La consulenza tecnica
tra mezzo istruttorio e mezzo di prova

aspetti problematici e profili applicativi

1 - Premessa;
2 - Sulla natura della consulenza tecnica d’ufficio;
3 - Consulenza ed onere della prova;
4 - L’attività del consulente «percipiente»: la raccolta delle informazioni e l’acquisizione dei documenti;
5 - La disponibilità da parte del giudice della consulenza;
6 - La valutazione della attività del consulente: la sostituzione e la rinnovazione;
7 - Diritto alla prova contraria e la consulenza tecnica di parte.

1. Premessa

Il tema della consulenza tecnica d’ufficio e del relativo inquadramento sistematico all’interno dei mezzi di prova è da sempre molto discusso [ 1 ]. Nuovo interesse alle dispute sulla natura della consulenza tecnica, il cui precedente nel codice del 1865 era lo strumento della c.d. perizia [ 2 ], proviene dalla riforma del processo amministrativo, portata dalla L. 21/07/2000 n° 205, «Disposizioni in materia di giustizia amministrativa» [ 3 ]; la legge, frutto di un lungo iter parlamentare e volta a “sistemare” taluni interventi della Corte Costituzionale non soltanto su norme processuali [ 4 ], agli artt. 1 comma 3 e art. 16 sancisce la caducazione del divieto di disporre la consulenza tecnica d’ufficio nel processo amministrativo ed in particolare innanzi al T.A.R [ 5 ].
La questione, che qui si intende affrontare, presuppone un breve excursus storico sull’evoluzione del processo amministrativo che ha condotto all’ammissibilità di simile mezzo istruttorio, per poi verificare, qualora ve ne fossero, le ricadute sistematiche sul processo civile ed in particolare sulla sistemazione dommatica dell’istituto in parola.
La consulenza tecnica non era ammessa o addirittura nemmeno configurabile nel processo amministrativo, così come derivato dalle leggi abolitrici del contenzioso amministrativo e dalle successive modifiche, soprattutto per una caratteristica di fondo, essendo esso configurabile [ 6 ], almeno fino alla sentenza della Corte di Cassazione n. 500/1999, come processo caducatorio, ovvero sulla sola legittimità dell’atto [ 7 ]. Pertanto, alcuni commentatori, particolarmente illuminati, affermavano che il processo amministrativo era un processo caratterizzato dalla «limitatezza dei mezzi di prova» [ 8 ], come del resto lo sono tutti i processi di mera legittimità [ 9 ].
Proprio questa natura è stata oggetto di profonda rivisitazione da parte della legge 205/2000, anche per l’effetto dirompente delle sentenze gemelle della Suprema Corte n. 500 e 501 del 1999. Simili decisioni hanno messo fine alla giurisprudenza consolidata, se non addirittura monolitica, sulla irrisarcibilità della lesione dell’interesse legittimo [10]. In realtà, però, v’è da chiarire come la Cassazione non avesse mai escluso, come del resto non era nemmeno pensabile dato il sicuro supporto normativo, la risarcibilità dell’interesse legittimo oppositivo (fulgido esempio di simile indirizzo è da rintracciare nella risarcibilità del danno derivante da occupazione acquisitiva), il cui ristoro era variamente giustificato [11], ma negava in maniera categorica la risarcibilità di quello pretensivo [12].
La sentenza n. 500, anche se poi superata dalla stessa l. 205 /2000, ha affermato un principio rivoluzionario, ammettendo non solo la risarcibilità dell’interesse legittimo oppositivo, ma anche di quello pretensivo, sintetizzabile come «pretesa ad avere un’utilità che non si ha» [13]. Simile pronuncia, però, conservava immutato il principio del doppio binario, per cui innanzi al giudice amministrativo si determinava la caducazione dell’atto illegittimo e, successivamente, innanzi al giudice ordinario si chiedeva il risarcimento per la lesione corrispondente [14].
La legge 205 ha eliminato questo doppio binario necessario, affermando che, non solo nelle materie ove il T.A.R. ha giurisdizione esclusiva, ma anche nel caso di riparto in base alla situazione sostanziale, ipotesi ormai del tutto residuale visto l’art. 7 della medesima legge, il giudice amministrativo possa non solo pronunciare sentenze caducatorie, ma anche risarcitorie derivanti dalla lesione degli interessi legittimi [15].
Simile rivoluzione copernicana non poteva non avere il suo portato in ambito probatorio; infatti, non potendo più limitarsi alla sola pronuncia caducatoria, facilmente assimilabile al giudizio di mera legittimità, il giudice deve poter disporre di una serie di mezzi istruttori in ordine ai fatti allegati dalle parti, anche perché il giudizio dalla mera legittimità dell’atto si sposta sulla liceità del rapporto [16]. In particolare, potendo essere chiamato alla pronuncia di sentenze di condanna o costitutive nei confronti della stessa amministrazione, il giudice speciale potrebbe incappare in talune situazioni in cui è necessario l’ausilio del consulente tecnico al fine della integrazione delle sue conoscenze.
In linea di estrema sintesi possiamo sostenere che - nonostante la riformulazione dell’art. 44 RD. 1924/1054, sul funzionamento del Consiglio di Stato, attinente, comunque, all’istruzione del ricorso - il solo dato sistematico non è sufficiente per far qualificare la consulenza tecnica d’ufficio come un vero e proprio mezzo di prova o un mezzo istruttorio [17], ed inoltre simile notazione da sola non ha una vis atractiva tale da influenzare la qualificazione della consulenza tecnica nel processo civile.
Inoltre, v’è da considerare come la distinzione tra mero mezzo istruttorio e mezzo di prova sia del tutto sconosciuta al diritto processuale amministrativo; pertanto, peccherebbe per eccesso colui che volesse desumere dal dato sistematico degli artt. 21 e 33 l. 1034/1971, 44 TU Cons. Stato e 7 l. 205/2000 la volontà del legislatore di affermare incondizionatamente la natura di mezzo di prova della consulenza nel processo amministrativo, ed ancor più se si volesse trarne argomento per definire la natura del succitato mezzo nell’ambito del processo civile. Per di più, va notato che l’intera istruttoria del processo amministrativo è particolare in quanto essa non è regolata dal principio dispositivo ma dal principio «dispositivo con metodo acquisitivo» [18]. Simile principio permetterebbe al giudice di attenuare l’applicazione del principio dell’onere della prova, gravando della prova dei fatti principali allegati quelle parti che siano più prossime alla fonte della prova stessa [19]. Tale principio potrebbe avere una limitata applicazione anche per la consulenza tecnica al fine di evitare quei rigorismi che hanno caratterizzato la giurisprudenza nella applicazione del principio di cui all’art. 2697 c.c. [20]. Infatti, se il giudice ritenesse la prova del fatto principale sia acquisibile solo tramite la consulenza, proprio in virtù del principio dell’«acquisizione», sarebbe costretto ad ammetterla [21]. Questa riflessione è già stata avviata anche tra i processualisti civili ed ha interessato pure la giurisprudenza [22], e proprio in tema di consulenza ha trovato dei punti fermi. In particolare, la considerazione che la mancata disposizione della consulenza va motivata espressamente, che il vizio della motivazione è deducibile come motivo di gravame (anche in Cassazione) e che essa non è negabile quando appare mezzo necessario od indispensabile per la prova del fatto.
Pertanto, occorre risolvere la questione della natura di siffatto istituto analizzandone i profili funzionali e strutturali e, rispetto a quest’ultimi, bisognerà esaminare altri indici normativi che fanno propendere per l’una o l’altra soluzione.

2. Sulla natura della consulenza tecnica d’ufficio

La natura della consulenza ha sempre oscillato tra quella di mezzo istruttorio e quella di mezzo di prova. Parte della dottrina, non solo quella meno recente [23], ha sempre definito simile istituto non come un vero mezzo di prova, ma, piuttosto, come un mero mezzo istruttorio, arrivando a simile conclusione sulla base di una sequenza di considerazioni di ordine generale. In primis, il dato semantico: la consulenza tecnica nel codice attuale ha una collocazione diversa da quella che aveva nel codice del 1865, dove parlandosi di «perizia» [24] non si dava rilievo all’aspetto soggettivo dell’istituto, ma al risultato della stessa [25], ovvero alla dichiarazione del perito che, comunque, poteva essere assimilabile ad una prova documentale; il codice vigente, invece, dà molta più importanza al profilo soggettivo, inquadrando il consulente fra gli ausiliari del giudice, anzi identificandolo nel suo principale ausiliario, che lo aiuta ad una migliore valutazione dei fatti, già allegati ed asseverati dalle parti, fornendogli le massime dell’esperienza di quello specifico settore di materie che il giudice non conosce [26], e che se anche conoscesse non potrebbe utilizzare per il divieto di scienza privata [27], che nell’ipotesi considerata tutelerebbe il principio del contraddittorio [28]. Pertanto, e qui si individua il secondo motivo per cui la consulenza non sarebbe mezzo di prova tout court, la sua attività, a differenza di quella del testimone che è di mera narrazione dei fatti, costituirebbe una valutazione degli stessi, o meglio di prevalenza di simile fase su quella propriamente rappresentativa [29]. La medesima notazione si fa nel processo amministrativo da parte della giurisprudenza per distinguere le perizie (ammesse già prima della legge 205 del 2000 e della stessa sentenza della Corte Cost. del 1987, nella materia dell’edilizia [30]) dalle verificazioni; per cui, mentre le prime consentirebbero una valutazione tecnica di determinate situazioni da utilizzare ai fini della decisione della controversia, le seconde costituirebbero soltanto un mero accertamento disposto al fine di completare la conoscenza dei fatti raggiunti con l’istruttoria procedimentale [31].
La terza ragione sarebbe costituita dal dato sistematico, ovvero dalla collocazione dell’istituto all’interno del codice; come notato da autorevole dottrina, la natura di mezzo latamente istruttorio deriverebbe dal fatto che esso risulta regolato pur sempre all’interno della sezione dedicata all’istruzione probatoria, senza essere ricompreso fra gli altri mezzi di prova, diversamente da quanto avveniva nel codice previgente [32].
Dalla natura di ausiliario del giudice e dagli altri dati indicati, i commentatori che ritengono la consulenza mero mezzo istruttorio fanno derivare tutta una serie di altri corollari difficilmente contestabili se non si cambia l’impostazione di fondo. La conseguenza principale che si fa derivare dal postulato sopra enunciato, sapientemente avversata da qualche autore [33], è quella per cui il risultato finale della attività del consulente tecnico, non essendo un mezzo di prova, non può valere da sola ad assolvere l’onere di cui all’art. 2697 c.c.
Procedendo in base al presupposto che l’attività del consulente sia di mera valutazione dei fatti già acquisiti, o che tutt’al più la fase valutativa sia comunque preminente rispetto a quella narrativa, si disconosce sia parte del dato normativo- sistematico, sia l’effettiva modalità di svolgimento dello stesso mezzo di prova. Come sottolineato da una sentenza a sezione unite della Cassazione la consulenza tecnica appare come un vero e proprio Giano bifronte; simile istituto, infatti, e non in ultimo per la sua collocazione sistematica all’interno della sezione III del libro secondo dedicata all’istruzione probatoria, ha sovente una funzione (non di mera valutazione di risultanze già presenti negli atti processuali, ma) di vero e proprio strumento per l’asseverazione dei fatti allegati da entrambe le parti, e quindi per accertare l’esistenza e la verità di alcuni fatti così come allegati dalle parti. Questa considerazione di fondo sta alla base della distinzione che la Suprema Corte ha tracciato tra consulente «deducente», tenuto alla sola valutazione di fatti già acquisiti ed asseverati, e «percipiente» [34], avente il compito non della sola valutazione, ma di costituire fonte oggettiva di prova.
Pertanto, in relazione a quest’ultima figura di consulente parte della dottrina ha ritenuto che l’istituto non possa più esser distinto dalla testimonianza sulla base della prevalenza del momento valutativo su quello narrativo, anche per la debolezza di simile dato quantitativo, bensì debba essere praticamente ad essa assimilato in quanto anche tale istituto, come la testimonianza, consisterebbe in una dichiarazione di scienza resa al giudice di fatti di cui si è avuto conoscenza; pertanto gli unici dati differenziali sarebbero costituiti da elementi di tipo formale, quali la «parte processuale» da cui è provenuto l’incarico; la valutazione preventiva di attendibilità; la sua formazione tramite procedimenti tipizzati che ne aumentano la forza persuasiva [35].
Sulla base di quanto sostenuto possiamo ritenere che qualora il giudice incarichi il consulente della sola percezione dei fatti allegati non siamo lontani da una prova in senso stretto [36].


3. Consulenza ed onere della prova

Tuttavia, ancora ostano a simile inquadramento dogmatico almeno due problematiche, di origine prevalentemente giurisprudenziale, ed intimamente legate tra loro, riguardanti la surrogabilità e la soddisfazione dell’onere della prova tramite simile mezzo e la discrezionalità del giudice nel disporlo o ritenerlo opportuna.
Partendo dalla prima problematica citata, la giurisprudenza, almeno fino alla sentenza del 1996 delle sezioni unite, forse sulla scorta dell’indirizzo dominante che riteneva l’istituto de quo quale mero mezzo istruttorio, sostiene l’impossibilità che la sola consulenza tecnica sia in grado di soddisfare l’onere della prova a carico delle parti di cui all’art. 2697 c.c.[37] Per vero si ritiene necessario al fine della sua soddisfazione che le parti deducano i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di rispettivi diritti [38].
In realtà, l’indirizzo in esame non è del tutto pacifico nella medesima giurisprudenza, la quale ha anche sostenuto, d’altra parte, come la mancata ammissione della consulenza assurga a error in procedendo, sub specie della violazione della legge processuale, censurabile in sede di legittimità [39].
Da quanto affermato in giurisprudenza appare chiara l’esigenza di contemperare almeno due opposte necessità: quella di non disconoscere la c.t.u. come mezzo istruttorio ex se - quindi, di accertamento della verità dei fatti così come allegati dalle parti- e quella, non meno conformante il processo civile, di evitare che con tale istituto si violi il principio dispositivo [40]. Il principio dispositivo avrebbe, peraltro, due profili applicativi diversi, ovvero non concernerebbe, come di solito si sostiene, solo la piena disponibilità dei mezzi istruttori a favore delle parti, ma anche la stessa proposizione della domanda nel processo civile e, conseguentemente, la possibilità di richiedere la tutela giurisdizionale della propria situazione giuridica soggettiva [41] (esigenza espressa dal vecchio brocardo latino Nemo iudex sine actore, e che troverebbe l’unica deroga, peraltro prevista nello stesso art. 2907 c.c., nella legittimazione straordinaria o nella sostituzione processuale, nonostante la formulazione ambigua della norma lasci spazio a non pochi dubbi interpretativi). L’evidente differenza di ampiezza e di portata di codeste applicazioni del principio dispositivo, conduce necessariamente a delle differenze sul piano applicativo; infatti, mentre il principio dispositivo “in senso sostanziale” non verrebbe in considerazione nella fattispecie in esame, o meglio, non sarebbe posto in discussione dalla qualificazione della c.t.u. come mezzo di prova tout court [42]; lo stesso non potrebbe dirsi rispetto alla diversa applicazione del principio in parola, anche denominato principio dispositivo in senso processuale [43], ossia alla piena disponibilità delle parti dei mezzi di prova, che troverebbe, secondo la dottrina tradizionale, sicuro fondamento nell’art. 115 c.p.c.
In conclusione, la tesi dell’inidoneità della consulenza tecnica a soddisfare la regola di cui all’art. 2697 c.c. sarebbe fallace per due ordini di ragioni: perché è valida solo se applicata limitata al solo principio dispositivo in tema di prove, e perché, per di più simile principio non può considerarsi assoluto ed intangibile, incontrando pesanti deroghe all’interno del sistema processuale.
Di conseguenza, appare del tutto inconferente sostenere che la c.t.u. non sia sufficiente a soddisfare l’onere della prova, una volta appuratane la natura di mezzo prova tout court e superato l’ostacolo costituto dalla presunta violazione del principio di disponibilità della azione e della domanda.
Per vero se rivolgessimo la nostra attenzione al processo amministrativo ante riforma si potrebbe facilmente notare come i due principi vivono in maniera del tutto distinta. Infatti, mentre nessuno pone in dubbio che il ricorso amministrativo sia fondato anche esso sul principio dispositivo in senso sostanziale (in altri termini anche qui vige il principio nemo iudex sine actore [44]), se si pone mente all’ambito strettamente probatorio i commentatori non esitano, invece, a sostenere che nel processo amministrativo il giudice «è investito di funzioni inquirenti, ossia di ampia facoltà d’indagine e di larghi poteri discrezionali per la scelta dei mezzi di prova per le modalità della loro esecuzione, in modo da assicurare la massima possibile chiarezza e certezza intorno alla realtà dei fatti sui i quali il giudizio si basa» [45]. Inoltre, la giurisprudenza amministrativa ha sempre ritenuto che in questo processo il principio dispositivo sia attenuato, e con esso anche l’onere della prova [46], tramite l’utilizzo del metodo acquisitivo [47]. Tuttavia, questo metodo verrebbe in esame tutte le volte in cui i mezzi di prova siano nella esclusiva disponibilità della parte pubblica, oppure la parte (di solito quella privata) sia nella completa impossibilità di procedere all’asseverazione dei fatti posti a base delle propria domanda [48].
Pertanto, a conclusione di questo discorso e del confronto con le soluzioni istruttorie utilizzate nel processo amministrativo, sembra potersi confermare l’opinione di quella parte della dottrina processualcivilista, la quale ha sostenuto che il principio della domanda potrebbe ben convivere con un sistema inquisitorio sotto il profilo probatorio [49].
Inoltre, codesta problematica, che risulta essere oziosa, ricade, in quanto ne costituisce, come ampiamente notato in precedenza, il portato necessario, nella più ampia discussione sulla natura di simile istituto. Una volta affermato, come ha fatto la Suprema Corte a sezioni unite, che la consulenza tecnica nella sua veste «percipiente» costituisce un mezzo di prova ex se si esclude incondizionatamente l’applicazione della regola dell’onere della prova qualora i fatti primari allegati dalle parti siano asseverati come esistenti con la sola c.t.u [50]. Successivamente, ci si potrà domandare, come hanno fatto taluni interpreti, a quale mezzo istruttorio la C.T.U. presenti profili più similari, anche considerando i vari modi di atteggiarsi di simile strumento, che si desumono, soprattutto, dallo specifico incarico che il giudice ha dato al suo ausiliario [51].


4. L’attività del consulente «percipiente»: la raccolta delle informazioni e l’acquisizione dei documenti

Come giustamente notato, l’attività più frequentemente demandata al c.t.u. è quella di svolgere le indagini tecniche da eseguirsi anche al di fuori dell’udienza e della circoscrizione giudiziaria [52], alla presenza o meno del giudice [53]. Proprio in relazione a simili attività, come ampiamente richiamato dalla stessa giurisprudenza, il consulente è tenuto a verificare l’effettiva esistenza di alcuni fatti affermati dalle parti o ad appurare se essi si siano verificati nelle modalità in cui sono stati indicati da queste [54]. Ma proprio in riferimento a siffatte operazioni (che tendono ad avvicinarsi molto anche agli esperimenti, la cui natura probatoria non mai è stata posta in dubbio), dottrina e giurisprudenza si sono soffermati almeno su due distinti problemi non di poco momento: la rilevanza delle informazioni assunte dalle parti e dai terzi e dell’acquisizione di documenti non prodotti dalle parti.
In generale il problema è stato risolto dalla giurisprudenza nel senso che simili fatti, appresi dal consulente al di fuori degli atti processuali, possono valere a fondare il convincimento del giudice purché se ne citi la fonte di provenienza al fine di consentire il controllo ad opera delle altre parti [55].
In linea di minore approssimazione, l’analisi della normativa sulle indagini che il c.t.u. può compiere fuori udienza sembra potersi desumere che l’autonomia di tale strumento sia molto limitata infatti il c.t.u. potrà procedere a simili accertamenti solo quando sia stato espressamente autorizzato da parte del giudice (art. 194 c.p.c.) ed inoltre non potrà ricevere, a norma dell’art. 90 disp. att., nessun altro scritto all’infuori di quelli contenenti osservazioni ed istanze delle parti.
La giurisprudenza e la dottrina, però, hanno attenuato simili rigorismi sia per quanto concerne il profilo della previa autorizzazione [56], non ritenendo affette da nullità quelle attività non espressamente autorizzate dal giudice, sia per quanto riguarda le informazioni e i chiarimenti da parte dei terzi. Per quel che attiene le informazioni richieste ai terzi od alle parti, il consulente deve indicare nella relazione la fonte di provenienza, ma, come sovente afferma la giurisprudenza e la stessa dottrina, la sua attività non può risolversi in un mezzo sostitutivo dell’onere della prova [57], e a ciò si deve aggiungere il divieto per il giudice di affidare ab initio mandati di carattere esplorativo [58]. Tuttavia, le informazioni così acquisite hanno il valore di indagini liberamente apprezzabili dal giudice (come del resto lo sono tutte le prove che non siano legali) [59], e, come hanno ritenuto eminenti commentatori, non possono avere valore confessorio o negoziale [60]. Simile approdo appare in controtendenza rispetto alla lettera della legge la quale, ponendo la distinzione tra la confessione giudiziale e stragiudiziale, ha sancito che quest’ultima si abbia anche quando venga fatta ad un terzo ed acquisisce la natura di prova liberamente valutabile dal giudice; difatti, la norma ha voluto cristallizzare nella formula legislativa la massima d’esperienza per cui la confessione resa ad un terzo ha minore attendibilità della veridicità dei fatti confessati di quella resa alla stessa controparte od in un atto mortis causa e, quindi, non si vede perché la ammissione di fatti sfavorevoli ad una parte riportati nella relazione del consulente non possa essere considerata come confessione stragiudiziale [61].
Particolare, invece, è la soluzione raggiunta dalla giurisprudenza amministrativa in merito al rapporto intercorrente tra l’assolvimento dell’onere della prova e l’uso dei poteri officiosi del giudice. Infatti, si è più volte osservato che nel processo amministrativo non è necessario che la parte produca in giudizio il materiale probatorio salvo che non sia nella sua completa disponibilità, ma se questo è nella disponibilità della amministrazione la parte privata può limitarsi ad indicarlo e può chiedere al giudice l’acquisizione [62]. Da queste notazioni si desume come il principio dell’onere della prova venga applicato solo come estrema ratio e solo qualora la prova non sia raggiungibile tramite l’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice [63].
Del pari discutibile è l’altra conclusione cui giunge qualche commentatore all’unisono con parte della giurisprudenza, per cui simili informazioni debbono essere necessariamente riferite a fatti meramente accessori [64], rientranti nell’ambito strettamente tecnico, non potendo concernere i «fatti posti o le situazioni sostenute che, in quanto posti a fondamento delle domande e delle eccezioni, debbono essere provate dalle parti»; opinando diversamente si ammetterebbe una forma di prova testimoniale o di interrogatorio da parte di un organo del processo diverso da quello previsto dalla legge processuale senza le apposite garanzie [65].
Il problema andrebbe impostato in maniera diversa, distinguendo opposte esigenze: se da un lato, ammettendo la consulenza «percipiente», si rischia di violare i limiti di ammissibilità soggettivi e oggettivi delle prove di cui la consulenza terrebbe il luogo, dall’altro si rischia di ammettere una prova su fatti mai allegati dalle stesse parti oppure si può giungere ad una prova di un fatto senza dare il giusto spazio alla controprova, ledendo il principio del contraddittorio, od infine si rischia di sollevare le parti dall’assolvimento dell’onere della prova.
Per quanto concerne l’onere della prova bisogna riferirsi a quanto sopra affermato in merito, mentre per la presunta violazione del principio dispositivo si deve rimandare a quanto si dirà in seguito. Rimane da affrontare la violazione dei limiti di ammissibilità delle prove che la consulenza andrebbe a sostituire; simile problematica, di recentemente riaffermata [66], va analizzata a fondo dovendosi intendere la ragione per la quale il legislatore nel corso degli anni ha elaborato i criteri di ammissibilità delle prove. Bisogna, preliminarmente, distinguere tra prove precostituite e costituende, poiché mentre per le prime si porrà un problema di ammissibilità, per le seconde si pone il diverso problema della ritualità della produzione. Comunque, in entrambi i casi il problema di fondo rimane immutato ed è quello se le parti possano usare il veicolo della consulenza per derogare ai limiti di ammissibilità e di ritualità delle prove. In realtà, il problema sollevato da queste questioni concerne il più ampio dibattito sulla introduzione delle prove atipiche e sulla immensa rilevanza che queste stanno assumendo nel nostro processo grazie anche al grimaldello del principio del libero convincimento del giudice [67]. Pertanto, il problema della violazione di simili limiti di ammissibilità e ritualità delle prove potrebbe essere risolto rivalutando lo strumento dell’autorizzazione ex art. 194 c.p.c., con la quale il giudice potrebbe da un lato ammonire sanzionare di «inesistenza» le produzioni documentali fuori termine [68], e dall’altro potrebbe imporre al consulente il rispetto delle regole di ammissibilità delle testimonianze e successivamente esercitare il potere, sempre ufficioso (ma che attiva il diritto al contraddittorio), di disporre la deposizione di persone indicate nella relazione del consulente [69].
Del pari, però, una volta ammesso simile mezzo in siffatti termini non vi sono ostacoli a vedervi una prova rappresentativa, che avrà i caratteri dell’ispezione nel caso la situazione da accertare sia ancora persistente, oppure quelli dell’esperimento se la situazione sia già passata, ma debba essere ricostruita [70].
La giurisprudenza e la dottrina si sono soffermate anche sulla possibilità che nello svolgimento delle sue attività il consulente acquisisca dei documenti, dalle parti o da terzi, che non siano stati prodotti in giudizio. Occorre distinguere due ipotesi che vengono soventemente confuse: il documento proveniente dai terzi e il documento proveniente dalle parti. Mentre il primo caso (il documento proveniente dai terzi) deve essere assimilato all’assunzione d’informazioni da parte dei terzi, e per effetto del dettato della norma cui all’art. 194 c.p.c., simile attività è sottoposta all’autorizzazione del giudice, nella seconda ipotesi (documento proveniente dalle parti), invece, si può ulteriormente distinguere il caso in cui i documenti incartino le osservazioni delle parti che presiedono allo svolgimento della consulenza, oppure si riferiscano ai fatti oggetto dell’attività del consulente, dalla diversa eventualità in cui le produzioni documentali non riguardino direttamente l’opera del consulente, ma siano ad essa, in qualche maniera, collegabili. Quindi, se per i documenti aventi ad oggetto osservazioni ed istanze relative all’attività del consulente non vi sarebbero problemi di sorta, atteso che essi tenderebbero ad attuare il principio del contraddittorio, i problemi si ripropongono in merito alla documentazione aliunde prodotta dalle parti innanzi al consulente e non appartenente agli atti della causa.
In giurisprudenza come in dottrina si fronteggiano due opposte tendenze. La prima prende le mosse dal dettato del secondo comma dell’art. 90 disp. att. c.p.c., il quale statuisce espressamente che non sono producibili al consulente tecnico altri documenti all’infuori di quelli previsti dall’art. 194 c.p.c. e cioè le memorie contenenti osservazioni ed istanze. L’altro orientamento, sostenuto da autorevolissima dottrina e dalla più recente giurisprudenza, tende a restringere la portata della lettera dell’art. 94 disp. att. c.p.c. sostenendo che la ratio sottesa alla norma in parola è quella di evitare delle violazioni del principio del contraddittorio [71]. Se questa è la finalità, si è sostenuto che la norma non pone alcun divieto, ma impone solo alla parte, che voglia produrre simile documentazione, l’obbligo di comunicarla all’altra parte a pena d nullità (relativa) della stessa consulenza [72]. Questa considerazione rende necessaria una piccola chiarificazione; infatti, richiamando quanto sopra detto in merito al principio dispositivo in senso stretto e in senso lato, appare chiaro che la c.t.u. è un mezzo di prova d’ufficio e, quindi, deroga al principio dispositivo in tema di prova, ma ciò non può portarci ad affermare che la consulenza possa essere veicolo per introdurre altri fatti primari di cui le parti non hanno fatto menzione [73]; pertanto, se simili documenti possono sì portare alla prova non solo di fatti secondari (come vorrebbe una certa giurisprudenza) [74] ma anche di fatti primari, essi non possono introdurre dei fatti primari autonomi distinti da quelli oggetto della causa.
Di conseguenza, appare evidente come le varie soluzioni in merito devono tener conto delle opposte esigenze, ossia da un lato quella di evitare che siano introdotti nel processo fatti che non erano stati richiamati dalle parti e, quindi, non vi appartenevano, e dall’altro quella di evitare un’applicazione secca del principio dell’onere della prova, soprattutto per quei fatti che sono dimostrabili solo tramite l’ausilio di cognizioni tecniche, evitando però che la CTU diventi solo l’occasione per violare le norme sulla acquisizione delle prove. Comunque, non è da sottacere come, una volta introdotti nel processo e provati dei fatti che le parti non avevano contemplato, sarà difficile poi per il giudice non tenerne conto in sede di decisione, dato che appaiono del tutto vani i c.d. processi di esclusione mentale, essendo nota l’efficacia pervasiva della prova sia pur successivamente ritenuta inammissibile. Pertanto, l’unica soluzione al dilemma sopra posto è quella per cui il giudice, nel momento dell’affidamento della consulenza tecnica, deve tracciare in maniera sicura ed in relazione ai fatti allegati dalle parti i compiti del c.t.u., in modo che possa non ammettere quelle parti del suo operato che abbiano violato simili limiti, evitando una inutile e pericolosa precognizione [75].
Va richiamato a completezza del argomento de quo che nel febbraio dello scorso anno è entrato in vigore il regolamento per l’attuazione del processo telematico (D.M., 13 febbraio 2001, n. 123, Regolamento recante disciplina sull’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti) che agli artt. 13, 14 e 15 ha introdotto una evidente novità anche in tema di consulenza tecnica [76]. Anche se non è possibile una trattazione ex professo dell’argomento, che pur la meriterebbe, di grande rilevanza appare l’art. 13 terzo comma, ove stabilisce che «gli atti probatori prodotti sono inseriti in apposite sezioni del fascicolo informatico contenenti ciascuna l’indicazione del giudizio e della parte cui si riferiscono» che se collegato al successivo art. 15, laddove stabilisce che la relazione di cui all’art. 195 c.p.c. può essere depositata come documento informatico sottoscritto con firma digitale nel medesimo fascicolo, fa presumere che vi sarà anche una sezione dello stesso dedicata alle prove d’ufficio (tra cui la consulenza tecnica) e per la quale vi sarà la presenza dei quesiti formulati dal giudice al perito. In particolare, questo continuo controllo di corrispondenza che lo stesso consulente potrà effettuare tra i quesiti formulatigli ed il proprio operato potranno determinarlo ad un maggiore rigore nella formulazione della propria perizia; inoltre, il giudice sarà facilitato, data la divisione in sezioni della parte del fascicolo riguardante le prove, nella individuazione di quelle deviazioni che il perito potrà aver commesso nell’esecuzione del proprio incarico, anche al fine dell’esercizio dei suoi poteri latamente sanzionatori di rinnovazione, sostituzione o di integrazione della consulenza. Comunque, tale innovazione non potrà certo portarci a facili conclusioni che tendano a meccanizzare la valutazione del risultato della consulenza, ossia a soluzioni che tendano ad escludere il potere valutativo del giudice, altrimenti si rischierebbe di ricadere nel velleitario quanto inutile ideale illuministico che vedeva il giudice quale bocca della legge o vox iuris.

5. La disponibilità da parte del giudice della consulenza

In giurisprudenza, ma anche in dottrina, suole affermarsi che la nomina del c.t.u. (un discorso a parte, invece, merita il consulente di parte, dato che la sua nomina può anche avvenire al di fuori di espresso provvedimento del giudice di investitura di quello d’ufficio, ma la cui sussistenza rileva soprattutto in punto di efficacia della relativa relazione)[77] è una attività discrezionale del giudice e, quindi, rimessa al suo libero apprezzamento [78], salvo i casi di nomina obbligatoria (la cui unica ipotesi è rintracciabile nelle cause relativi a sinistri marittimi, mentre è caduta la nomina obbligatoria per le cause previdenziali [79])
Ulteriore indirizzo, sempre collocantesi nel filone di pensiero che disconosce alla c.t.u. natura di prova, ha ritenuto che simile caratteristica dell’istituto legittimerebbe una nomina del consulente alla stessa udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c., anche per il carattere non tassativo delle attività risultante dalla norma succitata, giustificando, così, una soluzione che appare discutibile per molti versi [80]. In particolare, pur non ammettendo che la c.t.u. sia un mezzo di prova, ma determini, comunque, l’accertamento ex se dei fatti allegati dalle parti, ammettendo simile strumento già nella prima udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c., sembra che si voglia sostenere la pratica, contraria al principio del contraddittorio, delle decisioni c.d. della «terza via» [81]; come ha notato la dottrina unanime, simile disfunzione sarebbe da escludere anche alla luce del dettato del comma 3 dell’art. 183 c.p.c. e del terzo comma dell’art. 184 c.p.c. [82]; Proprio quest’ultima norma consente alle parti di richiedere l’ammissione o di far acquisire mezzi di prova che si rendano necessari in relazioni a quelli disposti d’ufficio [83]. Pertanto, non solo le parti potranno proporre deduzioni circa la rilevanza e l’ammissibilità delle prove d’ufficio, ma potranno chiedere l’ammissione di controprove, dirette od indirette, tendenti a negare l’esistenza o la veridicità dei fatti cui le prime si rivolgono [84].
Tuttavia, questa impostazione va necessariamente coordinata con una recente pronuncia del Supremo Collegio [85], la quale ha ritenuto in generale che la sequenza delle udienze del 180, 183 c.p.c. ha «natura tendenzialmente inderogabile» e, quindi, il giudice, al di là di una effettiva richiesta delle parti (come in realtà credevano le corti di merito) [86] o dalla contumacia del convenuto, deve necessariamente concedere (in ogni caso) il termine per la proposizione delle eccezioni in senso stretto previsto dal secondo comma dell’art. 180 c.p.c. Il Supremo giudice, però, ha soggiunto che le parti possono accordarsi per anticipare fasi successive, poiché hanno una «limitata disponibilità del processo». Ora, seguendo il ragionamento della Corte, sembra legittimarsi la pratica anticipativa della consulenza sin dall’udienza di comparizione; tuttavia non sembra che il giudice in tale udienza possa legittimamente disporre la consulenza tecnica, poiché dovrebbe prima aspettare che su concorde volontà delle parti si anticipi la fase istruttoria.
In realtà, però, difficilmente il giudice potrebbe disporre la consulenza ed al tempo stesso assegnare il termine ex art 180 c.p.c., senza rischiare di porre in essere una attività del tutto inutile [87].

6. La valutazione della attività del consulente: la sostituzione e la rinnovazione

In relazione all’istituto in esame almeno altri due profili hanno suscitato il vivo interesse della dottrina e della giurisprudenza: la valutazione dell’attività del c.t.u. e la nomina del consulente tecnico di parte.
Partendo dal primo profilo bisogna sottolineare come la valutazione del giudice sull’attività del consulente darà luogo ad almeno tre alternative: la sostituzione, la rinnovazione delle indagini, l’accoglimento o il rifiuto da parte del giudice dei risultati raggiunti. Tuttavia, la dottrina tradizionale tiene nettamente distinti i profili della sostituzione e della rinnovazione della consulenza dai diversi casi dell’adesione o della mancata adesione ai risultati a cui è giunto il consulente, anche per il fatto che, mentre la sostituzione e la rinnovazione sono state regolate in maniera espressa dal legislatore, le altre due ipotesi rientrano nel processo di motivazione e nelle modalità di redazione della sentenza o del provvedimento del giudice [88].
In realtà, però, la scelta della trattazione congiunta delle ipotesi de quibus appare giustificata, poiché anche la sostituzione e la rinnovazione della consulenza presuppongono una sorta di giudizio negativo o, comunque, di insufficienza dell’attività espletata [89]. La rinnovazione si caratterizza e si distingue dalla sostituzione, perché da un lato è disposta a seguito della conclusione della stessa, mentre la sostituzione di solito si verifica nella stessa fase di esecuzione della consulenza, ed in secondo luogo perché per l’esercizio del potere di sostituzione devono ricorrere «gravi motivi» di cui il giudice è tenuto a dare conto nella motivazione dell’ordinanza di sostituzione [90]. La funzione dei due istituti risulta diversa: infatti, se da un lato la rinnovazione è disposta quando la consulenza abbia raggiunto risultati non adeguati allo scopo, oppure quando questa sia affetta da qualche forma di nullità, la sostituzione, invece, ha una funzione prettamente sanzionatoria di inadempienze dello stesso consulente [91]. Inoltre, secondo la giurisprudenza prevalente, la relativa decisione, rientrando nei poteri discrezionali del giudice che l’ha disposta, non sarebbe censurabile in sede di legittimità [92], pertanto il giudice potrebbe decidere di non procedere ad una vera e propria rinnovazione, ma ad una ben minore integrazione, oppure a delle precisazioni della stessa [93].
Gli istituti della sostituzione, della rinnovazione e della integrazione della consulenza, non avevano ragione di esistere per le verificazioni tecniche che spesso il giudice amministrativo domandava alla stessa amministrazione parte in causa, salvo un affidamento ad altra amministrazione [94]. Tuttavia, se le verificazioni comportavano dei problemi di terzietà dell’organo tecnico preposto all’acclaramento [95], da quando la consulenza, già per le materie del pubblico impiego e per le materie di giurisdizione esclusiva, ha fatto ingresso nel processo amministrativo, si sono posti dei problemi per i provvedimenti di revoca e rinnovazione della medesima.

6.1. La rinnovazione della consulenza in appello

Un problema non di poco momento concerne la rinnovazione della consulenza in appello [96]. In particolare, al di là delle pronunce possibiliste della giurisprudenza [97] e della dottrina, è necessario verificare fino a che punto sia possibile ammettere l’applicazione dell’istituto de quo alla luce del nuovo art. 345 c.p.c. e del divieto dei nova in appello [98]. In particolare, per la soluzione di questo interrogativo occorrerebbe partire dal concetto di prova nuova per verificare quando sia possibile disporre la consulenza in appello, tuttavia dapprima analizzeremo i vari orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in merito alla rinnovazione delle prove, ed anche della consulenza, in appello [99].
In generale, il potere di rinnovazione di tutte le prove nella fase d’appello di solito è dettata da due esigenze, sottolineate da attenta dottrina, che sono da un lato quella di rimediare a nullità ed irregolarità che si sono verificate in sede di assunzione del mezzo di prova e dall’altro quella di precisare le risultanze scaturite dall’assunzione, facendo rivivere le impressioni che un contatto con la prova può ingenerare [100]. Tuttavia, risulta arduo comprendere, dato che della funzione di recupero della immediatezza e della oralità nel fase di gravame per effetto della rinnovazione sono in molti a dubitare [101], quel particolare indirizzo giurisprudenziale che permette non solo al giudice d’appello di rinnovare la consulenza tecnica in appello, al di là di un vizio di quella in primo grado, ma, addirittura, una volta assunti i rispettivi risultati aderire alla consulenza disposta in prime cure [102]. Invero, nell’ipotesi prospettata non si riesce a comprendere, al di fuori dell’incertezza del giudice sull’adesione immediata ai risultati della prima consulenza, la necessità di una rinnovazione dell’attività gia svolta- che, successivamente, risulterà del tutto inservibile e per giunta contraria ad un principio di celerità a cui sembra essere stato improntato il giudizio di gravame [103] – per una semplice conferma delle risultanze probatorie della prima fase. In realtà, anche se nella materia de qua è facile cadere in giudizi di mera opportunità, va però rilevato che, essendo la consulenza un mezzo di prova molto dispendioso, il giudice non dovrebbe disporlo quando ciò sia non indispensabile, poiché la rinnovazione deve essere considerata a differenza della giurisprudenza e della tradizione del nostro codice del tutto eccezionale. Infatti, se la rinnovazione presuppone, comunque, un giudizio o di incompletezza o di inaffidabilità della istruttoria di primo grado, come si potrà successivamente, ritenere la prima prova, che invece era stata considerat dapprima insufficiente, più completa della seconda e, dunque, in grado di fondare la decisione del giudice dell’appello? Pertanto, l’unica soluzione plausibile a questo indirizzo potrebbe essere quella per cui si potrà procedere alla rinnovazione solo «quando sia sollevata plausibile controversia sulle risultanze desunte da quella prova del giudice di primo grado» [104] e quando solo a seguito della rinnovazione questi dubbi siano colmabili. In altri termini, il giudice dovrà effettuare un giudizio di indispensabilità della rinnovazione se non vorrà ledere il principio di economia processuale.

6.2 La rinnovazione della consulenza tecnica nel sistema delle prove non nuove in appello

In particolare, parte della dottrina ha ritenuto che la norma contenuta nell’ultimo comma dell’art. 345 c.p.c. non solo determini un limite per l’ammissione delle prove nuove, ma costituisca di per sé un ostacolo invalicabile per le prove non nuove in appello. Il divieto deriverebbe dal fatto che la norma di cui all’art. 345 c.p.c.,, sarebbe espressione del principio di unitarietà della prova e dell’istruzione probatoria, per cui le prove in appello, oltre ad essere indispensabili, dovrebbero essere anche necessariamente nuove [105]. Tuttavia, per l’analisi che qui si va svolgendo e, in particolare, per un mezzo di prova d’ufficio come la consulenza, il principio di unitarietà può avere una limitatissima applicazione; di fatti, potendo essere considerate prove «non nuove» anche quelle ammesse in primo grado, ma poi non esperite e così quelle che dapprima ritenute ammissibili in primo grado siano successivamente non ammessa perché irrilevanti superflue od addirittura inammissibili [106], e potendo verificarsi ciò anche per la consulenza (pensiamo ad esempio al caso in cui il giudice ammessa in un primo momento la consulenza perché ritenuta rilevante, successivamente non la esperisca, risultando l’accertamento demandato al consulente tecnico già contenuto in un documento della pubblica amministrazione), è necessario chiedersi se la richiesta istruttoria in appello sia preclusa alla parte. Sebbene la consulenza sia un mezzo di prova ufficioso che non abbisogna di un’apposita richiesta di parte, dovendo anche il giudice rispettare le preclusioni maturate per le parti e non potendo l’uso dei poteri ufficiosi rimettere in termini le parti al di fuori della ipotesi di cui al 184 bis c.p.c., è necessario intendersi sul significato che per il giudice può assumere il principio in esame. Per di più, va chiarito che il principio in esame, nel modo in cui è stato usato, o meglio è stato criticato [107], è servito alla dottrina per giustificare uno scavalcamento delle preclusioni istruttorie maturate nel processo di primo grado. Simile esigenza (id est: quella di superare le preclusioni istruttorie maturate nel processo di primo grado) è stata soddisfatta in due modi dalla dottrina. Alcuni autori hanno ritenuto, in ossequio alla tradizione, di conservare il principio dell’unitarietà della prova e dell’istruzione probatoria in sé, superando il limite alla riproposizione delle istanze istruttorie formulate o meno nel giudizio di primo grado ma precluse o per effetto del meccanismo di cui all’art. 184 c.p.c. o per quelli di cui agli artt. 208 c.p.c.104 disp. att. c.p.c.. In particolare, si è ritenuto che il principio in parola costituisca un principio di civiltà giuridica che «permetterebbe di preservare l’istruttoria espletata dagli infidi attacchi di prove costituite ad hoc, per confutarla e smontarla brano a brano» [108], e, pertanto, non essendo incompatibile il requisito della novità con la remissione in termini, le eventuali decadenze verificatesi nel corso del processo di primo grado dovrebbero essere superate o tramite norme apposite (id est: il secondo comma del 208 c.p.c.) oppure tramite il rimedio generale dell’art 184 bis c.p.c. [109] In altre parole, questa dottrina, rivitalizzando le opinioni di illustri commentatori, ha sostenuto che il principio di contestualità o di unità, generalizzato dall’art. 184 c.p.c., andrebbe coordinato con il principio dei nova in appello di cui al 345 c.p.c.; per questa ragione, il terzo comma dell’art. 345 c.p.c. riguarderebbe essenzialmente solo le prove diverse sui medesimi fatti di cui in prime cure e, conseguentemente, le parti, se da un lato avranno la possibilità nei limiti di cui al terzo comma dell’art 345 c.p.c. di dedurre nuove prove sui fatti principali già dedotti in primo grado, d’altro canto potranno chiedere l’ammissione di quelle prove che per un motivo od un altro non sono state assunte [110].
Diversamente altra dottrina ha dato una interpretazione restrittiva dell’art. 345 c.p.c. e con esso del principio di unità o di contestualità; infatti, ha sostenuto che, essendo prevista dall’art. 356 c.p.c. la facoltà per il giudice di rinnovare l’assunzione delle prove e dato il fatto che queste non vengono essenzialmente qualificate come nuove, la portata dell’art 345 c.p.c. verrebbe ad essere ridotta ai soli criteri di ammissibilità delle prove nuove. Pertanto, il giudice dovrebbe disporre di tutte le prove non ammesse o di cui non sia stata possibile l’ammissione per varie cause [111].
In fine, riportando questa impostazione nell’ambito della consulenza ed al problema pratico sopra individuato, ed ammettendo che la istanza per la richiesta della consulenza soffra le stesse limitazione che sono imposte alle istanze istruttorie di parte, si potrebbe sostenere che se si aderisse alla prima impostazione la richiesta di rinnovazione sarebbe preclusa salvo la possibilità di una remissione in termini; se, invece, si seguisse l’altra opinione, in qualsiasi momento il giudice potrebbe rinnovare o disporre la prova pur prescindendo dalla sua novità

6.3. L’applicabilità dei limiti di cui al terzo comma dell’art. 345 c.p.c. alla consulenza tecnica e la prova nuova

Parte della dottrina ed anche la giurisprudenza ritengono questo un falso problema poiché, ritenendo che la consulenza non sia una prova, ma solo un mezzo istruttorio in grado di fornire al giudice degli elementi di valutazione tecnica dei fatti già acquisiti e asseverati al processo, non credono che sia applicabile l’art. 345 secondo comma c.p.c.; infatti, starebbe sempre alla discrezionalità del giudice decidere o meno di disporla, anche per la prima volta in appello. Più in generale, soprattutto la giurisprudenza, ma anche la giurisprudenza teorica, ha generalizzato consimili affermazioni ritenendo non solo che la consulenza tecnica, per la sua particolare natura, sia da escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 345 c.p.c., ma anche che si dovrebbe escludere l’applicazione della norma in esame a tutte le prove disponibili d’ufficio [112].
Tuttavia, questo orientamento avrebbe bisogno di un approfondimento e di una rivisitazione critica. In particolare, sembra spesso confondersi nella materia de qua due profili che, sebbene intimamente connessi, devono essere analizzati distintamente; nello specifico si dovrebbe distinguere il profilo della introduzione in sede di gravame della prova, da quello diverso dei fatti principali e secondari che la prova dovrebbe andare ad asseverare [113]. Infatti, la questione posta nei termini di cui sopra coinvolgerebbe non solo il corretto inquadramento dell’ultimo comma dell’art. 345 c.p.c., ma anche l’esatto coordinamento della questione in esame con la portata del primo e del secondo capoverso dello stesso articolo. Di fatti, è del tutto distinta l’indagine sull’ambito di estensione delle prove nuove in appello dalla diversa analisi della ammissibilità dell’introduzione di nuovi fatti (primari o secondari) tendenti a fondare eccezioni nuove o domande nuove. Per di più, va chiarito che non si può parlare di prova nuova laddove fossimo di fronte a prove già richieste in primo grado, pertanto questa categoria semantica verrebbe in considerazione soltanto in due casi: o nel caso in cui si chieda l’ammissione di prove diverse da quelle richieste in prime cure per l’accertamento di fatti già introdotti in primo grado, oppure quando si voglia ripetere la prova già ammessa in primo grado ma per l’asseveramento di un fatto diverso [114].
Ora, se si cercasse di calare questi concetti sul tema del potere probatorio ufficioso in appello si verrebbero a stagliare una serie di interrogativi che spesso rendono incomprensibile il sistema. In primis, non appare chiaro perché in grado d’appello, nonostante l’ampia dicitura dell’ultimo comma dell’art. 345 c.p.c. questa norma non sia applicabile alle prove disposte ex officio, mentre le parti soffrirebbero tali limitazioni. Secundum, del pari difficilmente decifrabile appare la compatibilità della affermazione cui sopra con la ricorrente asserzione, in particolare, della dottrina, ma anche, della giurisprudenza, per cui una ampia ammissione dei poteri ufficiosi lederebbe il principio di imparzialità del giudice [115]. Tertium, non si capisce perché spesso parte della dottrina per alcuni poteri ufficiosi del giudice, in particolare per la possibilità della prova testimoniale di cui all’art. 281 ter, giunge a conclusioni diametralmente opposte a quelle raggiunte per il resto delle prove ufficiose. In fine, va precisato come sia possibile conciliare le pronunce limitative dei poteri istruttori ufficiosi della giurisprudenza e la tendenza a vedere la prova ufficiosa come estrema ratio, con il principio, sopra richiamato, per cui il giudice non soffrirebbe limiti all’ammissione di mezzi di prova nella fase di gravame [116]. Ovviamente, questo esercizio deve necessariamente passare per l’elaborazione che il concetto di eccezione rilevabile d’ufficio contemplato dall’art. 345 c.p.c. e quello di indispensabilità hanno subito da parte della dottrina.
Comunque, l’approfondimento delle problematiche sopra richiamate deve, necessariamente, partire dal concetto di prova nuova, seguendo due strade distinte per le due ipotesi di prova nuova sopra richiamate. Difatti, mentre la prima ipotesi di prova nuova - in una concezione di lessoniana memoria [117], ossia quella per cui il fatto da provare sia diverso da quelli già introdotti in primo grado - concernendo essenzialmente l’introduzione di fatti nuovi nella fase di gravame, atterrebbe ai primi due commi dell’art. 345 c.p.c. (per cui la ricaduta a livello probatorio sarebbe soltanto indiretta e consequenziale), la seconda ipotesi, invece, (quella per cui il fatto da provare sia identico a quello introdotto in prima istanza, ma diverga solo il mezzo di prova) riguarderebbe essenzialmente la prova e l’ambito di applicazione dei criteri indicati nell’ultimo comma dell’art. 345 c.p.c. In realtà, i due concetti sembrano evocare delle problematiche del tutto distinte e, pertanto, una loro completa omologazione ed accostamento, così come sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ha la veste dell’artifizio logico. In altre parole, per i fatti nuovi allegati per la prima volta nella fase di impugnazione e, per di più, introdotti tramite la prova ammessa d’ufficio, vi dovrebbe essere un doppio vaglio costituito non solo dalla verifica della corrispondenza ai canoni di cui al terzo comma dell’art. 345 c.p.c., ma anche dal previo controllo sulla compatibilità dell’introduzione dei fatti nuovi con i primi due commi del medesimo articolo. In altre parole, a modestissimo avviso di chi scrive, si potrebbe ritenere che il concetto di «prova nuova» andrebbe limitato rispetto alla concezione tradizionale, restringendolo al caso della sola prova diversa sullo stesso oggetto del giudizio di primo grado; infatti, nella diversa ipotesi in cui la prova si caratterizzasse per la novità dei fatti, il problema maggiore da risolvere sarebbe costituito dall’ammissibilità di fatti nuovi in sede di gravame.
Pertanto, partendo dalla prima ipotesi riprendono vigore gli interrogativi sopra esposti sulla applicazione della norma di cui all’art. 345 c.p.c. A nostro sommesso avviso, infatti, il giudice non potrebbe introdurre tramite l’esercizio del potere ufficioso dei fatti nuovi che le parti non avevano già allegato in primo grado. Con minore approssimazione, siccome l’art. 345 c.p.c. sembra essere diretto non soltanto nei confronti delle parti, ma anche dello stesso giudice, questi potrebbe introdurre nuovi fatti solo nei limiti in cui ciò sia consentito alle stesse parti in questa fase di gravame. Pur essendo consapevoli che questa impostazione potrebbe sembrare eccessivamente rigida e potrebbe ostacolare il giudice nella ricerca della verità, risultando,per giunta, contraria agli orientamenti giurisprudenziali dominanti in merito, tuttavia possiamo sostenere che, ragionando “a contrario”, si rischierebbe di ledere non solo il principio di imparzialità del giudice, ma anche quello del contraddittorio, ledendo anche la struttura dell’appello rischiando di trasformarlo in un novum iudicium. Infatti, se il giudice, ammettendo ad esempio la consulenza tecnica, affidasse al consulente il compito di accertare dei fatti che non sono stati introdotti dalle parti né in primo grado né in fase di gravame, le parti non avrebbero la possibilità di contraddire in merito (se non tramite la consulenza di parte), e il giudice dovrebbe, per di più, permettere alle parti di introdurre a loro volta, proprio per il rispetto del principio sopra menzionato, altri fatti principali che andrebbero a fondare domande od eccezioni la cui necessità sia derivata dalla prova ufficiosa; in tal caso si rischierebbe di travisare la natura che l’appello doveva assumere tramite la riforma dell’art. 345 c.p.c., ossia di semplice revisio, per farlo diventare un vero e proprio novum iudicium dove il secondo giudice possa essere reinvestito di tutta la questione e senza limiti di sorta. Pertanto il giudice, nell’ammettere le prove d’ufficio, dovrebbe soffrire le stesse limitazioni delle parti e, più in particolare, qualora la prova introduca dei fatti nuovi essa sarà ammissibile solo laddove questi siano introducibili in appello, ossia nei limiti tracciati dalla dottrina sul primo e sul secondo comma dell’art. 345 c.p.c. [118] Di fatti, nell’ipotesi sopra ricordata sarebbe leso anche il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato nel senso che il giudice, quand’anche provocasse successivamente il contraddittorio sulla questione, avrebbe sicuramente determinato la lesione del principio dispositivo in senso sostanziale poiché avrebbe introdotto nel giudizio dei fatti di cui solo lui aveva rintracciato la decisività (iudex iusta alligata iudicare debet).
Qualora, invece, fossimo di fronte ad una prova disposta dal giudice diversa da quelle assunte in primo grado, ma che tenda ad asseverare un fatto già acquisito alla fase dell’appello per l’effetto devolutivo dello stesso, allora in tale evenienza uno sbarramento al potere ufficioso deve comunque essere eretto. La dottrina più attenta alla problematica de qua ha sostanzialmente cercato di interpretare in tal senso il requisito della indispensabilità [119] . E’ stato sostenuto che questo criterio sarebbe un criterio di ammissibilità limitato alle sole prove nuove disposte d’ufficio e non riguarderebbe le prove disponibili dalle parti [120]. A simile conclusione si sarebbe giunti tramite il parallelismo con la medesima disposizione dell’art. 437 c.p.c. e mediante la ricostruzione unitaria del concetto di indispensabilità tramite l’analisi congiunta delle norme di cui agli artt. 118 e 210 c.pc. Però, questa ricostruzione è stata sottoposta ad un serio vaglio critico da parte di recente dottrina, che, pur enucleando un preciso criterio di indispensabilità diverso da quello di rilevanza [121], ha omesso di applicare il medesimo criterio per l’ammissione di tutte le prove d’ufficio e nello specifico anche per la prova testimoniale di cui all’art. 231 ter, la quale entra anche essa nella congerie dei poteri ufficiosi del giudice.
Qualunque, sia il concetto che si voglia assumere di indispensabilità [122] e pur nella coscienza che esso assume significati diversi tra il processo ordinario, e quello del lavoro e pur escludendo che esso possa costituire un semplice ammonimento od «invito al giudice d’appello ad essere.….parco nell’ammissione delle nuove prove» [123] , esso costituisce un vero e proprio limite interno all’ammissione di prove nuove d’ufficio [124] nell’accezione di cui sopra, mentre l’altro criterio (quello della causa non imputabile), se pur non diretto espressamente al potere istruttorio d’ufficio, ne costituisce un evidentissimo limite esterno, per cui con il potere conferito al giudice, ossia quello di disporre anche in appello quelle prove che si ritengono rilevanti, non si può derogare a quei limiti incidenti sulle richieste istruttorie derivanti dalla struttura dell’appello e dalle preclusioni maturate nel primo grado [125].
Pertanto, giungendo a conclusione possiamo affermare che, essendo la consulenza tecnica una prova disponibile d’ufficio, il suo esperimento per la prima volta in fase di gravame subirebbe due ordini di limitazioni diverse a seconda che introduca ex se fatti nuovi non richiamati dalle parti, oppure si limiti a provare in maniera alternativa fatti gia presenti. Nella prima ipotesi, sarebbe ammissibile solo nel limite in cui i fatti possano entrare per la prima volta in sede di gravame; nel secondo caso essa sarebbe ammissibile purché essa sia indispensabile e non vada a sollevare le parti dalle preclusioni maturate.

6.4 La consulenza tecnica nell’appello lavoro. Un caso di difficile decodificazione: l’art. 441 c.p.c.

Un discorso parzialmente diverso merita la consulenza nell’appello per le cause trattate con il rito del lavoro. Da ultimo attenta dottrina ha avuto modo di rimeditare la portata dell’art. 441 c.p.c. , in particolare, il rapporto che intercorrerebbe con il secondo comma dell’art. 437 c.p.c. Già in precedenza alcuni commentatori avevano sostenuto che la consulenza tecnica in appello era disponibile per la prima volta solo se il ricorso a tale strumento era ritenuto indispensabile [126]. In tal modo, si cercava una sorta di parallelismo tra il secondo comma dell’art 437 e il terzo comma dell’art. 345 c.p.c., per cui la consulenza disposta per la prima volta in appello sarebbe stata assoggettata nel rito ordinario ai limiti di cui al terzo comma dell’art. 345 c.p.c., e nel rito lavoristico ai medesimi limiti sanciti dall’art. 437 c.p.c. Ciò nonostante, recente dottrina ha ritenuto che, in realtà, la consulenza disposta per la prima volta in appello sarebbe svincolata dal requisito della indispensabilità, poiché la lettera dell’art. 441 c.pc. non ricalcherebbe quella del vecchio art. 453 c.p.c., non prevedendo alcun limite all’esercizio del potere di disporre la consulenza tecnica [127]. Da questa premessa, la dottrina in parola ha fatto derivare una soluzione sistematica sulla stessa natura della consulenza; infatti, se l’art. 441 c.p.c. non pone limiti al potere del giudice di disporre la consulenza tecnica in appello allora essa non può essere parificata agli stessi mezzi di prova esperibili ex officio.
A questa soluzione non si può certamente aderire poiché non appare sufficiente desumere l’assenza di limiti alla nomina del consulente per la prima volta in appello da parte del giudice del lavoro dal semplice dato storico costituito dalla formulazione letterale dell’art. 453 c.p.c., e, ancor più, non è accettabile la soluzione adottata in ordine alla natura della consulenza. Infatti, già ampiamente abbiamo discorso sulla riconducibilità del mezzo in parola tra i mezzi di prova disponibili d’ufficio, tuttavia va precisato che se poniamo a confronto l’art. 441 c.p.c. e l’art. 356 c.p.c., tra le due norme possiamo individuare una relazione di genere a specie, poiché se nell’art. 356 c.p.c. si fa riferimento “all’assunzione della prova” distinta dalla rinnovazione della stessa e con tale riferimento si è voluto indicare l’assunzione delle prove nuove, i cui limiti di ammissibilità sono rintracciabili nel terzo comma dell’art. 345 c.p.c., nulla vieta che l’art. 441 c.p.c. faccia rinvio implicito all’art. 437 secondo comma c.p.c. ai fini della individuazione dei limiti di ammissibilità della prova nuova nell’appello del rito del lavoro. In particolare, ragionando diversamente si dovrebbe ritenere che il requisito della indispensabilità sia ulteriormente limitato nella fase di gravame del rito lavoristico, dandone così una interpretazione abrogante [128]. Pertanto, si può concludere che essendo la consulenza una prova nella disponibilità del giudice, dovrebbe seguire gli stessi limiti di ammissibilità a cui sono sottoposti gli altri poteri probatori del giudice in appello; mentre non si vede perché dal confronto con una norma abrogata si debbano desumere o trarre argomentazioni per sostenere una tesi circa la natura della consulenza tecnica.

6.5 La modalità di riproposizione delle istanze istruttorie in appello

Una questione connessa a quella sopra enunciata riguarda le modalità con cui le parti in grado d’appello debbano rinnovare la richiesta della consulenza tecnica negata nel corso del primo grado. Il problema è vedere se sia applicabile alle prove, ed in particolare anche alla consulenza, l’art. 346 c.p.c. [129] Proprio risolvendo questo problema preliminare della natura della consulenza (di cui si è già ampiamente discettato) si potrà rispondere al quesito se la richiesta in appello della consulenza debba essere fatta come motivo specifico o tramite una semplice riproposizione della istanza nel corso della prima udienza, e se la semplice riproposizione delle domande e delle eccezioni a cui le prove erano collegate determini la loro implicita riproposizione senza alcuna attività propositiva [130]. In realtà la Suprema Corte, da ultimo [131], ha affermato che l’art. 346 c.p.c. non può essere riferito alle prove, riguardando il solo thema decidendum e non il thema probandum, ma esse devono essere oggetto di riproposizione, oppure oggetto di uno specifico mezzo di gravame laddove ciò sia necessario. In particolare, La Suprema Corte nell’ipotesi in questione ha giustamente notato come sarebbe irrazionale attribuire al giudice il compito di ricercare ex officio i mezzi proposti dalle parti in primo grado e collegati a quei capi della pronuncia di prima istanza espressamente impugnata. Tuttavia, questa statuizione sembra non essere risolutiva della questione; però ad una più attenta analisi della pronuncia del supremo giudice si evince che, sia pur nel rispetto dell’indirizzo giurisprudenziale più copioso, la corte ha sostanzialmente ritenuto che le istanze istruttorie devono essere oggetto di riproposizione od addirittura di un motivo specifico d’appello [132]. Tutta questa dissertazione non riguarda le prove nuove, o meglio quelle prove che tendano ad asseverare i fatti nuovi introdotti per la prima volta in appello, poiché esse necessariamente seguiranno le modalità di introduzione dei nuovi fatti nella fase di gravame, ossia essi saranno indicati nell’atto introduttivo dell’appello [133].
Di conseguenza, la questione sembra traslarsi, una volta chiarito il modus con cui le istanze istruttorie possono essere riproposte in fase d’appello, al tempus, ossia al dies ad quem per riproporre le deduzioni. In merito si fronteggiano opposte teorie: infatti, se parte della dottrina ritiene che la riproposizione debba avvenire necessariamente negli atti introduttivi [134], altra parte ritiene che l’istanza non sia sottoposta a particolari decadenze e possa essere presentata fino all’udienza di precisazione delle conclusioni [135]; in fine, altri commentatori hanno invece sostenuto che la riproposizione seguirebbe le stesse preclusioni previste in primo grado [136].
Pur volendo aderire alla soluzione che vede l’appello con una struttura “concentratissima”, e quindi esclude l’applicabilità dell’art. 184 c.p.c., non foss’altro per evitare l’eventualità di una fase istruttoria nella fase di gravame, va precisato come le notazioni sul tempus ed il modus della riproposizione delle istanze istruttorie possano avere applicazione per la consulenza tecnica. Per quel che concerne il mezzo istruttorio in esame, va sempre tenuto presente che è un mezzo istruttorio nella piena ed esclusiva disponibilità del giudice e, pertanto, questi può disporla di propria iniziativa anche al di fuori di una richiesta delle parti [137]. Tuttavia, a modesto avviso dello scrivente, sembrerebbe che una rinnovazione della consulenza tecnica oppure la nomina del c.t.u. per la prima volta in appello, senza una esplicita istanza della parte, possano costituire una sorta di remissione in termini occulta tendente a scavalcare il dettato dell’art. 346 c.p.c. Inoltre, in questo modo si permetterebbe al giudice, a cui poi è data la facoltà di formulare i quesiti al perito, di violare in maniera più agevole il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato a cui sembrerebbe essere inverato l’art. 346 c.p.c. e, più in generale la stessa struttura dell’appello riformato. Infatti, se la struttura dell’appello e quella di revisio prioris istantiae, è rimessa alla parte l’individuazione del capo della sentenza da dover censurare e, conseguentemente, quali prove nuove o non nuove siano necessarie per sostenere le proprie censure; diversamente, si attribuirebbe al giudice il potere non solo di disporre del processo, ma con esso anche della situazione sostanziale azionata.

6.6 I risultati della consulenza e la loro valutazione

Per quanto concerne la valutazione dei risultati della consulenza tecnica la giurisprudenza è ormai da anni su posizioni monolitiche nell’affermare che il giudice, essendo il peritum peritorum, può discostarsi in qualsivoglia momento dalle risultanze della consulenza purché, nel discostarsi dalle valutazioni del tecnico, motivi espressamente simile scelta [138]. Qualora invece ritenga di non doversene allontanare può fare un semplice riferimento alla consulenza, dando luogo così ad una motivazione per relationem [139].
Diversa appare, invece, la problematica del consulente che, tracimando il campo del proprio incarico, abbia tratto delle conseguenze giuridiche dagli accertamenti svolti non limitando la propria analisi al campo meramente tecnico e fattuale al quale simile mezzo è destinato, ma invadendo il campo riservato alla cognizione del giudice. In tal caso il giudice non potrà avvalersi dello strumento della motivazione per relationem, ma, qualora voglia aderire alle conclusioni raggiunte dal consulente, dovrà formare una propria ed autonoma motivazione, tenendo conto delle deduzioni che abbiano fatto sul punto le parti [140].

7. Diritto alla prova contraria e la consulenza tecnica di parte

La consulenza tecnica di parte è un istituto rilevante sotto molteplici angoli prospettici. Infatti, essa non rileva solo come esempio e modo di estrinsecazione del principio di difesa e del suo corollario della parità delle armi, ma dovrebbe essere analizzata anche sotto il diverso profilo della rilevanza probatoria. In realtà, però, i due aspetti non sono nettamente separati, bensì si contemperano e si fondono; infatti, proprio dalla rilevanza della consulenza di parte come controprova alla consulenza tecnica d’ufficio si capisce come questa ricada nell’ambito di applicazione dell’art. 184 c.p.c. Simile conclusione, però, non è condivisa da tutti i commentatori ed in particolare dalla giurisprudenza. La Suprema Corte in più occasioni ha chiarito, con un orientamento che è stato fatto proprio anche dalla Corte Costituzionale [141], come il consulente tecnico di parte sia espressione della parte processuale per cui presta la sua opera [142] e, pertanto, il risultato delle sue operazioni non può essere considerato come una acquisizione istruttoria o latamente probatoria, bensì una mera allegazione difensiva a contenuto tecnico della parte [143]. Da simile postulato fondamentale la giurisprudenza trae una serie di corollari necessari. In primis, essendo la c.t.p. una attività non istruttoria, essa non sarebbe sottoposta alle preclusioni di cui al 184 c.p.c., e quindi queste allegazioni tecniche, tendenti a criticare, a confutare oppure a sostenere l’esistenza di fatti impeditivi della ricostruzione operata dal c.t.u. [144] potrebbero essere proposte fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, eliminando così il problema dell’ammissibilità della controprova qualora la relazione del c.t.u. sia depositata ben oltre il limite stabilito dall’art. 184 c.p.c. In secondo luogo, si ritiene che, non essendo la c.t.p. una prova vera e propria, il giudice non abbia un obbligo di motivare espressamente, salvo che la c.t.p. abbia un contenuto preciso, circostanziato e tale da condurre a conclusioni difformi da quelle a cui è giunto il c.t.u. [145] Infine, questo istituto si distinguerebbe nettamente dalla c.d. “perizia stragiudiziale giurata”, la quale, se come la c.t.p. è una mera allegazione tecnica, se ne differenzia da un lato per il diverso onere motivazionale che incombe sul giudice per disattenderla [146] e dall’altro per la possibilità che ha la parte, che se ne voglia avvalere, di far testimoniare il perito su quanto ha accertato direttamente, così come ha ammesso la stessa giurisprudenza [147].
Tuttavia, questa impostazione sembra essere basata sulla sola ipotesi del consulente tecnico “deducente”. Infatti, in questo caso il problema della controprova non si può nemmeno ipotizzare, dacché la consulenza di parte andrebbe a confutare o ad inficiare una attività che istruttoria non è, ma è meramente ausiliaria. Quando, invece, l’attività del consulente d’ufficio non sia stata meramente valutativa, bensì percipiente o ricostruttiva, allora un problema di controprova si pone. La stessa giurisprudenza non sembra essere del tutto sorda alla tutela del principio del contraddittorio. Infatti, non si vede per quale ragione si sarebbe considerata affetta da nullità relativa l’attività del consulente d’ufficio che non abbia comunicato l’inizio delle attività o la ripresa delle attività al consulente di parte [148], se non per il fine di una effettiva tutela del diritto alla difesa e alla prova contraria. Se ciò viene collegato al dovere del giudice di motivare in maniera specifica la scelta che lo ha portato a disattendere le risultanze (verosimili) a cui era giunta la consulenza di parte [149], appare evidente che siamo di fronte ad un vero strumento probatorio nelle mani delle parti e non di mere allegazioni tecniche. Difatti, non si nota quale sia la differenza tra questo strumento ed altre prove costituende che non siano legali, giacché il giudice conserva la prerogativa del libero convincimento, ma al tempo stesso è tenuto a motivare le ragioni che lo hanno portato a non accogliere le risultanze della c.t.p. [150]
Pertanto appare verosimile collocare la consulenza di parte nell’alveo del principio del contraddittorio in materia probatoria e quindi la sua proposizione deve sottostare necessariamente alle preclusioni di cui al 184 c.p.c., a meno che non si tratti di attività di mera valutazione di dati già acquisiti alla causa.
Volgendo l’attenzione alla trattazione che ha avuto l’argomento de quo nel processo amministrativo, possiamo notare come la giurisprudenza ha ritenuto che da un lato le perizie di parte nel processo d’impugnazione non hanno alcun valore e il giudice dovrà ritenerle tanquam non esset, dall’altro tutte le volte che sia stata disposta una verificazione l’amministrazione incaricata dovrà assicurare il rispetto del principio del contraddittorio [151]; pertanto una violazione di siffatto principio rende nulla la prova esperita e ne impone la rinnovazione. Tuttavia, il principio del contraddittorio troverebbe una attenuazione laddove l’incarico del consulente sia limitato all’interpretazione di norme ovvero all’analisi di materiale documentale, poiché in queste ipotesi, secondo il Consiglio di Stato, la controdeduzione su questo materiale sarebbe sempre possibile [152]. In realtà, questo indirizzo solleva più di una notazione critica; Il supremo collegio amministrativo da un canto sembra aver interpretato la stessa valenza del principio del contraddittorio, dall’altro sembra voler ammettere la consulenza (tra l’altro confusa con le attività di verificazione proprio a testimonianza della non completa distinzione tra i due istituti) anche per l’interpretazione delle norme. Per quanto concerne il primo punto va notato che il principio del contraddittorio non va confuso con quello di parità delle armi [153]; poiché se quest’ultimo tende a dare alla parte una pari opportunità di difesa nei confronti della controparte, il principio del contraddittorio agirebbe a monte ossia già nel procedimento di formazione della prova. In altri termini nella consulenza la presenza del consulente di parte potrebbe non solo far constare il dissenso del perito di parte in ordine alle soluzioni a cui fosse giunto l’esperto nominato dal giudice, ma, permetterebbe, altresì, che le sue notazioni siano fatte proprie già dalla relazione del consulente d’ufficio. Pertanto, non si può lecitamente sostenere - come ha fatto il giudice amministrativo - che il principio del contraddittorio potrebbe essere recuperato anche tramite delle controdeduzioni successive sulle prove ammesse; in realtà, in tal guisa si recupererebbe solo il principio di parità delle armi e non quello del contraddittorio. Per quanto concerne la seconda notazione occorre osservare che difficilmente si potrebbe demandare al consulente l’interpretazione delle norme - salvo si tratti del diritto straniero o degli usi che vengono considerati dei veri e propri fatti sottratti alla regola dettata dall’antico brocardo Jura novit curia - poiché a ciò osterebbe il principio per cui solo al giudice è demandata l’interpretazione della legge in quanto è l’unico peritum peritorum.
Nondimeno, tornando al processo civile, va precisato che il problema della controprova avverso le risultanze della c.t.u. non è limitato alla sola consulenza di parte, ma concerne la produzione di altre prove precostituite o costituende, quali testimonianze o documenti. In tale ipotesi si ripropone il problema delle preclusioni istruttorie e della correlativa possibilità di derogarvi per effetto dell’ultimo comma dell’art. 184 c.p.c., ossia chiedendo al giudice la fissazione di ulteriori termini a seguito della conclusione della consulenza d’ufficio (rectius. del deposito della relazione) [154]. Simile orientamento non appare del tutto pacifico, di fatti è stato sostenuto che, essendo il complesso di norme sulla consulenza una normativa speciale, esse escluderebbero l’applicazione dell’ultimo comma dell’art. 184 c.p.c., e che il diritto di difesa in relazione alla c.t.u. sarebbe assicurato dalla possibilità di nominare un c.t.p. ex art. 201 c.p.c., e, pertanto, il diritto alla controprova potrebbe essere ammesso anche al di fuori dei termini preclusivi indicati dall’art. 184 c.p.c. [155]
Diversamente, è stato sostenuto che l’ammissione della prova contraria avverso la consulenza d’ufficio (nel solo caso di consulenza percipiente o ricostruttiva) sarebbe possibile solo quando la consulenza abbia introdotto nuovi temi d’indagine che prima non appartenevano al thema decidendum; in tal caso, considerando che la mancata produzione del mezzo di prova non è riconducibile ad un comportamento omissivo o quanto meno intenzionale della parte, l’ammissione deve considerarsi rientrante nel diritto contemplato dall’ultimo comma del 184 c.p.c.; diversamente, qualora la consulenza non vada ad arricchire l’oggetto della causa e, quindi, verta su fatti già allegati dalle parti, la preclusione deve considerarsi pienamente lecita, perché è stata la stessa parte, non producendo le prove in suo possesso, a far nascere l’esigenza della consulenza tecnica [156], i cui risultati non possono essere disconosciuti successivamente. Simile interpretazione permetterebbe di attualizzare il dettato dell’ultimo comma del 184 c.p.c., secondo cui l’ammissione dei mezzi deve essere «necessaria» [157].
Questa prospettiva, però, potrebbe sollevare qualche dubbio ricostruttivo. Difatti, se si ammettesse l’applicabilità dell’art. 184 c.p.c. solo quando la consulenza tecnica abbia arricchito il thema probandum, si potrebbe desumere che la consulenza o meglio l’incarico che il giudice affida al consulente possa tracimare l’argine costituito dall’oggetto della causa e dal thema decidendum e che va a definire indirettamente il thema probandum, ma di ciò si può ragionevolmente dubitare anche in relazione a quanto sopra sostenuto circa l’affidamento dell’incarico dal giudice al consulente.
Simile affermazione presta poi il fianco ad altre critiche. Infatti, se è lecito pensare che la parte che voglia far ammettere la prova contraria alle risultanze della c.t.u., avendone la disponibilità, può incorrere nelle preclusioni istruttorie [158], appare evidente che simile omissione o inattività, su cui la dottrina succitata fonda l’esistenza della preclusione stessa, non sia rimproverabile alla parte. Difatti, la prova, fino alle risultanze della consulenza tecnica, poteva non avere quei caratteri di rilevanza ed utilità indispensabili per la sua ammissione od acquisizione [159]. Pertanto, alla parte non deve essere precluso il diritto alla controprova, tuttavia le si potrà eccepire di non essersi riservata di produrre delle prove contrarie magari per farsi assegnare dal giudice il termine perentorio per dedurle.
In questa sede va chiarito, infine, che la “perizia stragiudiziale giurata” sopra menzionata va necessariamente distinta da un diverso fenomeno, approfondito recentemente da attenta dottrina, e cioè quello della perizia arbitrale [160]. La perizia arbitrale, la cui natura è ampiamente dibattuta [161], andrebbe ad identificare due fenomeni molto diversi tra loro. La prima ipotesi ricorrerebbe quando le parti di rapporti derivanti da contratti di scambio (do ut des oppure do ut facias) deferiscono ad un terzo la composizione delle divergenze che sorgono in sede di esecuzione delle prestazioni; L’altro caso si verificherebbe nei contratti assicurativi, quando si deferisca a dei terzi l’accertamento dell’esistenza di elementi in grado di rilevare l’esistenza del danno, per cui si era stipulata la polizza, oppure il nesso di causalità o l’entità del danno subito (come ad esempio la invalidità lavorativa od il danno biologico derivante dal sinistro stradale) [162].
Anche se il fenomeno in questione sembra non avere punti di contatto con la consulenza tecnica ed in particolare con la c.t.p., in quanto esso non può essere inquadrato tra i fenomeni processuali di natura probatoria, ipotesi avanzata soprattutto dalla dottrina di matrice tedesca [163], va rilevato, nondimeno, che la perizia arbitrale, come hanno evidenziato i commentatori che al tema hanno tributato i maggiori apporti, suscita dei problemi sistematici in materia probatoria di non poco momento. Il nodo gordiano da scogliere è quello di stabilire se le parti possano al di fuori della fase propriamente processuale accertare alcuni elementi di fatto del rapporto tra loro intercorso o di quello sorto (come nel caso dei sinistri) e quale sia poi il valore che questo accertamento possa avere in una successiva fase contenziosa. Comunque, le questioni sollevate richiamano sicuramente le problematiche connesse al c.d. negozio di accertamento [164] e alla sua valenza nell’ambito processuale, nonché alla configurabilità di un negozio probatorio nel nostro ordinamento. In particolare, non potendosi condurre un’analisi ex professo sulla materia de qua, che richiederebbe ben diversa sede, va notato che l’accertamento che le parti possono fare dei fatti oggetto della successiva controversia, sicuramente è parzialmente diverso dall’accertamento che le parti possono affidare al perito arbitrale, il quale, come ha notato la dottrina specializzata, potrebbe essere investito non soltanto dell’accertamento in fatto ma anche dell’interpretazione della relativa disciplina giuridica e della sua applicazione al caso. Pertanto, se in merito a quest’ultima ipotesi (rectius: accertamento del fatto ed indagine in diritto), l’incarico al terzo sembra ripercorrere i tratti dell’arbitrato parziale, nel caso in cui l’incarico al terzo concerna solo l’acclaramento dei fatti oggetto di possibile controversia allora non sarebbe consona l’applicazione della normativa sull’arbitrato. Nondimeno, una volta ammessa la possibilità per le parti - anche tramite l’uso della confessione stragiudiziale, che contenga una dichiarazione complessa [165] - di introdurre accertamenti preventivi nel processo, bisognerà però verificare se questa introduzione non trovi dei dati ostativi altrove, ossia nel carattere indisponibile delle norme processuali e nelle facoltà delle parti nel processo [166]. Inoltre, bisognerà verificare se questi accertamenti siano irretrattabili nel corso del processo e, quindi, se il giudice possa ad esempio demandare ad un proprio consulente un accertamento sulla stessa materia della perizia stragiudiziale compiuta. Però, va chiarito che le questioni sollevate andrebbero approfondite in altra sede, anche perché esse coinvolgono uno studio sulla effettiva disponibilità degli istituti processuali, anche alla luce degli ultimi orientamenti giurisprudenziali ed il rapporto intercorrente tra alcuni contratti dispositivi, stipulati al fine della risoluzione delle controversie in atto o future, ed alcuni istituti processuali.

NOTE:

[ 1 ] Cfr. VERDE, Profili del processo civile, II, Napoli, 2000, 00140; PROTETTI’, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, 1994; DE TILLA, Il consulente tecnico nell’evoluzione giurisprudenziale, GC, 1993, II, 61; GIUDICEANDREA, Consulente tecnico, ED, IX, 1961, 531; VELLANI, Consulenza tecnica nel diritto processuale civile, Dig. disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1988, 525; id, Consulente tecnico, NDI, Torino, 1981, 507; BARONE, Consulente tecnico, EGI, VIII, Roma, 1988, 4.
[ 2 ] La differenza tra perizia e consulenza tecnica sarebbe da rintracciare nel fatto che mentre la prima, secondo l’impostazione del codice del 1865, andrebbe ad indicare il mezzo di prova e cioè il risultato del’attività del perito, la consulenza tecnica, ponendo un maggiore accento sulla figura del consulente, supera gli angusti limiti della perizia stessa; infatti il compito del consulente, come già notato da illustre dottrina (v. CARNELUTTI, Diritto e processo, Napoli, 1958, 81), sarebbe quello di fornire al giudice quel bagaglio di conoscenze tecniche necessarie allo svolgimento della causa durante tutto l’iter procedimentale e non al solo fine di acquisire o valutare fatti oppure ricostruire avvenimenti,.cfr., GIUDICEANDREA, Consulente tecnico (dir. proc.civ.), ED, IX, 1961, 531
[ 3 ] In realtà, appare difficile intendere la precisa occasio legis della riforma in questione poiché essa, non avendo agito sulla sola normativa riguardante il processo amministrativo, essendone testimonianza l’art. 6, sembra essere stata dettata da una pluralità di finalità, non ultima la conservazione degli organi della giurisdizione amministrativa, che a seguito della sentenza n. 500 del 1999 della Cassazione, anche latamente interpretativa del pregresso art. 33 del dlgs 80/1998, avevano perso gran parte della loro ragione di esistere e di distinguersi dalla giurisdizione ordinaria.
[ 4 ] La sentenza della Corte Costituzionale ha riguardato l’art. 33 ed in via incidentale gli art. 34 e 35 del dlgs. 80/1998, poiché la Corte, avendo dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 33 per eccesso di delega, (cfr., Corte Cost., 17-7-2000, n. 292, FI, 2000, I, 2393), aveva spianato la strada per la dichiarazione di incostituzionalità degli artt. 34 e 35 dello stesso decreto. Questa ipotesi ricostruttiva è confermata dall’ordinanza di remissione alla Consulta da parte delle sezioni unite della Suprema Corte (cfr., Cass., 25-0-2000, 43/SU/2000, FI, 2000, I, 2143) per un’identica questione di costituzionalità dell’art. 34 dlgs. 80/98. Tuttavia, il legislatore per scongiurare che l’intento sotteso al dlgs 80/1998 venisse tradito ha approvato, in tempi estremamente celeri, la l. 205/2000, elidendo il profilo di illegittimità che affliggeva il più volte citato dlgs 80/1998. Su queste tematiche cfr., GALLI; Corso di diritto amministrativo, II, Padova 2001, 1437 ss.; CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2001, 673 ss.
[ 5 ] In realtà, l’ammissibilità della consulenza tecnica nel processo amministrativo è stata il frutto di una lenta elaborazione giurisprudenziale a cui è seguita la riforma della L. 205/2000. Infatti, in origine la giurisprudenza sulla scorta dell’art. 44 del RD. 260–6-1924, n. 1054 (Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato), non riteneva ammissibile la c.t.u., salvo che si trattasse di ipotesi di giurisdizione di merito, poiché avrebbe introdotto dei profili di apprezzamento tecnico dei fatti incompatibili con la natura del processo amministrativo. Pertanto, le eventuali carenze di accertamenti tecnici erano colmabili tramite l’uso delle «verificazioni», (cfr., Cons. Stato sez. IV, 27-5-1991, n. 321, FI, 1992, III, 114; Cons. Stato, sez. VI, 13-7-1985, n. 422, FI, 1986, III, 422) oppure tramite i pareri al Consiglio superiore di sanità ex art. 77 del T.U. 27-7-1934, n. 1265. Successivamente, la Corte Costituzionale ha integrato il disposto dell’art. 44 del R.D. n. 1054 del 1924, nella parte in cui non prevedeva la esperibilità della consulenza tecnica di cui al 424 c.p.c. per le controversie di lavoro dei pubblici dipendenti devolute alla cognizione dell’A.G.A., cfr., Corte Cost., 23-4-1987, n. 146, FI, 1987, I, 1349. In fine, l’art. 35 comma 3 del Dlgs. 80/1998, ha esteso l’esperibilità del mezzo de quo a tutte le controversie riservate alla giurisdizione esclusiva dei Tar. Dacché, attualmente si potrebbe ipotizzare una estensione dell’uso della consulenza anche ai casi di giurisdizione di legittimità od ordinaria, se si ammettesse, come ha fatto parte della giurisprudenza amministrativa, ancor prima della l205/2000, una sindacabilità da parte del giudice amministrativo (sia di primo che di secondo grado) dell’«attendibilità» della valutazione tecnica, ossia del contenuto tecnico dell’atto espressione della valutazione tecnica della P.A. cfr., Cons. Stato, sez. IV, 9-4-1999, n. 601, FI, 2001, I, 9 ss.; per la completa ricostruzione del processo che ha portato all’ammissibilità della c.t.u. nel processo amministrativo, cfr., LAZZARA, «Discrezionalità tecnica» e situazioni giuridiche soggettive, in nota a Cons. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, DPrA, 1999, 239-251. Tuttavia, la questione, anche se non priva di aspetti rilevanti circa l’esperibilità della c.t.u., attiene in modo più precipuo alla sindacabilità degli atti espressione della cd. «discrezionalità tecnica», cfr., DELSIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, in nota a Cons. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, cit., 185 ss. e 203 ss., LAZZARA, c, in nota a Cons. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, cit., 213 ss.; SCHINAIA, Il controllo del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità della pubblica amministrazione, DPrA, 1999, 4, 1101 ss.
[ 6 ] In realtà, questa affermazione va necessariamente temperata, perché la giurisprudenza amministrativa l’aveva ammessa, non solo nelle materie di giurisdizione esclusiva (cfr., T.A.R. Lombardia sez. Milano, 20-8-1996, n. 1319, GC, 1997, I, 1138), ma anche nelle controversie del pubblico impiego, allora non ancora devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, cfr., T.A.R. Lombardia sez. Milano, 11-4-1996, n. 463, FI, 1997, III, 118; T.A.R. Puglia sez. II, Bari, 6-10-1994, n. 1301, T.A.R., 1994, I, 4606; T.A.R. Lombardia sez. Brescia, 23-10-1987 n. 1107, Riv. giur. polizia locale 1990, 90; in senso contrario cfr., T.A.R. Calabria sez. Reggio Calabria, 22-7-1987 n. 346, Riv. giur. polizia locale, 1998, 785.
[ 7 ] Sulla relazione univoca tra limitazione dei mezzi istruttori e la natura caducatoria del processo amministrativo, cfr., GALLI, Corso di diritto amministrativo, 1996, 923.
[ 8 ] Cfr., NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 1994, 232, il quale ulteriormente sosteneva, in maniera acuta, la differenza, all’interno dell’ art. 44 del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, degli «schiarimenti» e «verificazioni» dalla consulenza o dalla perizia; infatti, mentre i primi concernevano il solo accertamento di fatti ulteriori, le seconde concernevano la valutazione degli stessi, v. Cons. Stato, sez. IV, 13-7-1985, n. 422, inedita; tuttavia, attenta dottrina, già a metà degli anni ottanta, aveva notato che, nonostante le norme riguardanti il processo amministrativo fossero abbastanza datate, vi erano in esse numerosi spunti per affermare l’ampiezza dei mezzi istruttori del giudice amministrativo; in particolare questa affermazione era giustificata dall’uso che i T.A.R. facevano delle verificazioni, cfr., SPAGNUOLO VIGORITA, Notazioni sull’istruttoria nel processo amministrativo, DPrA, 1984, 13-15, 16 ss.
[ 9 ] Sulla esclusione nei giudizi di legittimità di apposite fasi istruttorie cfr., LUISO, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, Milano, 2000, 418-419, il quale, per il giudizio di Cassazione, fa derivare simile inammissibilità dal divieto di nuove allegazioni, per cui innanzi alla Corte non sarebbe possibile una adeguamento della realtà processuale alla realtà sostanziale.
[10] Tuttavia, già i primi tentativi si possono rintracciare nelle storiche relazioni di PUGLIATTI e NICOLO’ al Convegno nazionale sull’ammissibilità del danno patrimoniale derivante da lesione degli interessi legittimi (Napoli, 27-28-29 ottobre 1963), in Atti del convegno, Milano, 1965
[11] Di solito la giurisprudenza giustificava la tutela risarcitoria innanzi al giudice ordinario degli interessi legittimi oppositivi sulla base della teoria della degradazione; in altri termini, a seguito della caducazione per effetto della pronuncia giurisprudenziale, del provvedimento amministrativo autoritativo incidente su un diritto soggettivo dell’interessato, quest’ultimo si riespandeva e poteva essere risarcito per l’ingiusta lesione, cfr., GALLI, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1996,
[12] Per la distinzione chiara sul concetto di interesse pretensivo ed oppositivo, cfr., NICOLO’, Istituzioni di Diritto Privato, I, Milano, 1962, 11; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2000, 699.
[13] In tal senso, cfr., GAZZONI, op. ult. cit., 74
[14] Per l’analisi del «doppio binario», cfr., GALLI, Corso di diritto amministrativo, I, Padova, 2000, 29-30.
[15] Non è da sottacere che la riforma in parola ha un ulteriore merito, ovverosia quello di evitare i non pochi contrasti di giudicati dei giudici amministrativi ed ordinari, soprattutto in materia di provvedimenti ablatori, in tal senso, cfr, CALABRO’, Pronti a giocare la sfida della qualità, Guida al diritto, 2000, 30.
[16] Prima la ricostruzione del fatto era quella operata dalla stessa amministrazione nella istruttoria presente in ciascun procedimento amministrativo, oggi invece simile costruzione non può più essere sufficiente, proprio per affrontare il giudizio di liceità; ciò sarebbe dovuto proprio al fatto che il giudizio amministrativo si è trasformato da un giudizio sull’atto ad un processo sul rapporto, cfr., ROMANO, I caratteri originari della giurisdizione amministrativa e la loro evoluzione, DPrA, 1994, 677 ss.; per la tendenza ad ampliare la conoscenza del fatto da parte del giudice amministrativo al di fuori ed al di là della prospettazione dell’istruttoria procedimentale, GALLO, La prova nel processo amministrativo, Milano, 1994, 20.
[17] Per la sua qualificazione, nel processo amministrativo riformato, in termini di mezzo istruttorio e non come mezzo di prova, cfr., SCOLA TRENTINI, Il nuovo processo amministrativo, Commento alla legge 21 luglio 2000, n. 205, Rimini, 2000, 123.
[18] Per la definizione di metodo acquisitivo, cfr., BENVENUTI, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953.
[19] In realtà, non solo il giudice, per effetto del principio richiamato, avrebbe la facoltà di individuare il soggetto onerato della prova di un fatto da chiunque introdotto nel processo, ma la parte potrebbe addirittura limitarsi a fornire al giudice una semplice ricostruzione attendibile dei fatti, cfr., NIGRO, Giustizia Amministrativa, Bologna, 1984, 232;
[20] Va precisato che pur esistendo un principio di acquisizione anche nel processo civile – che trova il proprio fondamento sia nel secondo comma dell’art. 245 c.p.c., laddove si afferma che la rinuncia all’audizione del testimone dovrebbe essere accettata dall’altra parte, sia nelle numerose pronunce della Suprema Corte, la quale ha affermato che il giudice può fondare il proprio convincimento su tutto il materiale probatorio acquisito senza tener conto della sua provenienza (cfr., GRASSELLI, L’istruzione probatoria nel processo civile riformato, Padova, 2000, 38-40) – esso è ontologicamente distinto dal medesimo principio esistente nel processo amministrativo; infatti, se nel processo civile il principio in parola andrebbe ad incidere soprattutto sul potere del giudice di valutazione del materiale probatorio, nel processo amministrativo esso costituirebbe una regola di giudizio alternativa a quella dell’onere della prova (infatti non a caso la dottrina specialistica parla di onere dell’allegazione o del principio di prova), tal che permetterebbe un ampio utilizzo dei poteri istruttori del giudice amministrativo prima dell’applicazione della regola di giudizio contenuta nell’art. 2697 c.c.; cfr., sul metodo acquisitivo, SPAGNUOLO VIGORITA, op. cit., 18 ss.
[21] In tal senso in motivazione, cfr., Cons. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, cit.
[22] Per tutte, cfr., Cass., 23-10-1997, 10415, GCM, 1997,1994.
[23] In tal senso, cfr., LUISO, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, Milano, 2000, 90, dove la consulenza viene affiancata all’interrogatorio libero per rifluire nella categoria dei mezzi istruttori in senso lato. Laddove, però, può replicarsi che, mentre l’interrogatorio libero, ove sia disatteso, può portare alla formazione di argomenti di prova e ha come funzione propria, non quella di provare i fatti allegati dalle parti, bensì di chiarire il thema decidendum, la consulenza tecnica, invece, anche per una sua collocazione sistematica nel codice, non tende al chiarimento delle posizioni delle parti, altresì, seguendo la dottrina tradizionale, alla valutazione di fatti gia acquisiti al processo.
[24] Per delle profonde considerazioni sull’inadeguatezza del termine «consulente tecnico», cfr., FRANCHI, Consulente tecnico, Commentario del cod. di proc. civ. diretto da E. Allorio, I, Torino, 1973, 686.
[25] Così, VELLANI, Consulenza tecnica nel diritto processuale civile, Digesto/civ., III, Torino, 1988, 525.
[26] Parte della dottrina, partendo dalla natura ausiliaria del consulente, ha sostenuto che la attività del consulente, essendo prevalentemente quella di valutazione, dovrebbe concentrarsi nella fase di decisione, cfr., MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, Milano, 2000, 186 ss.
[27] Sulla natura del divieto di scienza privata cfr., Verde, Dispositivo, (principio), EG. Treccani, XI, Roma, 1988.
[28] Simile esigenza, evidenziata da attenta dottrina, è soddisfatta dalla possibilità di nominare dei consulenti tecnici di parte ex art. 194 c.p.c., cfr., LUISO, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, cit., 91.
[29] Simile distinzione è stata analizzata in dottrina in maniera critica, anche in relazione alla figura della «testimonianza tecnica», ovvero di quella testimonianza che non può essere fatta se non si hanno delle conoscenze tecniche, a tal proposito, cfr., DENTI, Testimonianza tecnica, Riv. dir. proc., 1962, 8 ss.
[30] Cfr., T.A.R. Lombardia sez. Milano, 10-4-1996, n. 458, GC., 1996, I, 1360; T.A.R. Umbria 8-10-1982 n. 145, FI, 1984, III,107.
[31] Per la distinzione tra i due mezzi e l’ammissibilità delle sole verificazioni nei giudizi ordinari di legittimità cfr., Cons. Stato sez.VI, 13-7-1985 n. 422, Riv. giur. edilizia 1985, I,779; in dottrina, cfr., SPAGNUOLO VIGORITA, op. cit., 13-15; GALLO, op. loc. ult. cit.; in fine va rilevato come parte della dottrina amministrativa ha ritenuto che la c.t..u. sia diversa da entrambi gli istituti citati (verificazioni e perizie) perché ne fonderebbe i caratteri; inoltre ha rilevato, giustamente, che la consulenza non è solo un semplice mezzo istruttorio, in quanto oltre alla fase accertativa ne avrebbe anche una deducente, cfr., LAZZARA, op. cit., 248.
[32] Così, MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, cit., 186 ss.; Occorre precisare, però, che i dati normativi non si limitano agli artt. 194 e ss., ma la disciplina dell’istituto sarebbe costituita, oltre che dalle citate disposizioni anche dagli art. 62 ss., 424 (Assistenza del consulente tecnico nel rito del lavoro), 258 ss. (ispezioni, riproduzioni meccaniche e dagli esperimenti) ed infine dagli artt. 263 ss. c.p.c. sul rendimento dei conti. Per quanto concerne gli artt. 62 ss., acuti commentatori hanno giustamente notato come tali norme, come del resto molte altre all’interno del nostro codice, non sarebbero norme prettamente processuali, bensì norme ordinamentali, (cfr., CAPPONI, Appunti sulla legge processuale civile. Fonti e vicende, Torino, 1999, 6-7.); da simile inquadramento si potrebbe giungere a ritenere inconferenti, rispetto all’ambito dell’indagine de qua (rectius: la natura di mezzo probatorio della consulenza), le tesi che facciano leva su codesti dati nomativi. L’indirizzo abbracciato appare altresì sostenuto dalle norme di cui agli artt. 424 e 263 ss. c.p.c.; infatti, quanto alla prima soccorre il dato sistematico, poiché se il legislatore del 1973 ha inteso includere la consulenza tra gli altri mezzi istruttori d’ufficio, non si vede perché simile dato non sia utilizzabile per classificare come tale la consulenza nel processo di cognizione ordinario. Quanto alle seconde la loro natura di norme regolanti un mezzo di prova non è posta in dubbio; quindi, non si dovrebbe fare una distinzione sulla base del singolo nomen del mezzo utilizzato, al fine della sua classificazione o meno all’interno delle prove, ma è solo dalla concreta analisi dei compiti demandati a codesti ausiliari che se ne può sostenere l’una piuttosto che l’altra natura.
[33] Cfr., VERDE, Profili del processo civile, II, processo di cognizione, 1996, 140
[34] Cfr., Cass. sez. un., 4-11-1996, n. 9522, Danno e resp. 1997, 15
[35] Cfr., PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1996, 477.
[36] Anche in giurisprudenza si è fatta strada simile impostazione, cfr., Cass., 14-1-1999, n. 321, RFI, 1999, «Consulente tecnico», 10; Cass., 29-3-1999, 2957, RFI. 1999, «Consulente tecnico», n. 8.
[37] Cfr., Cass., 1-10-1999, n. 10871, RFI, 1999, «Consulente tecnico», n. 6.
[38] Cfr., Cass., 1-10-1999, n. 10871, cit.; Cass., 13-5-1999, n. 4755, RFI, 1999, «Consulente tecnico», n. 7.
[39] Cfr., Cass., 14-1-1999, n. 321, RFI, 1999, «Consulente tecnico», n.10
[40] Per le origini e la portata del principio richiamato cfr., VERDE, Dispositivo, (principio), cit., 1 ss
[41] VERDE, Profili del processo civile; I, Principi generali, 1994, 113 ss. e 128 ss. il quale distingue il principio dispositivo in senso stretto (ossia il principio dispositivo in senso processuale) da quello in senso ampio (ovvero in senso sostanziale), laddove ha correttamente ritenuto che se da un lato il principio dispositivo da ultimo considerato concerne soprattutto la domanda e la disponibilità della stessa, nel primo viene in rilievo un problema di mera tecnica processuale; per la medesima matrice romanistica (iudex iuxata alligata et probata partium iudicare debet) delle due accezioni del principio dispositivo, cfr., VERDE, Dispositivo (principio), cit., 1; CAPPELLETTI; La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Milano, 1962, 305; CAVALLONE, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, 3 ss. Per vero nel sistema processuale romano la confusione tra situazione sostanziale e la corrispondente tutela processuale sarebbe ravvisabile già nel termine actio,il quale sarebbe stato utilizzato come sinonimo sia di azione che di diritto cfr., GUARINO, Diritto privato Romano, Napoli, 1994, 187 in nota n. 15.1.2.
[42] La sua violazione potrebbe avvenire solo dove il giudice incaricasse il proprio ausiliario di indagare su fatti non configurati dalle parti (rectius: non allegati), determinando il «passaggio da un sistema dispositivo ad uno inquisitorio», v. GIUDICEANDREA, op. cit.
[43] Per simile distinzione rispetto a quello in senso lato cfr., VERDE, op. ult. cit.
[44] Sulla natura di processo di parti del processo amministrativo, DE LISE, La prova nella procedura delle giurisdizioni amministrative, CS, 1974, II, 959; BENVENUTI, Istruzione nel processo amministrativo, ED, XXIII, 206 ss.
[45] Cfr., ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, II, Giustizia amministrativa, Milano 1954, 296; in giurisprudenza conformemente, cfr., Cons., Stato, Sez. IV, 16-2-1938, FA, 1938 I, 1, 157; Cons., Stato, Sez. IV, 11-7-1941, FA, 1941, I, 1, 294; T.A.R. Sicilia sez. Catania, 5-12-1985 n. 1447, T.A.R. 1986, I,811; Consiglio Stato sez.VI, 9-5-1983 n. 345, CS, 1983, I, 569.
[46] Per l’attenuazione del principio dell’onere della prova tramite il metodo acquisitivo, cfr., Cons. Stato sez. IV, 22-7-2000, n. 3493, FA, 2000,2132.
[47] Per la definizione giurisprudenziale del metodo acquisitivo, cfr., Cons. Stato sez. V, 26-6-2000, n. 3631, FA, 2000, 2183; per l’esercizio del metodo, cfr., Cons. Stato, sez. IV, 28-12-2000, n. 7003, FA, 2000, XII
[48] Cfr., Cons. Stato sez. V, 15 giugno 2000, n. 3317, FA, 2000, 2161; Cons. Stato sez. V, 24 aprile 2000, n. 2429, Ragiusan, 2000, 59. In realtà, il metodo acquisitivo sembra ricalcare il principio della «vicinanza della prova» che ha permesso alla giurisprudenza civile di escludere la prova negativa. In tal ultimo senso in merito alla prova dell’inadempimento, cfr., Cass., SU., 30-10-2001, n. 1353, FI, 2002, I, 769.
[49] In maniera chiara e con numerosi rinvii alla dottrina specialistica sul tema cfr., MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Nozioni introduttive e disposizioni in generale, Milano, 2000, 99-107. tuttavia, qualcuno ha sollevato qualche perplessità sulla concreta possibilità che un sistema inquisitorio leda il concetto dell’imparzialità del giudice, per il tema del rapporto tra imparzialità e principio dispositivo cfr., LIEBMAN, Fondamento del principio dispositivo, RDPr., 1960, 551 ss.; VERDE, Dispositivo (principio), cit.
[50] Altresì, secondo parte della giurisprudenza di legittimità il non ammettere la consulenza quando questa sia l’unica fonte di accertamento dei fatti posti a fondamento delle domande o delle eccezioni delle parti da luogo ad un vizio di violazione della legge processuale censurabile in Cassazione, cfr. Cass., 14-1-1999, n. 321, RFI, 1999, «Consulente tecnico», n. 10.
[51] Sarebbe errato, invece, ritenere, come ha sostenuto qualche interprete, che siccome questo strumento non è completamente assimilabile né alla testimonianza né all’ispezione le sue risultanze non sono sufficienti ad assolvere l’onere della prova, cfr., GIUDICIANDREA, Consulente tecnico (dir. proc.civ.), ED., IX, 1961, 531
[52] Nel processo amministrativo, almeno fino alla entrata in vigore della legge 205 del 2000, tale compito come sopra affermato era affidato alle perizie e agli schiarimenti, cfr., Cons. Stato sez.VI, 13-7-1985 n. 422, FA, 1985, 1379. Tuttavia, una particolarità di questo meccanismo è quella (il presente è d’obbligo perché le verificazioni e gli schiarimenti sono esperibili anche nel nuovo processo amministrativo) per cui simili accertamenti sono effettuati dalla stessa amministrazione parte del giudizio (T.A.R. Sicilia sez. I, Palermo, 15-7-1999, n. 1477, ined.), salvo che il giudice non ritenesse di affidare ad altre amministrazioni l’accertamento dei fatti, cfr., Cons. Stato, sez. V, 19-11-1992 n. 1336, CS, 1992, 1633; però laddove sia la stessa amministrazione parte della controversia ad effettuare la verificazione bisogna rispettare il principio del contraddittorio sotto pena della rinnovazione, cfr., T.A.R. Friuli Venezia Giulia 20-2-1991 n. 62, FA, 1991, 2345.
[53] Per una completa disamina degli incarichi del consulente, cfr., VELLANI, Consulenza tecnica nel diritto processuale civile, cit., 531 ss.; BARONE, Consulente tecnico, EGI, VIII, Roma, 1988, 4.
[54] Cfr., PROTETTI’, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, 1999, 73, il quale parla in genere dell’accertamento di elementi di fatto necessari al fine di assolvere l’incarico.
[55] In tal senso, cfr. MARTINO, Codice di procedura civile commentato, a cura di VERDE-VACCARELLA, Torino, 1996, p. 153; PROTETTI’, op. ult. cit., 73-74; in giurisprudenza, Cass., sez. lav., 29-5-1998, n. 5345, RFI, 1998, «Consulente tecnico», n. 14; In realtà, simile indirizzo andrebbe riletto alla luce della modifica dell’art. 111 Cost. e dell’introduzione del principio del «giusto processo»; ma altri e ben più gravi problemi di compatibilità con il sistema dei principi processuali pone l’indirizzo in questione; in particolare pone un problema di compatibilità con il principio dispositivo in senso stretto, poiché sostenendo che il giudice possa fondare il proprio convincimento sulla base dei fatti aliunde acquisiti, non significa solo derogare al principio dispositivo in materia di prove, che conosce frequenti eccezioni nel nostro ordinamento, ma significa che il giudice può fondare il proprio convincimento su fatti non solo non provati dalle parti ma nemmeno allegati su cui le parti non hanno fondato le loro domande od eccezioni. In definita, si consentirebbe una deroga inammissibile al principio della domanda che favorirebbe le decisioni della «terza via». La soluzione a questa empasse sarebbe quella di far rifluire la consulenza nei limiti dei normali mezzi di prova; infatti, non essendo tesa che all’asseveramento dei fatti allegati negli atti di parte, essa dovrebbe limitarsi ad accertarne l’effettiva sussistenza nei limiti richiesti dalle parti (cfr., MONTELEONE, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 417 ss., il quale, da simile assimilazione, trae numerosi spunti in ordine al principio dell’onere della prova); ma il problema imperioso è quello di evitare che il giudice entri a contatto con materiale che non sarebbe mai dovuto entrare nel suo ambito conoscitivo, e su cui inevitabilmente andrà a fondare la propria motivazione, in quanto appare davvero difficoltoso fare un processo di eliminazione mentale che non sia una operazione posticcia ed artefatta. In senso parzialmente conforme, ma riferita al caso generale della prova esperita in maniera erronea, cfr. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, cit., 109.
[56] Cfr., Cass., 11 marzo 1995, n. 2865, GIUS, 1995, 2438; Cass., sez. lav., 7-1-1995, RFI, 1995, «Consulente tecnico», n. 29; Cass., sez. lav., 30 maggio 1983 n. 3734, GCM, 1983,; contra, cfr., Cass., sez. lav., 26 ottobre 1995, n. 11133, RFI, 1995, «Consulente tecnico», n. 29, per cui l’aver ascoltato o chiesto chiarimenti a terzi senza la preventiva autorizzazione non è solo un causa di nullità della stessa, ma anche della stessa sentenza che fosse fondata su di essa.
[57] In realtà, il continuo riferimento nelle massime alla presunta violazione del principio dell’onere della prova per effetto dell’ammissione della consulenza tecnica (per un’ampia rassegna in merito, cfr., DE TILLA, Il consulente tecnico nell’evoluzione giurisprudenziale, GC, 1993, II, 61) ha un senso solo se limitato ed arginato in ben più ristretti limiti semantici; ovvero al solo fine di evitare gli incarichi esplorativi.
[58] Cfr., BARONE, Consulente tecnico, cit., 5; in giurisprudenza, cfr., Cass., 14 febbraio 1980, n. 1058, RFI, 1980 «Consulente tecnico», n. 16
[59] Sulla differenza tra prova legale e prova non legale, cfr. VERDE, Prova, ED, Milano, 1988, XXXVII, 605 ss
[60] Cfr., SATTA- PUNZI, Diritto processuale civile, Milano, 1992, 347, SATTA, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Milano, 1960, 112; MARTINO, Codice di procedura civile commentato, a cura di VERDE-VACCARELLA, Torino, 1996,
[61] Cfr. VERDE, Profili del processo civile, II, cit., 126; LUISO, Diritto processuale civile, II, cit., 141, 142, il quale fa rilevare che, essendo la confessione stragiudiziale una c.d. probatio probanda, ovvero una prova che a sua volta deve essere provata, individua due mezzi fondamentali per dedurla in giudizio, ossia o tramite un documento oppure per mezzo di una testimonianza; tuttavia, l’A. soggiunge che mentre la confessione introdotta con la testimonianza incontrerebbe gli stessi limiti oggettivi e soggettivi che incontra lo specifico mezzo istruttorio, la prova documentale non avrebbe limiti (nel provare l’esistenza della confessione); quindi non vi sarebbero ostacoli nell’ammettere che simile confessione sia contenuta nella relazione conclusiva del consulente di per sé documento.
[62] Cfr., Cons. Stato, sez.V, 22-11-1991 n. 1323, CS, 1991, I, 995; Cons. Stato, sez.VI, 7-5-1991 n. 284, FA, 1980, 1480
[63] In tal senso, cfr., T.A.R. Piemonte sez. II, 29-5-1995, n. 373, FA, 1995, 2744; in particolare sull’uso dei poteri del giudice come estrema ratio cfr., T.A.R. Lombardia sez. III, Milano, 20-9-1996, n. 1319, GC, 1997, I, 1138.
[64] Cfr., PROTETTI’, Il consulente tecnico nella elaborazione giurisprudenziale, cit., 63-64.
[65] Cass., 19-2-1980, n. 6569, GCM, 1980, fasc. 12; Cass., 28-6-1979, n. 3616 GCM, 1979, fasc. 6; Cfr., SATTA, Commentario, cit., II, 1, 112
[66] Ad onor del vero qualche illustre autore ha avuto modo di sollevare un’ulteriore problematica concernente la violazione, per il tramite della consulenza tecnica, dei limiti di ammissibilità delle prove. Infatti, se il consulente può acquisire documenti sentire persone, anche con una certa ampiezza dati gli ultimi indirizzi giurisprudenziali, e questi mezzi sono liberamente valutabili dal giudice e sui i quali può fondare la decisione, la consulenza potrebbe essere lo strumento, questa volta nelle mani del giudice, per violare i limiti di ammissibilità delle prove, trasformando la consulenza e, quindi, la relazione in una grande prova atipica liberamente valutabile, cfr., PROTO PISANI, Appunti sulle prove civili, FI, 1994, V, 75).
[67] Cfr.,VIAZZI La riforma del processo civile e alcune prassi giurisprudenziali in materia di prove: un nodo irrisolto, FI, 1994, V, 106; sul problema delle prove atipiche attenta dottrina (cfr. Verde, Dispositivo (principio) cit.,) aveva già sottolineato come in questa stessa nozione vi fosse un profondo equivoco di fondo laddove si assimila la prova atipica all’indizio, poiché si è voluto «legittimare la atipicità del procedimento con la minore rilevanza assegnata alla fonte di prova». In realtà, si sarebbero accostate due fonti di prova ontologicamente diverse.
[68] La Suprema corte di Cassazione ha ritenuto che il materiale acquisito irritualmente, perché al di fuori del contraddittorio delle parti, potrebbe fondare una nullità rilevabile anche in sede di legittimità e quindi ben oltre il limite della prima udienza successiva al deposito della relazione, solo se la parte indichi il contenuto della consulenza e in quali punti della motivazione il giudice abbia utilizzato la stessa , cfr., Cass. sez. II, 7 dicembre 1994, n. 10500.
[69] Tuttavia, la giurisprudenza sembra di contrario avviso, poiché ritiene che le nullità relative all’espletamento della consulenza avrebbero tutte carattere relativo e devono essere fatte valere nella prima udienza successiva al deposito della relazione restando altrimenti sanate, cfr., Cass. sez. I, 1-10-1999, n. 10870, GCM, 1999, 2051; Cass. civile sez. II, 9-2-1995, n. 1457, GCM, 311.
[70] Per la differenza tra situazioni di fatto ancora esistenti e situazioni di fatto passate, cfr., MONTELEONE, op. cit., 265, 418.
[71] SATTA, Commentario, cit., II, 1, cit., 113; ANDRIOLI, Commentario, cit., II, 111;
[72] Cfr., Cass., 14-4-1999, n. 8659, RFI, 1999, «Consulente tecnico», n. 31, per cui per tener conto di documenti non ritualmente prodotti nella causa è necessario il consenso delle parti ed in mancanza la loro utilizzazione determina la nullità relativa della consulenza;  A. Bologna, 5-2-1997, FI, 1997, I, 2284.
[73] Il giudice, per il tramite del consulente, è infatti sprovvisto del potere di allegazione avendo solo, in via eccezionale, quello istruttorio, cfr., LUISO, Diritto Processuale Civile, II, Processo di cognizione, Milano, 2000, 84
[74] Cfr.,Cass., sez. lav., 29-5-1998, n. 4520, RFI, 1998, «Consulente tecnico», n. 14; A. Milano. 20-1-1998, GI, 1998,I, 1431; Il significato più plausibile alla ricorrente affermazione giurisprudenziale per cui la c.t.u. non può avere ad  oggetto che fatti secondari e che comunque da sola non può soddisfare l’onere della prova va rintracciato nel fatto che deve essere preclusa al giudice la nomina di consulenti con funzioni meramente esplorative, ovvero simile mezzo deve essere una sorta di exstema ratio laddove alla prova non si possa giungere con gli ordinari mezzi di prova nella disponibilità delle parti, cfr., Cass., 14-1-1999, n. 321, cit.; in dottrina MONTELEONE, Diritto processuale civile, cit., 417 ss.
[75] In conseguenza di quanto sopra espresso non sono condivisibili le ricorrenti affermazioni della giurisprudenza di legittimità per cui il giudice possa trarre il proprio convincimento da quelle parti della consulenza che nonostante abbiano scavalcato i limiti del mandato non siano sostanzialmente estranei all’oggetto dell’indagine in funzione della quale la c.t.u. era stata disposta, cfr., Cass. sez. lav., 7-1-1995, n. 202, RFI, 1995, «Consulente tecnico», n. 29; Cass. sez. lav., 4-2-1993, n. 1374, RFI, 1993, «Consulente tecnico», n. 9;
[76] Per un primo commento del decreto, cfr., GATTAMELATA, Un nuovo tassello per un processo telematico (riflessioni sul decreto del Ministero della Giustizia 13 febbraio 2001, n 123), NLCC, 2001, 532 ss.
[77] Infatti, se vi è stata la nomina di c.t.u. l’investitura di quello di parte va considerata come espressione del principio del contraddittorio, mentre in assenza di simile nomina la sua relazione avrà efficacia di una perizia stragiudiziale di parte o addirittura di mera allegazione difensiva su cui il giudice non è tenuto a pronunciarsi in maniera espressa, cfr., Cass., 6-11-1998, n. 11190, GCM, 1998, 2284.
[78] In tal senso, cfr. MARTINO, Codice di procedura civile commentato, a cura di VERDE-VACCARELLA, Torino, 1996, 146, in giurisprudenza, v., Cass., 19-8-1998, n. 8200, RFI, 1998, «Consulente tecnico», n. 10, per cui la discrezionalità del giudice nella nomina del consulente deriverebbe dal non essere mezzo di prova.
[79] Sulla non estendibilità della natura obbligatoria al giudizio di appello, cfr. Cass., lav., 7-6-1999, n. 5578, RFI, 1999, «Consulente tecnico», n. 3, per cui il giudice d’appello può ritenere non idonea la valutazione del giudice del primo grado ed ammettere la c.t.u., anche se oggi simile possibilità andrebbe valutata alla luce dell’art. 345 c.p.c. (i cd. «nova») cfr., MARTINO, Codice di procedura civile commentato, a cura di VERDE-VACCARELLA, Torino, 1996, 146; non concorda con questa soluzione Il Tedoldi il quale sostiene che per le cause previdenziali l’obbligatorietà della consulenza sarebbe caduta solo nella fase d’appello e non in primo grado, poiché ciò dovrebbe desumersi dalla lettera dell’art. 445 c.p.c., cfr., TEDOLDI, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000, 286.
[80] Cfr., T. Lecce, 22 novembre 1996, F.I. 1997,I,1627, in maniera contraria v. P. Monza, 25 settembre 1995, G. I., 1995, I, 2, 870; Implicitamente favorevole in dottrina cfr., TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano 1996, 115, il quale sostiene che «l’esercizio del potere istruttorio in qualunque momento del processo riaprirà i termini per una nuova istruttoria».
[81] Tuttavia si è ritenuto che il comma 3 dell’art. 183 c.p.c., ma simile ragionamento può essere esteso anche in relazione al comma 3 dell’art. 184 c.p.c., non sia un vero dovere, bensì solo una facoltà dello stesso giudice che eviterebbe le c.d. «pronunce a sorpresa», cfr., in nota, MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, il processo di cognizione, cit., 78; del pari, ciò non ha impedito che si sollevassero numerose eccezioni d’incostituzionalità, v., ANDOLINA-VIGNERA, Il modello di costituzionalità del processo civile italiano, Torino, 1990, 162.
[82] Non è da sottacere che entrambe le norme hanno portata applicativa di principi costituzionali, come ad esempio l’art. 24 secondo comma Cost., (in tal senso, cfr., CAPPONI, Appunti sulla legge processuale civile, cit., 19 ss.), anche se per effetto della legge costituzionale n. 2 del 1999, che ha riformato il testo dell’art. 111 Cost., oggi simili disposizioni sembrano andare ad applicare il principio del giusto processo.
[83] Tuttavia, la giurisprudenza prima dell’introduzione del principio del giusto processo riteneva di voler limitare il diritto alla controprova solo in relazione a quelle prove disposte d’ufficio, disconoscendo un eguale diritto avverso a tutta quella congerie di strumenti che va sotto il nome di prove atipiche, cfr., GRASSO, La pronuncia di ufficio, Milano, 1967, 121 e 310; sul problema più generale della prova atipica e dell’applicazione del principio del contraddittorio cfr., TARZIA Problemi del contraddittorio nell'istruzione probatoria civile, RDPr., 1984, 564
[84] Cfr., TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano 1996, 115.
[85] Cfr., Cass., 24-5-2000, n. 6808, CG, 10, 1317 ss.
[86] Cfr., Trib. Bari, 28 luglio 1996, GI, 1997, I, 2, 104; Trib. Brescia, 2 maggio 1996, GM, 1996, 858.
[87] Tuttavia, nella relazione illustrativa dell’ultimo progetto di legge recante «modifiche urgenti al codice di procedura civile approvato dal Consiglio dei Ministri il 21 dicembre 2001, nel primo gruppo di ipotesi di riforma alla lettera b) può leggersi che l’ «udienza di prima comparizione, che non costituisce più la prima di una predeterminata e rigida serie di udienze di trattazione e di ammissione delle prove, ma soltanto la prima (e potenzialmente anche l’ultima) di una serie duttilmente adeguata alle esigenze della lite», ciò sembra confermare l’indirizzo giurisprudenziale che si è criticato. In realtà, andrebbe riesumata la vecchia polemica sulla disponibilità o meno della sequenza processuale, vista anche la natura pubblicistica del processo.
[88] Cfr., VELLANI, op. cit., 537; BARONE, op. cit., 5.
[89] PICARDI, Codice civile di procedura civile commentato, Milano, 2000, 197
[90] Per quanto concerne i gravi motivi, essi devono essere riferibili alla fase dello svolgimento dell’attività , altrimenti, qualora siano riferiti alla fase della valutazione dell’operato del consulente, sarebbero dei presupposti per la rinnovazione delle c.t.u., in tal senso, cfr. PROTETTI’, La consulenza tecnica nel processo civile, cit., 120-121.
[91] Cfr., MARTINO, op. cit., 160, il quale sostiene la progressività tra i due istituti. A simile impostazione non si può convenire, atteso che gli istituti in parola, sebbene siano previsti dalla stessa norma, hanno presupposti di fatto e funzione dialmetramente opposte.
[92] In merito Cfr., Cass., 4-8-1995, n. 8611, RFI, 1995, «Consulente tecnico» n. 19.
[93] PROTETTI’, La consulenza tecnica nel processo civile, cit., 120; in giurisprudenza, cfr., Cass. sez. lav., 10-6-1998, n. 5777, Riv. it. medicina legale 1999, 985; inoltre, la giurisprudenza ritiene che nonostante vi sia stata la rinnovazione della consulenza in appello, il giudice non sarebbe vincolato al rispetto delle risultanze di questo rinnovato accertamento, potendo fondare la propria decisione sulla base del pregresso accertamento, cfr., Cass., 27-3-1998, n. 3240, RFI; 1998, «Consulente tecnico», n. 38; Cass., sez. lav., 22-11-1979 n. 6092,
[94] Cfr., Cons.giust.amm. Sicilia sez. giurisd., 23-12-1999, n. 681, CS, 1999, I, 2197; per l’affidamento degli incarichi ad amministrazioni che non siano parti del giudizio, cfr., Cons.giust.amm. Sicilia sez. giurisd., 18-3-1998, n. 174; Riv. giur. polizia 1999, 106; in dottrina cfr., SPAGNUOLO VIGORITA, op. cit., 12 ss., LAZZARA, «Discrezionalità tecnica» e situazioni giuridiche soggettive, cit., 212 ss.
[95] Cfr., LUISO, Il principio del contraddittorio e l’istruttoria nel processo amministrativo e tributario, DPrA, 2000, 328 ss.
[96] Per una disamina dell’istruzione probatoria in appello cfr., TEDOLDI, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000; RUFFINI, La prova nel giudizio civile di appello, Padova, 1999.
[97] La giurisprudenza ritiene che rientri nei poteri discrezionali del giudice di appello non solo disporre la rinnovazione della consulenza in appello, ma addirittura fondare il proprio convincimento sulla base della consulenza di primo grado, cfr., Cass., 27 marzo 1998, n. 3240,cit;
[98] Tuttavia v’è da considerare che la rinnovazione della consulenza in appello, ipotesi distinta da quella proposta nel testo, generalmente è considerata dalla giurisprudenza, purché la rinnovazione si limiti alla sola rivalutazione tecnica dei risultati della prima consulenza, come non ricadente sotto il fuoco dell’art. 345 c.p.c., cfr., Cass., 19-5-1999, n. 4852, Danno e resp. 1999,1104.
[99] Cfr., LUISO, Diritto processuale civile. II. Il processo di cognizione, Milano, 375 ss., per il quale non si ha prova nuova quando: la richiesta istruttoria sia stata già avanzata in primo grado, ma questa sia stata disattesa (in tale ipotesi la riproposizione della domanda o dell’eccezione su cui il giudice ha evitato di pronunciarsi fa rivivere ex se le istanze istruttorie), nel caso di richiesta di riassunzione perché la prova è stata assunta male (è il caso della richiesta di rinnovazione della consulenza). In giurisprudenza prevale l’indirizzo di ammettere con una certa larghezza le prove nuove precostituite, in particolare i documenti, cfr., Cass., sez. lav., 22 luglio 1987, n. 6381, GCM, 1987, VII.
[100] Cfr., TEDOLDI, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000, 256 ss.
[101] Sul tramonto del principio di oralità, cfr., VOCINO, Oralità, ED,  XXX, Milano, 1980, 610, per una completa disamina del problema in appello e con un’ampio riferimento delle posizioni dottrinali, cfr., RUFFINI, La prova nel giudizio civile di appello, cit., 135-188.
[102] Cfr., nota 96.
[103] Per il principio di economia processuale, COMOGLIO, Il principio di economia processuale, II, Padova1982, 33; contra, nel senso che l’economia può nuocere all’immediatezza, cfr.,CARNELUTTI, Il sistema del diritto processuale civile, II, Padova, 1938, 638
[104] Cfr., CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, Milano, 1962, 130
[105] Sulla elaborazione e sulla attuale vigenza del principio cfr., RUFFINI, La prova nel giudizio civile d’appello, cit.,69-78.
[106] Per questa nozione di prova non nuova, cfr., RUFFINI, op. cit., 189
[107] Cfr., RUFFINI, op. cit., 69 ss.
[108] Cfr., TEDOLDI, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000, 176-177.
[109] Cfr., op. ult. cit., 177 ss.
[110] Cfr., TEDOLDI, op. ult. cit., 180-187.
[111] Cfr., RUFFINI, op. cit., 188 ss.
[112] In tal senso, cfr., TEDOLDI, L’istruzione probatoria nell’appello civile, cit., 245 ss. BALENA, La riforma del processo civile di cognizione, Napoli, 1994, 427; FAZZALARI, Il processo ordinario di cognizione , II, Torino, 1990, 52; BUCCI-CRESCENZA-MALPICA, Manuale pratico del processo civile, Padova,1991, 238, in giurisprudenza v. Cass. 30-7-1987, 6594
[113] Sulla intrinseca connessione dell’indagine delle prove nuove al tema delle nuove eccezioni e delle nuove domande, cfr., LUISO, Diritto processuale civile, II, cit., 376.
[114] Cfr. RUFFINI, La prova nel giudizio civile d’appello, Padova, 1999, 100 ss; TEDOLDI, op. cit., 171;TARZIA; Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, 78;LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, 307; in giurisprudenza, cfr., Cass., 11-9-1996, n. 8219, GI, 1997, I, 1, 1242,
[115] Cfr., LIEBMAN, Fondamento del principio dispositivo, RDPr, 1960, 551; MONTESANO, Le prove disponibili d’ufficio e l’imparzialità del giudice civile, RTPC, 1978, 189, VERDE, Dispositivo (principio), cit.
[116] Cfr., TEDOLDI, op. cit., 254-256.
[117] Cfr., LESSONA, Trattato delle prove in materia civile, I, Torino, 1927, 348, per cui «la prova nuova, (omissis), è così la prova che ha per oggetto diverso e mezzo identico, quanto quella che ha per oggetto identico e mezzo diverso».
[118] Sul tema in particolare cfr., TEDOLDI, op. loc. cit., 113 ss., anche se già altri commentatori avevano rilevato la differenza tra i due concetti, cfr., FERRI, Profili dell’appello limitato, 145 PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo ordinario di cognizione di primo grado e d’appello, FI, 1991, V, 318 ss.; BALENA; La riforma del processo di cognizione , Napoli, 1994, 181; tuttavia, v’è da chiarire che anche in merito all’allegazione di nuovi fatti a suffragio delle eccezioni rilevabili d’ufficio, c’è chi ha sostenuto che il giudice non avrebbe dei poteri di allegazione ma solo il potere di rilevare ex officio l’effetto giuridico prodotto del fatto già allegato dalle parti, cfr., CAPPONI, in VACCARELLA-CAPPONI-CECCHELLA, Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992, 272; ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 73 ss e 160; COSTANTINO, in AA.VV., Provvedimenti urgenti per il processo civile, a cura di G. Tarzia e F. Cipriani, Padova, 1992, 87; contro questa ricostruzione cfr., FABBRINI, L’eccezionidi merito nello svolgimento del giudizio di cognizione , in Studi in memoria di Carlo Furno, Milano, 1973, 504.
[119] Per una completa ricostruzione delle varie tesi sul concetto di indispensabilità, cfr., RUFFINI, La prova nel giudizio civile d’appello, cit., 14-33 e 239 ss.
[120] Cfr., SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 1996, 573
[121] Cfr. TEDOLDI; op. cit., 190 ss.Questa distinzione è stata usata dall’autore al fine di proprorre una soluzione alternativa a quella proposta già da PROTO PISANI (cfr., PROTO PISANI, op. ult. cit., 213 ss.), per la quale la prova sarebbe indispensabile qualora la esistenza o l’inesistenza di un fatto siano state affermate in primo grado sulla base della regola di giudizio costituita dall’onere della prova. Sul fondamento di tale regola, cfr., VERDE, L’onere della prova, Camerino, 1974, 17-20 e26-27
[122] Sulla natura indeterminata di questo concetto, cfr. SASSANI, Commentario alla riforma del processo civile, a cura di CONSOLO-LUISO-SASSANI, Milano 1996, 389 ss., per il quale dell’indispensabilità non si può fare un vero e proprio concetto univoco ed unico spendibile in ogni situazione, ma esso andrebbe chiarito facendo riferimento al concetto, contenuto nello stesso articolo, dell’assenza di colpa nel non aver disposto in primo grado il mezzo di prova richiesto; infatti, essendovi un collegamento tra allegazione di nuovi fatti e diritto di prova per effetto dell’art. 2697 c.c., tutte le volte che nuovi fatti siano entrati nel processo solo in appello essi sono bisognevoli di prova. Pertanto, in simili ipotesi, il non ammettere le prove richieste sarebbe da considerare come una violazione del diritto alla difesa ex art 24 Cost. sub species del diritto al contraddittorio; per una diversa opinione, cfr., MANDRIOLI, Diritto Processuale civile. II. Il processo di cognizione, Milano, 2000, 417.
[123] Cfr., LUISO, Il processo del lavoro, cit.,
[124] Tuttavia, per quanto concerne la consulenza, la richiesta di rinnovazione, secondo la giurisprudenza, non darebbe luogo all’applicazione del divieto di cui al terzo comma dell’art. 345 c.p.c. laddove la parte ne richieda la rinnovazione limitatamente alle valutazioni tecniche fatte proprie dal giudice, cfr., Cass., 19 maggio 1999, n. 4852, Danno e resp. 1999,1104; Cass., 29 novembre 1995, n. 12416, GCM, 1995, XI. Simile pronuncia fa implicitamente intendere che qualora invece si vogliano censurare gli accertamenti della consulenza allora essa va sottoposta al regime delle prove nuove in appello. Inoltre, il giudice potrebbe anche semplicemente chiedere spiegazioni al consulente nominato in primo grado senza dar luogo alla rinnovazione; cfr., Cass. sez. lav., 10 giugno 1998, n. 5777, Riv. it. medicina legale 1999, 985.
[125] Questa preoccupazione ed in particolare che il criterio dell’indisponibilità non fungesse da una generale sanatoria delle preclusioni istruttorie maturate è stata sentita da più autori; per una completa disamina cfr., RUFFINI, La prova nel giudizio civile d’appello, cit., 20 e 239 ss.;
[126] Cfr., MONTESANO-VACCARELLA, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, 272.
[127] Cfr., TEDOLDI, op. cit., 283-287.
[128] Per l’assenza di un criterio di indispensabilità per l’esercizio in appello dei poteri ufficiosi, cfr., LUISO, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 292, sulla sua necessità cfr., invece, MONTESANO-VACCARELLA, op. cit., 272.
[129] La problematica ruota attorno alla corretta individuazione e nel senso che si vuole attribuire all’espressione “domande ed eccezioni non accolte” dell’art. 346 c.p.c. Nel senso che le domande di cui all’art. 346 c.p.c. comprendano anche le domande istruttorie cfr., CHIARLONI, L’impugnazione incidentale nel processo civile, Milano, 1969, 146 ss., BONSIGNORI, L’effetto devolutivo dell’appello, RTDpC, 1974, 1326.
[130] Questo sembra essere l’indirizzo prevalente della giurisprudenza, cfr., Cass., 5-7-1996, n. 170, FI, 1997, I, 2262; Cass., 19-6-1993, n. 6843, RFI, 1993, «Appello civile», n. 47; Cass., 8-5-1993, n. 5320, ibid, 50; in dottrina cfr., RUFFINI, La prova nel giudizio civile d’appello, cit., 54; nondimeno, non sono assenti delle pronunce discordanti, cfr., Cass., 17-8-2000, n. 10902, RFI, 2000, «Lavoro e previdenza», n. 226; Cass., 22 marzo 1994, n. 2716, RFI, 1994, cit., n. 244; Cass., 28-4-1975, n. 1647, RFI, 1975, «Appello civile», n. 119; Cass. 7-8-1990, n. 7961, RFI, 1990, «Prova documentale», n. 36;
[131] Cfr., Cass., 26- 10- 2000, n. 14135, con nota di RASCIO, Una (condivisibile) decisione circa la necessità di riproporre in appello le istanze disattese dal giudice di primo grado, FI, 2002, I, 227 ss.
[132] In senso contrario, cfr., Cass., 5 luglio 1996, n. 6170, FI, 1997, I, 2262, con nota di RASCIO, che ritiene la riproposizione necessaria perché la riproposizione è strumentale alla pronuncia in quel grado. Tuttavia, è difficile che il giudice possa semplicemente disattendere la richiesta di consulenza sic et simpliciter senza incorrere in un vizio di motivazione della stessa sentenza, perciò solo ricorribile in cassazione, cfr., Cass., 20 febbraio 1998, n. 1783, MCC, 1998, n. 6047; acutamente, parte della dottrina ha ritenuto che qualora la richiesta del mezzo istruttorio (non ammesso in primo grado) vada a costituire una delle ragioni dell’appello, non basterà la semplice riproposizione, ma sarà necessario un motivo specifico d’appello; al contrario, qualora la richiesta di una prova “non accolta”rientri nella censura della generale ingiustizia della statuizione del primo giudice, allora sarà sufficiente la semplice riproposizione, cfr., TEDOLDI, L’istruzione probatoria nell’appello civile, cit., 155-156.
[133] Cfr., TEDOLDI, op. cit., 160-163.
[134] In varia maniera, cfr., MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, cit., 413, nota 2; ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, cit., 151 ss.; CHIARLONI, Appello (dir. proc. civ.), EG Traccani, II, Roma, 1988, 11.
[135] Cfr., RUFFINI, op. cit., 53.
[136] Cfr., TEDOLDI, op. cit., 158-160.
[137] Tuttavia, va rilevato come la giurisprudenza non senta questo problema, sostanzialmente affermando la completa riproponibilità della consulenza al di là di una richiesta rituale o meno delle parti, cfr., Cass, sez. lav., 10-6-1998, n. 5777, RFI, 1998, «Consulente tecnico», n. 25
[138] In particolare, come sostenuto in giurisprudenza, la confutazione delle ragioni del consulente non può essere vaga o indefinita, salvo incorrere in un evidente ed insuperabile vizio di motivazione, ma deve essere ancorata «alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivata, dovendo  indicare in particolare gli elementi di cui si e' avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali  il consulente si e' basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico - giuridici per addivenire alla  decisione contrastante con il parere del c.t.u. In materia di valutazione di immobili ai fini della liquidazione», cfr., Cass., 14-1-1999, n. 333, RFIt., 1999, «Consulente tecnico», n. 24; Cass., 11-12-1999, n. 13863, GCM, 1999,2485.
[139] Cfr., Cass. sez. lav. , 23-11-1994, n. 9929, RFI., 1995, «Consulente tecnico», n. 30
[140] Cass. sez. lav., 4-2-1999, n. 996, GCM, 1999, 263.
[141] Corte cost. 13-4-1995, n. 124, GiC. 1995, 970
[142] Cass., 21-8-1985, n. 4460, GI. 1986, I, 1, 195;
[143] Cass. sez. lav., 23 maggio 1998, n. 5151, GCM. 1998,1118, Cass., 28 luglio 1989 n. 3527, GCM. 1989, fasc. 7.
[144] Cass. 9-5-1988, n. 3505, Cass., 25-3-1987, n. 2900, GCM, 1987, III.
[145] Cass., 10-1-1995, n. 245, Giust. civ. Mass. 1995, 43; Cass., 21-2-1995, n. 1863, GCM. 1995, 390
[146] Cfr., Cass., 29-9-1997, n. 8240, GCM, 1997, 1566.
[147] Cfr., Cass., 19 maggio 1997, n. 4437, GCM, 1997, 785: Per cui a simile conclusione si giunge considerando l’impossibilità giuridica di ammettere una formazione stragiudiziale della consulenza. Se si pone mente al processo amministrativo si può subito cogliere, secondo l’insegnamento di alcuni autori, che proprio la limitatezza dei mezzi di cognizione, anche dopo la legge 205/2000, non permetterebbe l’esperimento della testimonianza del perito di parte, al di fuori delle cause risarcitorie, cfr., TRAVI, Giustizia amministrativa e giurisdizione esclusiva nelle recenti riforme, FI, 2001, V, 68 ss., 73.
[148] Così, v. Cass. sez. lav. 23-12-1999, n. 14483, RFI, 1999 «Consulente tecnico», n. 29 ;Cass. 1-10-1999, n. 10870, RFI, 1999 «Consulente tecnico», n. 30.
[149] Tuttavia l’obbligo di motivazione esplicita del non accoglimento delle risultanze della consulenza di parte si radica solo laddove la consulenza non si sia limitata ad una generica censura dell’operato del c.t.u., ma abbia avuto carattere circostanziato e specifico in modo da condurre, ove sene accerti il fondamento, ad una decisione diversa da quella adottata in sentenza, cfr., Cass. 9-12-1995, n. 12630, RFI, 1995, «Consulente tecnico», n. 23; Cass., 22-4-1982, RFI, 1982, «Consulente tecnico», n. 29
[150] V’è da precisare come la giurisprudenza aveva già sostenuto che la richiesta di parte di una nuova consulenza deve essere disattesa con valide argomentazioni, cfr., Cass., sez. lav., 14 luglio 1994, n. 6593, RFI, 1995, «Consulente tecnico», n. 20, quindi a maggior ragione è tenuto a motivare il diniego quando l’esigenza della consulenza sia derivante dalle risultanze di una c.t.p.
[151] Cfr., Cons. Stato sez. IV, 29 novembre 2000, n. 6335, FA, 2000, XI; T.A.R. Friuli Venezia Giulia 20 febbraio 1991 n. 62, FA, 1991, 2345.
[152] Cfr., Cons. Stato sez.V 19 novembre 1992 n. 1336, CS, 1992, 1633.
[153] Per una completa disamina dei principi costituzionali attinenti al processo ed al loro grado di attuazione, cfr., TROCKER, Processo civile e costituzione, Milano, 1974
[154] In tal senso, LUISO, in CONSOLO LUISO SASSANI, La riforma del processo civile, Milano,
[155] Così, SABATO, Deduzioni istruttorie delle parti e mezzi di prova disposti d’ufficio: riflessioni sul nuovo testo dell’art. 184 c.p.c., FN, II,1996,
[156] In realtà la possibilità di produrre nuove prove avvalendosi dell’ultimo comma dell’art. 184 c.p.c. e per ciò solo eccedendo il limite della preclusione – cosa che non avviene nel caso di prova documentale - deve trovare il proprio fondamento sull’assenza di colpa, potendosi affermare il parallelismo con l’art. 184 bis. Infatti, laddove l’esigenza della consulenza sia stata dovuta alla strategia processuale di una parte, questa deve sopportare, per il principio dell’autoresponsabilità, gli effetti del proprio comportamento. Tuttavia, appare almeno criticabile questo orientamento laddove si consideri che la parte potrebbe considerare favorevole a sé la prova solo all’esito della consulenza tecnica. Quindi, la produzione successiva della controprova risponderebbe al principio di difesa, venendo così in rilevo anche l’aspetto necessitato della prova di cui al 184 ult. comma c.p.c.
[157] Cfr., SABATO, Deduzioni istruttorie e mezzi di prova disposti d’ufficio: riflessioni sul nuovo testo dell’art. 184 c.p.c., cit.
[158] Occorre precisare che la preclusione collegata all’attività istruttoria non è collegata al luogo fisico della terza udienza ossia quella del 184 c.p.c., bensì, come ha sostenuto la Suprema Corte, essa è legata al momento di svolgimento dell’attività istruttoria in qualsiasi udienza essa avvenga, sia pure quella di cui al 183 c.p.c.,dato che le attività previste dal 184 c.p.c. sono esperibili nella stessa udienza di trattazione salvo che non venga richiesto il doppio termine per il deposito delle memorie, cfr., T. Pistoia, 20-06-1997, FI, 1997, I, 3693,; in dottrina cfr., CAPPONI (CAPPONI-VACCARELLA-CECCHELLA), Il processo civile dopo le riforme, Torino 1992, 103 ss., BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, GI, 1996, IV, 265.
[159] Sulla necessità di ulteriori prove a seguito dei risultati delle prime, cfr., SASSANI, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, Commento alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 168.
[160] Cfr., BOVE, La perizia arbitrale, Torino, 2001.
[161] Sono state elaborati in merito cinque grandi filoni di pensiero, cfr., BOVE, op. cit., 9-10.
[162] Cfr., BOVE, La perizia arbitrale, cit., 3-8.
[163] Cfr., SACHSE, Beweisvertage, in ZZP, (54), 1929, 409 ss.; per l’intera probelamtica die contratti processuali, SCHIEDEMAIR, Vereinbarungen im ZivilprozeB, Bonn, 1935.
[164] Già Santoro Passarelli, riconosceva diritto di cittadinanza a questa categoria e soprattutto distingue tale istituto dal potere di accertamento del giudice, laddove sostiene che «le parti, nel negozio di accertamento (corsivo nostro), hanno a differenza del giudice, un potere di disposizione, e non di accertamento in senso proprio. Possono rendere certa la situazione disponendone», cfr., SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1976, 177 ss.
[165] Cfr., sul tema della introduzione della confessione stragiudiziale nel processo, VERDE, Profili del processo civile, II, cit., 123-126
[166] Cfr., BOVE, op. cit., 162 -170.

di Luca Petrone - tratto da: www.judicium.it