Le soglie di fallibilità alla luce del decreto correttivo della riforma del diritto fallimentare
Il D.Lgs. 12 settembre 2007 n. 169, (pubblicato in G.U. 16 ottobre 2007, n. 241) contenente disposizioni correttive ed integrative del D.Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 , attuativo della riforma del diritto fallimentare, ha riscritto completamente l'art. 1 L.F., rivedendo i requisiti dimensionali previsti per l'esclusione del fallimento e prevedendo che l'onere della prova del possesso congiunto delle soglie di fallibilità gravi sul debitore.
Come è noto, l'art. 1, comma 5-bis, L. 14 maggio 2005, n. 80 ha concesso al Governo la facoltà di emanare - entro un anno dall'entrata in vigore della riforma del diritto fallimentare - disposizioni correttive ed integrative del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 , attuativo della riforma citata. Il Consiglio dei Ministri, in forza di un supplemento di delega ottenuto dall'attuale Parlamento, il 12 settembre 2007 ha emanato il Decreto legislativo n. 169 (pubblicato in G.U. 16 ottobre 2007, n. 241) contenente le predette disposizioni correttive, la cui entrata in vigore, tuttavia, è prevista per il 1 gennaio 2008.
La principale novità contenuta nel D. Lgs. n. 169/2007 è senza dubbio rappresentata dalla riformulazione dell'art. 1 L.F. in tema di presupposti soggettivi del fallimento, con la evidenziazione del soggetto su cui incombe l'onere della prova.
Al riguardo, il legislatore chiamato ad integrare ed apportare modifiche alla recente legge fallimentare ha tenuto conto del fatto che l'eccessiva riduzione dell'area di fallibilità, venutasi a determinare a seguito della riforma delle procedura concorsuali, ha in più di un'occasione evitato l'assoggettamento al fallimento di imprese di rilevanti dimensioni, con conseguente danno, sia per i creditori insoddisfatti, che per l'economia in generale. L'art. 1 D.Lgs. n. 169/2007 ha riscritto completamente l'art. 1 L.F., sia nella definizione dei presupposti soggettivi al fallimento, sia in relazione all'attribuzione dell'onere della prova.
E' noto che l'art. 1, primo comma, L.F., come riformato dal D.Lgs. n. 5/2006 , esclude dal fallimento e dal concordato preventivo i piccoli imprenditori. Tale nozione viene successivamente integrata dal secondo comma della norma richiamata, dove, tuttavia, viene proposta una definizione in negativo. In particolare, si afferma che "ai fini del primo comma" non sono piccoli imprenditori gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente:
- abbiano effettuato investimenti nell'azienda per un capitale il cui valore complessivo ecceda euro trecentomila;
- abbiano realizzato, in qualsiasi maniera, ricavi lordi calcolati in base alla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività, qualora di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila.
L'infelice formulazione dell'art. 1 L.F. ha generato dubbi sulla interpretazione della nozione di piccolo imprenditore ai fini fallimentari, sulla esatta definizione del parametro relativo agli investimenti ed sull'attribuzione dell'onere della prova.
Sotto il primo aspetto, a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 5/2006 , si rinvengono nell'ordinamento due nozioni, per certi aspetti divergenti ed antitetiche, di piccolo imprenditore: la prima, positivamente disciplinata dal codice civile, all'art. 2083, secondo cui appartengono alla categoria dei piccoli imprenditori "i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia", fondata su criteri qualitativi; la seconda, disciplinata in senso negativo dall'art. 1, comma 2, L.F., basata su parametri quantitativi.
Comparando le definizioni normative descritte, emerge, quale maggior elemento di dissonanza, la differente formulazione letterale adottata dal legislatore della riforma fallimentare che, nella difficoltà di coordinamento rispetto alla norma di diritto civile, ha preferito delineare la nozione di piccolo imprenditore in senso negativo, individuando cioè le condizioni in presenza delle quali si assume la qualifica di imprenditore non piccolo.
Ciò ha dato origine a due diversi orientamenti giurisprudenziali completamente contrapposti tra di loro. Un primo, prevalente (v. Tribunale di Milano, circolare Presidente Quatraro 21 dicembre 2006; Tribunale di Torino, 11 gennaio 2007; Tribunale di Mantova, 1° febbraio 2007, Trib. Roma 20 febbraio 2007), che considera sufficiente il mancato raggiungimento dei limiti quantitativi di cui al già menzionato art. 1 L.F. per essere sottratti alla dichiarazione di fallimento; un secondo, minoritario (Tribunale di Firenze, per tutte 31 gennaio 2007), che, al fine dell'individuazione della fattispecie del piccolo imprenditore non fallibile, ritiene non sufficiente aver riguardo al mancato superamento dei limiti degli investimenti e dei ricavi di cui all'art. 1, comma 2, citato, reputando determinante la valutazione della sussistenza dei requisiti previsti dall'art. 2083 c.c.
Relativamente all'individuazione dei parametri quantitativi richiesti dal legislatore fallimentare, legati alla media dei ricavi lordi ed al capitale investito, si osserva, in primo luogo, come se, da un lato, con riferimento all'elemento economico (ricavi) si sia individuato con esattezza l'intervallo temporale di riferimento, dall'altro lato, in merito al requisito patrimoniale (investimenti) non si dice nulla. Su questo punto, il Tribunale di Roma, decreto 12 dicembre 2006 (conforme: Trib. Sulmona 30 gennaio 2007; Trib. Pescara 26 ottobre 2006), basandosi sul presupposto della identità di ratio delle due disposizioni (ricavi ed investimenti), ha precisato che la verifica del superamento della soglia del capitale investito, al pari dei ricavi lordi, deve essere compiuta con riferimento agli ultimi tre esercizi antecedenti il deposito dell'istanza.
In secondo luogo, per ciò che attiene all'espressione "investimenti nell'azienda", si osserva che il legislatore della riforma non ha fornito alcuna ulteriore specificazione, "costringendo" gli interpreti a ricorrere a quanto suggerito dalla scienza aziendalistica. A tal proposito, in dottrina si sono avute diverse opinioni: secondo alcuni, il capitale investito andrebbe identificato nel valore dei conferimenti di capitale da parte dei soci o dell'imprenditore; per altri, invece, il totale del capitale investito corrisponderebbe all'intero attivo di bilancio; altri ancora identificano gli investimenti nel totale dell'attivo al netto dei crediti verso soci per versamenti ancora dovuti e dei ratei e dei risconti attivi.
Relativamente all'onere della prova, infine, la legge fallimentare riformata dal D. Lgs. n. 5/2006 nulla dice in merito al soggetto sul quale incombe dimostrare la qualità di piccolo imprenditore del debitore. Al riguardo, si è discusso in merito a se si tratti di requisiti che costituiscono il concetto di imprenditore commerciale fallibile, al pari della natura commerciale dell'impresa e della insolvenza, per i quali l'onere della prova incombe su chi propone l'istanza di fallimento, o, al contrario, come sembra più logico, se si tratti di peculiari caratteristiche dell'imprenditore, che lo esonerino dalla regola della fallibilità, con conseguente trasferimento dell'onere di provare tale qualità a carico del debitore che si oppone alla dichiarazione di fallimento.
Le prime interpretazioni fornite dai giudici di merito sull'argomento propendono per questa secondo soluzione. In particolare, per il Tribunale di Firenze (cfr., per tutte, sentenza 31 gennaio 2007) l'onere di provare la qualità di piccolo imprenditore, ai sensi dell'art. 2083 c.c., nonché il mancato superamento del limite dimensionale di cui all'art. 1, secondo comma, L.F. incombe sul debitore, essendo a carico del creditore istante soltanto la dimostrazione della qualità di imprenditore commerciale del fallendo. A conclusione analoga, anche se con un percorso interpretativo diverso, è pervenuto il Tribunale di Torino (sentenza 11 gennaio 2007), secondo cui la prova del mancato raggiungimento dei limiti dimensionali di cui al secondo comma dell'art. 1 L.F. incombe sul debitore in via d'eccezione. Il Tribunale di Roma, sentenza 10 maggio 2007, infine, ha ritenuto fallibile, in presenza dei requisiti idonei e nella impossibilità di acquisire d'ufficio la relativa documentazione, l'imprenditore commerciale che nulla eccepisce o produce in merito alla sua qualità di piccolo imprenditore, dopo aver esaurito qualsiasi possibilità di indagine.
La nuova riformulazione dell'art. 1 L. F. operata dal D. Lgs. n. 169/2007 rivede completamente i requisiti dimensionali previsti per l'esclusione del fallimento, sancendo altresì che l'onere della prova del possesso congiunto delle soglie di fallibilità gravi sul debitore.
Sotto il primo profilo, scompare il riferimento al piccolo imprenditore contenuto nel primo comma dell'art. 1 come riformato dal D.Lgs.n. 5/2006 e la definizione di imprenditore non piccolo di cui al secondo comma dell'articolo citato.
Il novellato art. 1, primo comma, L.F., chiarisce che sono soggetti al fallimento ed al concordato preventivo gli imprenditori commerciali, esclusi gli enti pubblici. Il secondo comma, a sua volta, evidenzia che le disposizioni sul fallimento ed il concordato preventivo non si applicano agli imprenditori commerciali i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti tre requisiti:
1. abbiano avuto, nei tre esercizi precedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività, qualora di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo per ciascun anno non superiore a euro trecentomila;
2. abbiano realizzato, in qualsiasi maniera, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività, se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a euro duecentomila;
3. abbiano un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a euro cinquecentomila.
Relativamente ai requisiti di fallibilità, pertanto:
- viene sostituito il volume degli investimenti con la più semplice definizione dell'attivo patrimoniale, individuato nell'elenco di cui all'art. 2424 c.c., con la precisazione che l'attivo patrimoniale complessivo annuo (di entità non superiore a euro trecentomila), da prendere in considerazione, è soltanto quello inerente agli ultimi tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento;
- viene meglio precisato il criterio dei ricavi lordi, richiedendosi ora che, in nessuno dei tre esercizi precedenti la data del deposito dell'istanza di fallimento, l'imprenditore abbia realizzato ricavi lordi annui superiori ad euro duecentomila;
- viene aggiunto al parametro legato ai ricavi ed a quello inerente all'attivo patrimoniale un terzo elemento fondato sull'indebitamento.
Viene, inoltre, elevata da euro venticinquemila a euro trentamila la soglia, legata all'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dall'istruttoria prefallimentare, che impedisce la dichiarazione di fallimento (art. 15, ultimo comma, L.F., come modificato dall'art. 2, quarto comma, D.Lgs. n. 169/2007).
Sotto il profilo processuale, infine, viene attribuito all'imprenditore commerciale fallendo di provare di non aver superato nel periodo considerato alcuno dei tre predetti requisiti, con la conseguenza che il mero superamento di uno soltanto di tali parametri, così come la scelta del debitore di non difendersi in sede di istruttoria prefallimentare, determineranno il fallimento di quest'ultimo.