio in esame è quello del ‘pro rata temporis’ secondo cui l’entità dei trattamenti retributivi erogati devono essere proporzionati alla quantità del lavoro espletato.

In caso di trasgressioni alla parità di trattamento oltre alla tutela giurisdizionale è prevista dall’art.12 una sanzione amministrativa pecuniaria palesemente di scarsa efficacia deterrente data l’esiguità del suo ammontare: “Nei casi di inosservanza degli obblighi derivanti dall’art6, il datore di lavoro è punito con la sanzione amministrativa da 25 euro a 155 euro. Se l’inosservanza si riferisce a più di cinque lavoratori, si applica la sanzione amministrativa da 15 euro a 1032 euro.

Passiamo ora all’art. 8 riguardante i criteri di computo del lavoratore a termine all’interno dell’ organico aziendale: “ai fini di cui all’art. 35 della legge n 300/70, i lavoratori con contratto a tempo determinato sono computabili ove il contratto abbia durata superiore a nove mesi”. Tale disposizione costituisce esplicita attuazione della direttiva C.E. 70/99 che alla clausola 7.1 prevede espressamente che i lavoratori a termine vanno computati ai fini dell’applicazione delle norme in materia di rappresentanza sindacale aziendale in caso di superamento di una determinata soglia. Si tratta di una novità rispetto alla previgente normativa che non indicava alcun limite di durata per il conteggio dei lavoratori a termine. Tale art. 35 L. 300/70 postula l’applicazione delle attività sindacali elencate nel titolo III della 300/70 [47] e quindi garantisce l’effettività dei diritti sindacali quando l’organico aziendale per le imprese commerciali e industriali supera la soglia dei 15 dipendenti.

Ora l’esclusione dei lavoratori a termine, con durata minore di 9 mesi, dal computo dell’organico aziendale lascia intendere il favor legislativo verso i contratti a termine di breve durata.

Inoltre tale disposizione è carente di meccanismi di rappresentanza sindacale che rispondono alle peculiari esigenze e interessi dei lavoratori a termine: questi infatti ricevono una tutela sindacale indiretta (e non ad essi espressamente finalizzata) solo se assunti in imprese con un organico aziendale consistente.

Altra disposizione innovativa è l’art.7 che introduce un diritto di formazione del lavoratore a termine. Prevede 2 tipi di formazione tendenti ciascuna ad una specifica ratio : quella della prevenzione dei rischi specifici alla esecuzione del lavoro e quindi ala tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, e quella prettamente professionale tendente ad aumentare la qualificazione del lavoratore a termine in modo da accrescere la probabilità di accesso al mercato del lavoro.

Quella preventiva a tutela della salute del lavoratore è disciplinata dal comma 1 dell’art. 7: “ il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato dovrà ricevere una formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi all’esecuzione del lavoro”.

Il diritto è di fonte legale e la ratio della sua previsione si rinviene nella maggiore esposizione del lavoratore a termine a rischi di infortuni sul lavoro rispetto al lavoratore stabile: non conosce infatti l’ambiente di lavoro ed è meno esperto sui meccanismi esecutivi dell’attività d’impresa.

Tale disposizione inoltre attuativa della direttiva CE 383/91 va a garantire in via specifica quanto già tutelato dall’operare congiunto della legge 626/94 in materia della tutela e della salute dei lavoratori con l’art. 6 del decreto in esame [48].

In tal caso la violazione dell’obbligo di formazione fonda la responsabilità civile e penale del datore di lavoro per l’eventuale infortunio causato per l’omessa conoscenza dei rischi specifici da parte del lavoratore [49].

Il comma 2 dell’art. 7 disciplina la formazione professionale del lavoratore a termine: “ I contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati

comparativamente più rappresentativi possono prevedere modalità e strumenti diretti ad agevolare l’accesso dei lavoratori a tempo determinato ad opportunità di formazione adeguata, per aumentarne la qualificazione, promuoverne la carriera e migliorarne la mobilità occupazionale”.

Palese è la precarietà e genericità di tale diritto la cui previsione è rinviata alla fonte contrattuale che tra l’altro ha la facoltà e non l’obbligo (da quando deriva dal verbo ‘possono’) di disporlo. Per quanto lacunosa tale disposizione è in ogni caso più efficace rispetto alla clausola 6 dell’accordo quadro che si limita ad invitare i singoli datori di lavoro ad agevolare l’accesso dei lavoratori a termine ad opportunità formative senza quindi rinviare ad alcuna fonte normativa.

Tale diritto si pone come antidoto alla precarizzazione del lavoratore a termine : costui infatti, non avendo un lavoro stabile, solo attraverso una continua riqualificazione professionale , può garantirsi la permanenza nel mercato del lavoro ed aprirsi a nuove possibilità di carriera.

L’art. 9 è intitolato informazioni e prevede due tipi di obblighi informativi a carico del datore di lavoro rispettivamente a favore del lavoratore a termine circa i posti vacanti nell’impresa per garantirgli pari possibilità di ottenere posti di lavoro stabili ; e a favore delle RSA e RSU istituite in azienda riguardanti l’utilizzo del lavoro a termine nell’ambito dell’impresa e postulanti un controllo da parte delle rappresentanze sindacali che funge da freno inibitore al possibile utilizzo abusivo dei contratti a termine.

L’ art. 9, secondo cui : “i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi definiscono le modalità per le informazioni da rendere ai lavoratori a tempo determinato, circa i posti vacanti che si dovessero rendere disponibili nell’impresa, in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere gli stessi posti duraturi che hanno gli altri lavoratori. Il comma 2 specifica: “i medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro definiscono modalità e contenuti delle informazioni da rendere alle rappresentanze dei lavoratori in merito al lavoro a tempo determinato nelle aziende”, in linea con la normativa comunitaria di cui alle clausole 6 e 7 dell’ Accordo Quadro [50], mirando a rendere effettivi due principi: quello della permanente centralità del lavoro a tempo indeterminato e quello della lotta contro gli abusi datoriali nell’utilizzazione del contratto a termine.

Entrambi gli istituti sono di fonte contrattuale : dall’inciso ‘definiscono’ si può ipotizzare un obbligo di previsione da parte della contrattazione collettiva a cui sono affidate inoltre le modalità ed i contenuti di tali obblighi.

Il diritto del lavoratore di cui al comma 1 differisce da quello di precedenza in quanto non si ha qui un diritto di prelazione ma solo di informazione che rende consapevole il lavoratore e lo mette in grado di agire ai fini di ottenere un posto stabile, posto che però non è allo stesso riservato.

3.3 Estinzione del contratto a termine

Vi sono diverse cause di estinzione del contratto a termine.

Quella più comune è data dal decorso del termine nel caso di termine a data certa o a seguito di verificazione di un evento in caso di termine per relationem. Il decorso del termine è sufficiente ai fini della estinzione del rapporto di lavoro anche se sono previste, come poi vedremo nel prossimo capitolo, delle conseguenze giuridiche in caso di sua continuazione fattuale.

Ulteriore caso di estinzione è il recesso unilaterale ante tempus esercitato da una delle parti: questo però è legittimo solo per giusta causa: si esclude quindi il recesso ad nutum o per giustificato motivo. Ciò è stabilito dall’art. 2119 del codice civile che afferma: “se il contratto è a tempo determinato, ciascuno dei contraenti può recedere prima della scadenza del termine qualora si verifichi una causa che non consenta la continuazione anche provvisoria del rapporto [51].

In tal caso tanto più lungo sarà il termine, tanto maggiore sarà la durata del “viaggio” che il datore di lavoro dovrà necessariamente percorrere con il lavoratore, che potrà quindi essere considerato “precario” ma anche “stabile” per il periodo convenuto e titolare di una stabilità revocabile solo in caso di suoi inadempimenti costituenti giusta causa. Il datore infatti non potrà recedere per giustificato motivo oggettivo, per riduzione di personale o addirittura per cessazione dell’attività [52].

La parte che recede è onerata di provare la giusta causa e qualora questa non sussista è tenuta a risarcire il danno alla controparte per aver commesso un illecito o inadempimento contrattuale.

La parte receduta ossia chi ha subito il danno avrà invece l’ onere di provare l’an e il quantum. Il quantum, nel caso la parte recedente sia il datore potrà essere quantificato nella retribuzione che sarebbe stata corrisposta al lavoratore dal momento dell’ interruzione illegittima del rapporto fino al termine contrattualmente fissato. In tal caso il datore è onerato a dimostrare l’ an e il quantum di eventuali guadagni compensativi ottenuti dal lavoratore nel periodo in questione.

Più difficile è la prova del quantum da parte del datore.

4. Oltre il primo contratto a termine

Analizziamo ora i diversi istituti del contratto a termine, quali la durata, la proroga, la prosecuzione e la successione di contratti a termine, caratterizzati da uno stretto legame sostanziale con esso data l’univoca ratio che li sottende: quella di evitarne un utilizzo abusivo a tutela dell’interesse del prestatore ad un lavoro stabile.

Stesso obiettivo è portato avanti dall’ accordo quadro, recepito dalla Direttiva C.E. 70/99: alla clausola 1 lettera b) infatti afferma che lo scopo del presente accordo è: “di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti a tempo determinato” e alla clausola 5 prosegue che “per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato gli Stati membri dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti, una o più misure relative a: 1) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti, 2) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi, 3) il numero dei rinnovi di essi”. Il punto due della stessa clausola afferma che dovranno “stabilire inoltre quando i contratti a tempo determinato possono essere considerati successivi”.

Tali clausole parlano di successivi contratti a termine ma non si possono che interpretare nel senso dell’estensione dei vincoli a qualsiasi fattispecie di prolungamento del rapporto oltre il termine iniziale. In tal senso si riferiscono oltre all’istituto della successione di contratti a termine anche a quello della prosecuzione del rapporto oltre il termine e a quello della proroga [53].

Ora di fronte a tale normativa l’ordinamento nazionale versava in una posizione di anticipata conformazione: nella Legge 230/62 infatti poteva già rinvenirsi una compiuta e adeguata regolamentazione di tali istituti e lo stesso giudice delle leggi ha sostenuto ciò: “avendo il nostro legislatore da molto tempo adottato una serie di misure dirette ad evitare l’utilizzo della fattispecie contrattuale del lavoro a tempo determinato per finalità elusive, in particolare circondando di garanzie l’ipotesi della proroga e del rinnovo del contratto e precisando i casi in cui il contratto prorogato si debba considerare a tempo indeterminato”[54].

Nonostante ciò il legislatore del 2001 ha disciplinato nuovamente la materia agli art 4 e 5 della legge N. 368 / 01, in sostituzione dell’ art. 2 della 230/62, apportandovi modifiche che, seppur lievi e quindi comunque in linea con al normativa comunitaria, sono tendenti a una maggiore flessibilità del ricorso degli istituti in esame. Flessibilità peraltro già perseguita dal legislatore del ’97 (art. 12 L. 196/97 c.d. legge Treu) che, eliminando l’ultimo inciso dell’ art 2 della legge 230/62, andava ad escludere la possibilità di una valutazione giudiziale dell’intento fraudolento del datore al di fuori delle ipotesi previste dallo stesso articolo e quindi in presenza della formale ottemperanza delle regole legali [55] (vedi ultimo paragrafo di tale capitolo).

Detto ciò passiamo all’analisi dei singoli istituti trattando in primis la durata del contratto a termine.

4.1 Durata del contratto a tempo determinato.

Ne il legislatore del 2001 e ne quello del ’62 hanno previsto un limite di durata massima del rapporto di lavoro a termine: omissione questa apparentemente elusiva del disposto comunitario.

In realtà un limite indiretto sussiste proprio nel fatto che il contratto a termine è previsto solo per ragioni di per se temporanee e quindi è desumibile, secondo un criterio di ragionevolezza, in coerenza con la concreta causale di assunzione dedotta in contratto all’ atto della sua stipulazione [56].

La durata del contratto quindi, anche se apparentemente illimitata, è di fatto contenuta nel tempo e nella maggior parte dei casi in un tempo breve: inesistenti o scarse sono infatti le ragioni giustificative che legittimano rispettivamente un contratto di illimitata o lunga durata.

L’assenza di un limite di durata è comunque bilanciata dalla previsione di svariate predeterminazioni temporali di seguito elencate: a) ex art.10 comma 3 lavoro a giornata, 3 giorni; b) ex art.1 comma 4 lavoro occasionale: 12 giorni non prorogabili; c) art. 2 settore aeroportuale: quattro e sei mesi; d) art. 10 comma 8 contratti di breve durata fino a sette mesi , non prorogabili, o maggior durata stabilita dalla contrattazione collettiva; e) art.10 comma 6 lavoratori anziani pensionabili: due anni ripetibili, f) lavoratori in mobilità: dodici mesi no prorogabili; g) art. 4 comma 2 ipotesi di proroga: 3 anni complessivi; art. 10 comma 4 contratti dei dirigenti: 5 anni.

4.2 Proroga del termine

L’istituto della proroga è previsto dall’art.4 comma 1 che afferma: “Il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizioni che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore a tre anni”. In pratica non è altro che una manifestazione negoziale sul differimento del termine del contratto originario.

Tale articolo recepisce interamente la normativa comunitaria di cui alla clausola 5 dell’ accordo quadro; infatti dispone l’osservanza di tutte e tre le misure, quali a) ragioni obiettive, durata massima totale, e c)numero dei rinnovi, dalla clausola fissate peraltro alternativamente (una o più misure relative a) e non cumulativamente. Prevede un triennio come durata massima totale (contratto originario più proroga), ragioni oggettive, e ne limita l’uso ad una sola volta.

Ai fini dell’ammissibilità della proroga sono necessari i seguenti requisiti in parte uguali e in parte diversi rispetto alla disciplina previgente.

Quanto agli aspetti temporali, mentre prima non era previsto alcun limite fisso di durata ma solo che la proroga non poteva stipularsi per un tempo maggiore della durata del contratto iniziale, ora si afferma in primis la prorogabilità solo dei contratti inferiori al triennio e secondo poi che la durata complessiva tra contratto iniziale e proroga è al massimo di tre anni. Vi è quindi l’ effetto di contenere la durata triennale da un lato e quello estensivo della possibilità che la proroga sia più lunga del contratto originario d’altro lato (possibilità prima esclusa dalla legge 230/62).

Tale disciplina non impedisce l’ammissibilità di un contratto originario con durata maggiore del triennio qualora sussistano tutti gli altri requisiti.

La seconda condizione, rispetto a prima invariata, è il consenso del lavoratore: questo può essere espresso in varie forme, scritta, orale e può desumersi anche da comportamenti concludenti.

E’ comunque necessario in quanto funge da distinguo tra la proroga e la continuazione di fatto del rapporto di lavoro oltre il termine ex art. 5: mentre per questa la manifestazione di volontà dei soggetti non rileva ai fini della valutazione legale della fattispecie, la proroga invece è il frutto dell’ incontro della volontà delle parti attraverso cui si introduce una modifica parziale del contratto di lavoro a tempo determinato: il differimento temporale della sua scadenza [57].

Terzo requisito che conferma la normativa previgente è l’ammissibilità della proroga per una sola volta: ciò per ovviare proprio ad una utilizzazione fraudolenta dell’istituto caratterizzata proprio da suoi rinnovi ripetuti.

Infine la proroga deve essere richiesta da ragioni oggettive e riferirsi alla stessa attività lavorativa del contratto a termine originario.

Quanto alle ragioni giustificative si rileva, rispetto alla disciplina previgente, un ampliamento dei casi di ammissibilità e quindi una maggiore flessibilità nell’utilizzo dell’istituto.

La proroga infatti non è più richiesta per esigenze contingenti e imprevedibili (ex art. 2 L 230/62) che postulavano la eccezionalità della stessa, ma solo per esigenze oggettive: il ricorso alla stessa è quindi ora consentito anche quando ricorrono eventi che potevano già essere previsti al momento della stipula del contratto originario e per la stesse ragioni che sono alla base dello stesso qualora siano perduranti oltre la scadenza del termine.

Diretta conseguenza di ciò è il venir meno del requisito della disomogeneità delle circostanze legittimanti la proroga rispetto a quelle che consentono il contratto iniziale (principio questo sancito dalla Cassazione con sentenza 12 Novembre 1922 n°12166 secondo cui le circostanze idonee a legittimare la proroga devono essere ontologicamente diverse rispetto a quelle che hanno giustificato l’originaria apposizione del termine [58]).

Inoltre si ritiene che possano rientrare tra le ragioni oggettive le esigente derivanti da un errore di valutazione dell’imprenditore circa la persistenza della ragione che ha giustificato l’apposizione del termine al contratto originario. L’errore di valutazione è infatti indipendente dalla volontà del datore [59].

Detto ciò, sull’esatto ambito applicativo e valore semantico della locuzione ‘ragioni oggettive’ si può solo affermare la loro attinenza all’attività d’impresa (quindi mai soggettive) e la loro intrinseca temporaneità. Tale formulazione sembra simile alla clausola generale di cui all’art. 1 e sarà la Giurisprudenza con le sue massime a definirle ed a sancirne la loro identità sostanziale o meno.

Con l’espressione ‘stessa attività lavorativa’ ultimo requisito della proroga rimasto invariato, la giurisprudenza ha inteso l’identità non delle mansioni ma delle esigenze (non delle ragioni che abbiamo visto possono essere ontologicamente diverse) dell’impresa che hanno determinato l’assunzione originaria. Il lavoratore ben può essere adibito a mansioni diverse.

Il comma 2 dell’art. 4 afferma: “L’onere della prova relativa all’obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l’eventuale proroga del termine stesso è a carico del datore di lavoro”. Il datore è quindi onerato di dimostrare tutti i requisiti ai fini di ottenere una dichiarazione giudiziale di legittimità della proroga.

Perciò ai fini probatori si rende quanto meno opportuna, anche se non essenziale, l’adozione della forma scritta della proroga.

Il datore così potrà più efficacemente ovviare alle conseguenze giuridiche che si hanno a seguito alla dichiarazione di proroga illegittima.

Tali conseguenze giuridiche non sono espressamente previste dalla legge: si ritiene debbano applicarsi quelle relative alla continuazione di fatto oltre il termine fissato che sono previste dall’art. 5 commi 1 e 2. A seguito di una proroga illegittima infatti si va a configurare la fattispecie della prosecuzione di fatto del rapporto oltre il termine. Al lavoratore spetterà quindi per il primo periodo una maggiorazione economica ai sensi del comma 1 e se il rapporto prosegue oltre i limiti temporali di cui al comma 2, la conseguenza sarà quella della conversione ex nunc (dalla scadenza degli stessi limiti) in rapporto a tempo indeterminato.

4.3 Prosecuzione del rapporto oltre il termine

L’istituto in esame è disciplinato all’art. 5 commi 1 e 2: “se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai sensi dell’art. 4, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo, al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore. Se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini”.

Tale disciplina non è innovativa: riproduce infatti quanto già previsto dall’art. 12 della legge 196/97 che a sua volta aveva modificato l’art . 2 della 230/62.

Il legislatore va a prevedere due tipi di effetti giuridici o sanzioni in caso di protrazione del rapporto oltre la scadenza del termine originariamente fissato o successivamente prorogato. Tali effetti peraltro, è bene precisarlo, sono collegati ad una situazione che versa sul piano meramente fattuale.

Il primo consiste in una maggiorazione retributiva, per ogni giorno di continuazione, pari al 20% fino al decimo giorno e al 40% dall’undicesimo giorno fino al ventesimo o trentesimo se il contratto è di durata inferiore oppure uguale o superiore ai sei mesi. Tale sanzione è stata ritenuta, nonostante svariate dispute dottrinali, di natura retributiva piuttosto che risarcitoria: l’art parla infatti di maggiorazione della retribuzione [60]. Inoltre il contratto a termine viene conservato e pertanto considerato legittimo seppur entro stretti limiti temporali: ad una situazione di legittimità non può conseguire di regola un effetto di natura risarcitoria.

In altre parole al datore viene concesso un breve periodo detto di tolleranza in cui è presunta la sua buona fede e si esclude a priori ogni intento fraudolento (con conseguente inibizione di ogni indagine giudiziale volta ad accertare in concreto la ricorrenza o meno della volontà elusiva [61].

La ratio legis di tale continuazione breve può consistere in un’ immediata esigenza aziendale di protrazione dell’ attività lavorativa.

E’ considerata dalla dottrina prevalente come una proroga breve tacita diversa da quella ordinaria in quanto la sua ammissibilità è, secondo la stessa dottrina, svincolata dalla sussistenza di ragioni oggettive e del consenso del lavoratore [62].

In tal senso, riguardo al primo elemento non sarebbe necessario il protrarsi di un’esigenza aziendale, o quanto meno il datore di lavoro non sarebbe tenuto a provarlo.

In merito al consenso invece, mentre non può non rilevare quello del datore, sicchè non produce effetti una continuazione prohibente domino [63], nutro dubbi sulla ritenuta irrilevanza giuridica di quello del lavoratore: se così fosse, infatti, nel caso in cui il datore sia favorevole alla continuazione del rapporto, il lavoratore non potrebbe rifiutarsi di continuare la sua prestazione senza incorrere nelle conseguenze sanzionatorie previste dalla disciplina del recesso ante tempus.

Auspicabile un chiarimento in materia dal giudice delle leggi.

Il secondo e più grave, effetto è previsto dall’art. 5 comma 2 e consta nella conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato in tutte le ipotesi in cui la prosecuzione del rapporto si protrae oltre il ventesimo o trentesimo giorno.

La conversione, come già accennato, in tal caso opera ex nunc, ossia è irretroattiva (dalla scadenza dei predetti termini e non dal momento di stipulazione del contratto originario come prevedeva la 230/62 prima di essere modificata dalla legge 196/97. mentre nell’ipotesi precedente il legislatore presuppone, nel conservare il contratto a termine, l’assenza di alcun intento fraudolento del datore, in tal caso sussiste invece una presunzione assoluta di frode alla legge e non è pertanto ammessa prova contraria.

4.4 Successione di contratti a termine

L’istituto è disciplinato dall’art. 5 commi 3 e 4 e prevede due ipotesi di utilizzazione ‘abusiva’ di due o più contratti a termine stipulati successivamente: “Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell’art1, entro un periodo di 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto”.

Prima di analizzare la fattispecie occorre procedere a delle premesse:

- che in entrambi i casi sussistono due o più contratti di per se presunti legittimi: il comma 3 infatti cita testualmente della riassunzione a termine “ai sensi del comma 1”.

Se uno dei due contratti fosse infatti illegittimo si avrebbe, in virtù della disciplina generale, la conversione dello stesso a tempo indeterminato. Tale fattispecie non si configurerebbe e la sua applicazione sarebbe tra l’altro superflua data l’identità della sanzione prevista.

- Che ai fini della configurazione della fattispecie in esame deve sussistere nei contratti in successione l’identità soggettiva del prestatore. Tesi avallata dal giudice di legittimità che, con sentenza 4 Febbraio 1999 n°990, ha rinvenuto nella identità di persone, di causa e di oggetto il presupposto per la conversione in contratto a tempo indeterminato di due o più contratti a termine stipulati senza il rispetto degli intervalli di cui al comma 3 .

Sentenza però questa in parte superata alla luce dell’ art. 4 laddove all’inciso “ai sensi del comma 1” lascia intendere la possibilità che il contratto stipulato successivamente possa avere alla base anche ragioni diverse rispetto a quelle legittimanti l’antecedente [64].

Passiamo ora alle analisi delle due ipotesi previste.

La prima, rimasta invariata rispetto alla legge 230/62, va ad acconsentire alla riassunzione a termine dello stesso lavoratore purché ricorra un intervallo minimo di tempo di dieci o venti giorni a seconda che il contratto precedente sia di durata rispettivamente minore o uguale a sei mesi oppure superiore.

Pertanto va a sanzionare il datore che non osserva tali, e peraltro brevi, intervalli temporali con la conversione del secondo contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.

Il mancato rispetto di tali brevi lassi di tempo, secondo l’unanime dottrina, si ritiene come “presunzione assoluta” di frode alla legge: le ragioni legittimanti il termine si reputano insussistenti e al datore è pertanto esclusa la possibilità di prova contraria [65].

La seconda ipotesi ex comma 4 si configura nel caso di due assunzioni successive a termine intendendosi per tali quelle effettuate senza soluzione di continuità”.

Tale fattispecie è caratterizzata dall’assenza di un sia pur minimo intervallo ed è l’unico caso in cui la sanzione della conversione in contratto a tempo indeterminato ha efficacia retroattiva ossia opera dalla data di stipulazione del primo contratto.

Il comma 4 ha natura innovativa: va a definire il concetto di “assunzioni successive a termine” che prima era stato oggetto di dispute dottrinali. Oltre all’interpretazione legale vi era chi sosteneva che si trattasse di due contratti successivi a quello originario e quindi in tutto di almeno tre successive assunzioni successive dello stesso lavoratore.

Possiamo affermare che in tal senso la voluntas legis ha percorso un altro passo verso la flessibilità e questo per due motivi: in primis per la scarsa o nulla applicazione della fattispecie in esame perché limitata alla sola ipotesi di un datore di lavoro così sprovveduto che, all’indomani della scadenza di un rapporto a termine e senza far intercorrere neppure un giorno di intervallo, riassuma ex-novo lo stesso lavoratore con lo stesso contratto a termine [66].

Secondo poi perché nell’alveo dell’interpretazione scartata potevano essere ricondotte, e così sanzionate, le ipotesi di successione di contratti a termine che, seppur stipulati in osservanza degli intervalli previsti, di fatto perseguivano fini fraudolenti.

Occorre a tal punto chiedersi, a conclusione di tale paragrafo, se nel nostro ordinamento possano avere rilevanza giuridica e quindi suscettibile di essere sanzionate ipotesi di riassunzioni a termine che, seppur formalmente legittime, manifestino palesemente l’intento abusivo del datore in quanto direte in realtà a soddisfare esigenze di tipo non temporaneo.

La questione è divenuta tutt’altro che univoca sia in dottrina che in giurisprudenza, a seguito dell’abrogazione da parte del legislatore del ’97 dell’ultimo inciso dell’articolo 2 della legge 230/62 che sanzionava espressamente le ipotesi di riassunzione a termine, a prescindere dal rispetto degli intervalli, se comunque “intese ad eludere le disposizioni della legge”.

Tale abrogazione ha generato il formarsi di due orientamenti contrapposti che rispettivamente negano od affermano la fattispecie in esame in quanto esulante o riconducibile nell’art. 1344 cod. civ. intitolato: “si reputa altresì illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”.

I sostenitori della tesi negativa ritengono l’inapplicabilità dell’art. 1344 sia perché in contrasto con la voluntas legis e sia in quanto norma generale e antecedente e quindi recessiva rispetto all’art 12 legge 196/97 quale norma ‘specialis’ e ‘posterior’ [67].

Di contro si pone la recente giurisprudenza che, seppur indirettamente (in quanto relativamente a contratti a termine con intervalli anche minori di quelli consentiti), sembra ritenere l’applicabilità del principio generale ex art. 1344.

E’ auspicabile pertanto per l’avvenire un intervento più diretto del giudice di legittimità volto a dirimere tale contrasto interpretativo.

5. Considerazioni conclusive

5.1 articolo 11: abrogazioni e disciplina transitoria

L’articolo 11 del decreto legislativo in esame al comma 1 prevede due tipi di abrogazioni legislative: espressa e implicita; ai commi due e tre va invece a regolare l’efficacia dei contratti collettivi e individuali di lavoro vigenti all’entrata in vigore del decreto in esame.

Il comma 1 dispone testualmente: “Dalla entrata in vigore del presente decreto legislativo sono abrogate la legge 18 aprile 1962 n. 230, e successive modificazioni, l’articolo 8-bis della legge 79/83, l’articolo 23 della legge 56/87 nonché tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente richiamate dal presente decreto legislativo”.

Quanto alle abrogazioni legislative espresse vi è in primis la disciplina generale della in materia prevista dalla legge 230/62 della quale peraltro alcune norme sono state riprese quasi pedissequamente.

Poi l’art 8-bis della legge 79/83 che prevedeva per i lavoratori stagionali e per quelli per ‘punte stagionali’ in diritto di precedenza nelle successive assunzioni.

Diritto ora relegato alla eventuale previsione della fonte contrattuale ex articolo 10 comma 9 del decreto in esame.

Infine viene abrogato l’ articolo 23 della legge 56/87 che far venir meno all’autonomia collettiva, nazionale e locale, il potere di prevedere, entro limiti percentuali, nuove legittime ipotesi di lavoro a termine.

Saranno abrogate invece indirettamente tutte quelle disposizioni di legge che: 1) sono incompatibili con la legge in esame, secondo il principio generale del nostro ordinamento della prevalenza della lex posterior su quella previgente incompatibile. Sarà in tal caso compito dell’interprete del diritto a rendere inoperante la disposizione antecedente quando, di volta in volta, la fattispecie concreta esaminata dallo stesso postulerebbe la sua applicazione.

2) “non sono espressamente richiamate dal presente decreto legislativo: queste per tanto rimangono in vigore e sono sottratte all’interpretatio prudentium in merito alla compatibilità o meno con il decreto in esame.

Palese è qui il richiamo all’articolo 10 comma 6 secondo cui restano in vigore le discipline di cui all’articolo 8 , comma2, della legge 23 luglio 1991 n. 223, all’articolo 10 della legge 8 marzo 2000 n. 53 ed all’ articolo 75 della legge 23 dicembre 2000, n 388. Rimangono quindi in vigore le ipotesi di lavoro a termine relative rispettivamente ai lavoratori in mobilità, alla sostituzione di lavoratori in astensione obbligatoria o facoltativa per maternità, paternità o che accolgono un minore adottato o in affidamento e infine all’assunzione dei lavoratori anziani pensionabili che intendono differire il pensionamento.

Inoltre ex articolo 10 comma 7 è mantenuto in vigore il D. P. R. 1525/63 che prevede un’elencazione delle attività stagionali. Di tale norma è però mutata la ratio: quella di individuare le lavorazioni stagionali non più ai fini dell’apposizione del termine ma allo scopo dell’esenzione delle stesse dagli eventuali limiti quantitativi pattuibili in sede collettiva [68].

Il comma 2 invece mantiene l’efficacia dei contratti collettivi nazionali in materia già stipulati (e come abbiamo visto non più in futuro stipulabili) fino alla loro naturale scadenza: “In relazione agli effetti derivanti dalla abrogazione delle disposizioni di cui al comma 1, le clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulate ai sensi dell’art.23 della legge citata n. 56/87 e vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, manterranno , in via transitoria e salvo diverse intese, la loro efficacia fino alla scadenza dei contratti collettivi nazionali di lavoro”.

E’ necessario su tale argomento procedere a tre ordini di considerazioni:

1) in primis che la legge si riferisce ai contratti collettivi nazionali.

Da ciò si ricava, argomentando a contrario e quindi implicitamente, l’abrogazione contestuale con l’entrata in vigore di tale decreto delle clausole in materia previste dai contratti aziendali e territoriali.

2) Che l’inciso “salvo diverse intese” postula la facoltà dell’autonomia collettiva a livello nazionale di concordare in via anticipata, e quindi prima della scadenza, la caducazione di tali clausole. Il legislatore ha voluto delegare tale potere abrogativo di tali clausole alle stesse parti sociali a cui prima aveva riconosciuto il potere normativo di prevederle. Non poteva fare altrimenti senza sminuire la forza normativa della produzione collettiva rendendola completamente subalterna e modificabile in ogni momento dalla voluntas legis.

3) Infine che, in tale periodo transitorio si assiste alla ‘covigenza’ di tali clausole contrattuali con il decreto in esame. Possono quindi essere stipulati contratti a termine sia ai sensi dell’articolo 1 di tale decreto che nelle ipotesi previste dai contratti collettivi nazionali sia pur nel limite quantitativo fissato.

Superflua appare infine la disposizione di cui al comma 3 secondo cui: “i contratti individuali definiti in attuazione della normativa previgente, continuano a dispiegare i loro effetti fino ala scadenza”. E’ tale in quanto già desumibile dal principio di irretroattività dalla legge scritto nell’ articolo 11 delle preleggi secondo cui tempus regit actum [69].

5.2 Conclusione

Concludendo non si può che ribadire quanto sostenuto già dai precedenti capitoli: la tendenza verso la flessibilità dell’istituto in esame e in generale del mercato del lavoro.

Tendenza questa che traspare anche da uno degli ultimi interventi normativi in materia : quello della circolare 1 agosto 2002 n. 42 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Nella premessa sembra infatti sancire il superamento dell’orientamento che legittima il contratto a termine soltanto in presenza di un’attività temporanea. Afferma infatti che appare plausibile il ricorso al contratto a termine per l’esecuzione di prestazioni che non abbiano di per se il carattere della temporaneità[70] [71].

Concetto questo in parte recepito anche dall’ente assicurativo Inail secondo cui il contratto a termine dovrà essere considerato lecito in tutte le circostanze individuate dal datore di lavoro sulla base di criteri di “normalità tecnico-organizzativa” e nelle ipotesi in cui l’assunzione a termine non assuma una finalità chiaramente fraudolenta sulla base dei criteri di ragionevolezza desumibili dalla combinazione tra la durata del rapporto e l’attività lavorativa dedotta in contratto [72].

Il concetto di temporaneità come quello delle ragioni giustificative di cui all’articolo 1 rimangono comunque con un alto grado di indeterminatezza e per altro oggetto opinioni dottrinali divergenti: per l’immediato futuro sarà compito della massime giurisprudenziali quello di chiarirne il significato e quindi di farsi portatrici o meno di tale tendenza alla flessibilità.

NOTE

[1] Foro It. (1999 I, pag. 136 e ss.)

[2] Ghera E. : il rapporto di lavoro ediz.2001 pag 613

[3] D&L Riv. Crit. Dir. Lav. 1999 pag. 550 e ss.

[4] Riv. It. Dir. Lav. (2000 II 505 e ss.)

[5] Foro It. 1999 pag. 136 e ss.

[6] Foro It. 1999 pag. 136 e ss.

[7] Riv. It. Dir. Lav. (2000 II, pag. 120 e ss)

[8] Menghini Giurisp. It. (1999, pag. 1383)

[9] Lazzarini N. in- Riv. It. Dir. Lav. (2001 II, pag 326)

[10] Sentenza Corte di Cassazione Sez. Lav. 10/7/00 n°9174

[11] Dondi Germano. Il Lavoro nella Giurisprudenza (2002 n°1, pag. 33)

[12] Guida al diritto (2001 n°44, pag. 30) (Sole 24 ore)

[13] Centofanti Siro: Il lavoro nella Giurisprudenza (2001 n°10, pag. 915)

[14] Dondi Germano: Il lavoro nella Giurisprudenza (2002 n°1, pag.29)

[15] Roccella “prime osservazioni sullo schema di Dec. Leg. Sul lavoro a termine. Internet www.cgil.it/giuridico/politiche

[16] Dondi G.: Il lavoro nella Giurisprudenza (2002 n°1, pag. 29 e ss.)

[17] Tiraboschi Michele: ne’ “Il nuovo lavoro a termine”a cura di Biagi pag. 69, editore Giuffrè 2002.

[18] Centofanti Siro – Il Lavoro nella giurisprudenza (10-2001; pag. 919)

[19] Dondi Germano – Il lavoro nella giurisprudenza (1-2002; pag. 33)

[20] Tiraboschi Michele – nel “il Nuovo contratto a termine”, a cura di Marco Biagi, Giuffè Editore pag.105

[21] Ghera Edoardo manuale – edizione 2002 pag. 618

[22] Tiraboschi Michele – ibidem pag. 108

[23] es. assunzione a termine per un massimo di 12 mesi dei lavoratori iscritti alle liste di mobilità ex art. 8 comma2 L.n. 223/91

[24] Ruggero Luca – Massimario della Giurisprudenza del Lavoro (11-2001; pag. 1074)

[25] Centofanti Siro – op cit. –pag. 918.

[26] Nel dubbio se il lavoratore sostituito debba necessariamente avere il diritto alla conservazione del posto: ritengo la tesi negativa. Un lavoratore a termine potrà anche sostituirne un altro ugualmente a termine.

[27] Corte di Cassazione sentenze numeri 5733/80, 32937/83

[28] Raccomandazione del Consiglio 18 Febbraio 2002 riguardante l’attuazione delle politiche in materia do occupazione degli stati membri. “invitando n°2”

[29] Russo Alberto – Il nuovo lavoro a temine a cura di Biagi, edizione 2002 pag112

[30] Papaleoni Marco – Massimario della Giurisprudenza del Lavoro (11-2001; pag. 1077)

[31] Foro It. 1999 (I, pag. 145)

[32] Tiraboschi Michele (op. cit. Biagi pag112)

[33] Spadafora M. T. – ne “Il contratto di lavoro a tempo determinato nel Dec. Leg. 368/01 a cura di G. C: Perone, Giappichelli , 2002. pag.65

[34] Mautone Giuseppe (op cit. Biagi) pag120

[35] Mautone Giuseppe (op cit. )

[36] Iugero Luca – Massimario della Giurisprudenza del Lavoro (1- 2001; pagina 1076)

[37] Mautone Giuseppe – (op. cit. Biagi)  

[38] braccianti avventizi: lavoratori in agricoltura per lo più a giornata o a brevi periodi. Salariati fissi detti anche annaroli sono lavoratori con contratto annuale in primis e poi biennale.

[39] Pasquini Flavia (ne “il Nuovo lavoro a termine” a cura di Biagi ediz.Giuffrè 2002) pag. 290

[40] Pasquini Flavia – op. cit.

[41] Art.2118 c. civ. “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti, dagli usi o secondo equità. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.

[42] Basenghi Francesco – Massimario della Giurisprudenza del Lavoro – (11; 2001 – pag. 1089)

[43] Russo Alberto – nel “il Nuovo contratto a termine”, a cura di Marco Biagi, Giuffè Editore pag. 236: ‘ l’individuazione da parte dei contratti collettivi di tetti massimi non può in nessun modo configurare una condizione di procedibilità ai fini dell’assunzione dei lavoratori a tempo determinato. Per altro dal verbo affidare si desume la volontà al legislatore di lasciare all’autonomia collettiva maggiore libertà di valutazione e quindi anche di non poter predisporre alcun tetto massimo ’.

[44] Ghera Edoardo manuale – edizione 2002 pag. 628: ‘ è possibile che in alcuni settori produttivi il contratto a termine non incontri limiti numerici ’.

[45] Vallebona A. – “La Nuova disciplina del lavoro a termine” relazione presentata al centro studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano” pag. 22: ‘in conclusione il limite quantitativo costituisce, al pari della forma scritta e della giustificazione, elemento essenziale della fattispecie legale ammissiva del termine (…) sicchè in mancanza non è consentita la stipulazione di contratti a termine, salvo le eccezioni".

[46] Salomone R. – nel “il Nuovo contratto a termine”, a cura di Marco Biagi, Giuffè Editore pag. 243

[47] quali costituzione si R.S.A, R.S.U., diritto dei lavoratori di riunirsi in assemblea fuori e durante l’orario di lavoro, diritto di referendum su materie inerenti l’attività sindacale, diritto dei dirigenti delle rsa, rsu a permessi retribuiti e non

[48] Tiraboschi M. – nel “il Nuovo contratto a termine”, a cura di Marco Biagi, Giuffè Editore pag 195

[49] Vallebona A. – “La Nuova disciplina del lavoro a termine” relazione presentata al centro studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano” pag.28

[50] clausola 6 : i datori di lavoro informano i lavoratori a tempo determinato dei posti vacanti che si rendono disponibili nell’impresa o stabilimento, in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere posti duraturi che hanno gli altri lavoratori. clausola 7: …nella misura del possibile, i datori di lavoro dovrebbero prendere in considerazione la fornitura di adeguata informazione agli organi di rappresentanza dei lavoratori in merito al lavoro a tempo determinato nelle azienda.

[51] Palese è la causa dovuta alla morte del lavoratore sia a termine che non a cui consegue la titolarità dei suoi eredi delle indennità de cui all’art. 2918 c. civ. e il TFR ex art. 2120 c. civ.

[52] Centofanti Siro – Il lavoro nella giurisprudenza (10/2001, pag. 920)

[53] Bozzao P. – ne “Il contratto di lavoro a tempo determinato nel Dec. Leg. 368/01 a cura di G. C: Perone, Giappichelli , 2002. pag103

[54] Corte Costituzionale 7 Feb. 2000 n 41, in Mass. Giur. Lav. 2000 pag 746 con nota di A. Cellotto.

[55] Di diverso avviso Vallebona A. – “La Nuova disciplina del lavoro a termine” relazione presentata al centro studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano” pag. 8: secondo cui la disciplina di tali istituti è rimasta invariata nella sua rigorosità.

[56] Circolare 1 Agosto 2002 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali- in “Guida la Lavoro” (34- 2002 ; pag 24)

[57] Bozzao P. ne- op. cit. pag 106

[58] Centofanti S. Centofanti Siro – Il lavoro nella giurisprudenza (10/2001, pag.922)

[59] Bozzao P. – op. cit. pag 107

[60] di diverso avviso Mautone G. – ne “il Nuovo contratto a termine”, a cura di Marco Biagi, Giuffè Editore pag. 160

[61] Bozzao P. – op. cit. pag 109

[62] Bozzao P – op. cit. pag. 106-108; Ghera E. manuale – edizione 2002 pag. 623

[63] Vallebona A. – op. cit. pag. 9.

[64] Bozzao P. – op. cit. pag. 22

[65] Mautone G. – op. cit. pag. 162

[66] Centofanti S. – op. cit. pag. 923

[67] Mautone G. – op. cit. pag 167

[68] Mobiglia M. – nel “il Nuovo contratto a termine”, a cura di Marco Biagi, Giuffè Editore pag. 252

[69] Suppej G. – in Mass. Giur. Lav. (11, 2001 – pag 1095)

[70] Gremigli P. ne - Guida al lavoro (34/2002; pag.20)

[71] dello stesso avviso Vallebona A. – “La Nuova disciplina del lavoro a termine” relazione presentata al centro studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano” pag. 14; secondo cui la temporaneità non è essenziale ai fini della legittimazione del contratto a termine; il contratto a termine sarebbe lecito anche a fronte di circostanze di per se permanenti in cui l’apposizione del termine non è inevitabile. Infatti secondo l’autore la ratio dell’esenzione, in alcune ipotesi previste dalla legge, dai limiti quantitativi consterebbe nella loro intrinseca temporaneità. Ciò lascerebbe quindi supporre, che nelle rimanenti ipotesi, in cui i limiti quantitativi sono previsti, si tratterebbe di occasioni di per se permanenti di lavoro. Un esempio esplicativo è tratto dalle lezioni in un corso di diritto del lavoro dallo stesso professore tenuto presso l’Università degli studi di Roma – Tor Vergata: “trattasi di un’impresa import-export che necessiti immediatamente di una segretaria, in modo permanente, che sappia quattro lingue tra cui russo e arabo. Data la difficoltà di trovarne subito una con tali caratteristiche l’impresa potrà ad esempio assumerne un’altra a termine per relationem finchè non riesca a reclutare quella che meglio risponde alle competenze richieste. In tal caso, seppur l’attività lavorativa da espletare è di per se permanente , la particolare contigenza aziendale lascerebbe liberò il datore per optare per un contratto a termine.

[72] De Compatri L.  – Guida al lavoro (27/2002; pag28)

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§ Salvatori Paolo, La giustificazione del termine: le ragioni di carattere tecnico organizzativo, produttivo e

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§ Spadafora Maria Teresa, Gli effetti dell'accertamento in sede giudiziale della mancanza delle ragioni legittimanti l'apposizione del termine ai sensi dell'art.1, d.lgs 6 settembre 2001, n.368 ne Il contratto di lavoro a tempo determinato nel D.lgs 6 Settembre 2001, n.368 a cura di Giancarlo Perone, Giappichelli, Torino, 2002;

§ Suppiej Giuseppe, La disciplina transitoria dei contratti di lavoro a termine, in Giuda al diritto del Sole 24-Ore, n.11 novembre 2001;

§ Tiraboschi Michele, Quale sorte per il lavoro a termine nel Ccnl dopo il 368/2001? In Guida al Lavoro, Il Sole 24-Ore, n.11 novembre 2001;

§ Vallebona Antonio, Pisani Carlo, Il nuovo contratto a termine, Cedam 2001.

§ Vallebona A. “La Nuova disciplina del lavoro a termine” relazione presentata al centro studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano"


Autore: Dott. Michele Mirante - tratto dal sito: www.filodiritto.it